Ancona, la settimana rossa
04 agosto 2004
di Giuseppe Manfrin
da Avanti della Domenica - 10 marzo 2002 - anno 5 - numero 10
Al congresso nazionale del Psi di Ancona (1914) venne riconfermata la maggioranza intransigente già vincitrice al congresso di Reggio Emilia (1912). Alla vittoria della sinistra di Ancona, seguì una nuova affermazione dei riformisti all’interno della Confederazione Generale del lavoro, ma questo apparente equilibrio in cui il partito sembrava attestato, venne nuovamente turbato dalle vicende della "settimana rossa". Pietro Nenni che nel 1913 assunse la direzione del foglio repubblicano di Ancona "Lucifero" e che all’inizio del 1914 assunse la segreteria della Consociazione repubblicana delle Marche, si trovò alla guida della manifestazione antimilitarista del 7 giugno 1914 (giornata celebrativa dello Statuto del regno) ad Ancona. E fu appunto in questa manifestazione svoltasi presso il Circolo Repubblicano di Ancona, detto Villa Rossa, che i carabinieri rispondendo alla sassaiola di una piccola folla, aprirono il fuoco uccidendo tre persone: due repubblicani e un anarchico. L’incendio della rivolta dilagò immediatamente e fu impetuoso. Venne proclamato lo sciopero generale che dilagò in tutto il Paese che fu in buona parte paralizzato. Nelle Marche e nella Romagna la protesta assunse in qualche momento un carattere insurrezionale. Presso Ravenna venne catturato un generale. In alcune località si incendiarono caselli daziari, municipi e qualche chiesa. A Parma, che era il più importante centro del sindacalismo rivoluzionario, si verificarono scontri a fuoco tra dimostranti e squadre arruolate dagli agrari. In molte località della Romagna, come a Fusignano si innalzarono gli "alberi della libertà" (vedi foto). Gaetano Arfé, dopo aver rilevato che il carattere della rivolta ebbe una impronta anarchica e repubblicana, scrisse: "… la predicazione mussoliniana aveva avuto la sua parte nel prepararla, ed è ancora Mussolini a far dell’ "Avanti!" l’organo dell’insurrezione mancata e a portare buona parte del proletariato milanese su posizioni di combattiva solidarietà. (…) le velleità insurrezionali – scrisse ancora Arfé – restano però localizzate all’epicentro dei moti. Nelle zone a più diffusa penetrazione socialista non si va generalmente oltre la solidarietà nella protesta contro gli eccidi. Anche però ad Ancona, donde il movimento aveva preso le mosse e deve aveva sede il suo stato maggiore – dal vecchio anarchico Malatesta al giovane repubblicano Nenni – nessuna preparazione c’era stata, nessuna direzione era emersa, nessun piano, neanche tattico, aveva guidato i dimostranti". Infatti i disordini appaiono dopo alcuni giorni molto frammentati da luogo a luogo, perché i cani della rivolta non ebbero prodotto alcun disegno rivoluzionario. Lo storico Enzo Santarelli osservò: "… nell’epicentro del movimento, quando si riscontra che non esistono sbocchi politici, che la repubblica è di là da venire e che l’apparato dello stato ha retto, è lo stesso Nenni a presentare ad una assemblea convocata presso la Camera del lavoro un ordine del giorno per la cessazione dello sciopero. Indipendentemente dalle critiche molto acerbe da parte di Mussolini, degli anarchici e dei sindacalisti rivoluzionari, c’è da osservare che è proprio l’agitatore repubblicano unitamente ad altri dirigenti locali, a proporre la desistenza della lotta, dopo il ritiro della Cgil e un sopraluogo in Romagna. Questo comportamento è già la spia di un maturo realismo e, nel momento della sconfitta, di una notevole dose di sangue freddo". Ritorniamo al momento culminante della "settimana rossa". In certe località, specie della Romagna, dove maggiormente vibrava lo spirito rivoluzionario e la folla in rivolta divenne padrona della situazione, fu impedita la partenza dei treni, vennero interrotte le comunicazioni, devastati i caselli daziari, uffici telegrafici e stazioni ferroviarie. L’ira popolare si espresse anche con requisizioni di armi, di automobili dei proprietari terrieri, vennero requisite partite di grano e costituiti magazzini popolari. A Ravenna, Bagnacavallo e Mezzano, vennero distrutti i Circoli dei signori, ma non fu torto un capello a nessuno. Non essendo dimenticati i tempi lontani della Repubblica Cisalpina, si innalzarono gli "alberi della libertà". Ecco quello che è accaduto a Fusignano l’11 giugno 1914. Un gruppo di giovani, alla insaputa del Comitato d’agitazione, si recò nel bosco del marchese Calcagnini, dove sradicarono un diritto frassino lungo 15/16 metri e lo portarono in Piazza Correlli di Fusignano e lo piantarono di fronte alla chiesa del Suffragio con in cima una rossa bandiera presa dalla sede dei socialisti. Eretto l’albero della libertà, si riunì spontaneamente una folla di dimostranti e curiosi che salutarono con evviva la rivoluzione, poi il concerto cittadino si prestò a suonare la Marsigliese, l’inno dei lavoratori e l’inno di Garibaldi. Con questa spontanea cerimonia il Paese assunse un aspetto festoso. Un certo Antonio Preda, dilettante fotografo, volle ritrarre la scena (vedi la foto che pubblichiamo) che riprodusse in cartoline illustrate e che servirono per alcuni giornali illustrati nazionali ma, servirono anche alla Polizia per individuare i partecipanti e procedere agli arresti. Le elezioni amministrative che seguirono subito dopo i fatti della "settimana rossa" daranno ai socialisti un nuovo successo, confermando così che la spinta a sinistra ha realmente una base popolare e che malgrado la mancata rivoluzione del 7 giugno, non ha allontanato le masse dal Psi.
Poi si assisterà a varie revisioni e conversioni quando la guerra europea batterà alle porte dell’Italia.