Chimica e socialismo
04 agosto 2004
di Giuseppe Manfrin
da Avanti della Domenica - 23 febbraio 2003 - anno 6 - numero 08
Con la fine della guerra 1915 - ’18, nella società italiana esplosero quei fenomeni dai quali sarebbe nato il cosiddetto “biennio rosso”. Esisteva in quegli anni, un forte disagio economico delle classi popolari che favorì l’aumento della tensione sociale e delle manifestazioni di protesta contro il carovita. Al Congresso nazionale del Psi (Bologna 1919) vinse la maggioranza massimalista attorno a Giacinto Menotti Serrati, il quale si faceva interprete delle aspirazioni rivoluzionarie che prevalevano fra i militanti socialisti, ma rimaneva anche legato alla tradizione fatalistica del rivoluzionarismo italiano. Serrati era combattuto tra l’entusiasmo per il mito russo ed il realismo che lo legava alla tradizione del Psi, infatti sarebbe stato protagonista di uno scontro diretto con Lenin, in merito all’autonomia nazionale dei partiti operai.
Così Gaetano Arfé, descrisse quel periodo: “…Accade così che la direzione del partito, promette con parole di fuoco, al proletariato e alla borghesia la rivoluzione vera, cruenta, con barricate, sparatorie e conquista a mano armata delle roccheforti nemiche, limita il proprio contributo all’approfondimento verbale degli ‘abissi divisionali’ tra le contrapposte classi e alla registrazione di sintomi che dimostrano la irreversibilità del processo di decomposizione di cui è vittima la società borghese, in tutte le sue espressioni e in tutti i suoi istituti”. Nel cosiddetto “Biennio rosso” (1919-’21) i socialisti lasciarono crescere la protesta politica e sindacale senza dare ad essa un obiettivo preciso. La direzione socialista nel 1919, con voto di maggioranza (10 voti contro 3) aderì alla terza Internazionale di Mosca. Nelle elezioni del novembre 1919, con la applicazione della proporzionale a scrutinio di lista, si verificò la grande avanzata del Psi che vide triplicata la propria forza e portò gli eletti a 156.
Fra i nuovi eletti a Padova vi fu un professore di chimica, Gino Panebianco (nella foto del 1919), nacque a Portoferraio (Isola d’Elba) il 15 settembre 1880. Dopo gli studi liceali si iscrisse alla facoltà di Chimica all’Università di Padova. Conseguita brillantemente la laurea, continuò le sue ricerche pubblicando alcuni interessanti studi. Per alcuni anni fu assistente universitario e lavorò come chimico presso un cotonificio artificiale. Il padre di Gino Panebianco era stato uno dei maggiori esponenti del socialismo patavino negli ultimi anni del secolo XIX°. Anche il giovane chimico, seguendo le orme paterne, si iscrisse al Psi. Ben presto, le capacità organizzative ed oratorie lo misero in luce e divenne uno dei dirigenti più in vista del Psi di Padova. Fu anche fra i più attivi redattori del foglio socialista locale “L’eco dei lavoratori” e divenne anche corrispondente dell’“Avanti!”. Nel 1905 e nel 1910 venne eletto consigliere comunale della città e fece parte della maggioranza quando la coalizione formata da socialisti, radicali e repubblicani riuscì a battere il blocco clerico-moderato.
Fu contro l’impresa libica del 1911; coerente come pacifista e internazionalista fu contro l’intervento dell’Italia nel primo conflitto europeo. Richiamato alle armi nel 1916 fu assegnato ad una compagnia di Sanità di stanza a Padova, ma per le sue idee neutralistiche fu segnalato alle autorità militari e fu costantemente vigilato. Finita la guerra, venne congedato e tornò all’attività politica. Nella situazione che s’era venuta a creare nel paese in quel dopoguerra, della quale abbiamo accennato all’inizio; dopo l’esperienza della guerra e gli eventi russi, maturò anche in Panebianco, la convinzione che la borghesia non fosse più in grado di fronteggiare la grave crisi sociale ed economica di quel periodo e che per il proletariato si aprissero perciò concrete prospettive rivoluzionarie. Nell’ottobre del 1919, con il Congresso di Bologna aderì alla mozione massimalistica-elezionalista di Serrati e in quella sede, Panebianco fu l’estensore di un ordine del giorno che rivendicava la più ampia libertà di autodecisione per le popolazioni tedesche dell’Alto Adige e di quelle slave della Venezia Giulia. Il 16 novembre 1919, Gino Panebianco, assieme a Giantristano Carazzolo, Armando Furian, Felice Pavan, fu eletto deputato per la XXV legislatura. Venne riconfermato nelle elezioni politiche del 1921, nella nuova Circoscrizione di Padova-Rovigo, assieme a Giacomo Matteotti e Dante Gallani. Nel Parlamento presentò numerose interrogazioni ed intervenne per denunciare le violenze fasciste nei confronti delle organizzazioni proletarie del padovano e del Polesine. Fu tra i promotori di un progetto di legge per la socializzazione della terra, elaborato dalla Federterra e dalla Cgdl e presentato alla Camera l’8 dicembre 1921. In questo periodo, Panebianco si allontanò dai massimalisti per avvicinarsi ai “centristi”, ma nel Congresso di Roma del 1922, si pronunziò a favore della mozione unitaria e, dopo l’espulsione dei riformisti, aderì al Psu di Turati e Matteotti. Durante il fascismo si dedicò interamente alla professione di chimico, pur conservando intatta la sua fede di socialista. Anche sul posto di lavoro venne costantemente vigilato. Lavorò nel colorificio di Cesano, alla Viscosa di Palestro ed infine come direttore dello stabilimento Sapi di Chivasso. Morì a Farro d’Isonzo il 18 agosto 1942.