Albizzati Bruno - Un mio ricordo di Bruno Albizzati (5 dicembre 1920 - 24 giugno 2006)
10 luglio 2006
di Gian Paolo Corda
Scritto per "il Socialista"del 6 luglio 2006
Ho conosciuto Bruno Albizzati nella sezione Gorla-Greco-Turro del Partito socialista italiano nei primi anni Settanta. Cercavamo, con i colleghi della “Casa del Sole”, un sostegno politico ad un programma di sperimentazione “verticale” che abbracciasse l’intero ciclo della scuola dell’obbligo, dalla materna alla media.
Volevamo un incontro con la Commissione scuola del PSI, che non esisteva, e ci ritrovammo schierata l’intera segreteria della sezione con un segretario e tre vice segretari, a rappresentare tutte le correnti del partito. Bruno rappresentava la sinistra socialista.Tursi, Cestari e Mertoli, il centro di De Martino, la corrente di Aniasi e gli autonomisti di Nenni.
Si mostrarono moderatamente interessati, e Bruno in particolare mi parve rimanere un po’ sulle sue; ricavammo comunque un’adesione del PSI all’iniziativa, oltre quella del PCI.
A quel primo contatto ne seguirono altri perché Tursi mi attirò con l’idea di costituire una Commissione stabile della sezione, che si occupasse dei problemi della scuola. Così cominciai a frequentare la Gorla e a frequentare Bruno. Non diventammo subito amici, perché non era facile a concedere la sua amicizia e poi, perché nutriva una certa diffidenza nei confronti degli “intellettuali”, in generale buoni a parlare, ma poco propensi ad un impegno quotidiano.
Spiccava su tutti gli altri dirigenti di sezione per lucidità di analisi, per passione politica, per l’impegno sociale: nel Circolo, nel mondo delle cooperative, nel mondo della previdenza sociale e non solo.
Tra i compagni, allora detti “di base” è stato uno dei miei costanti riferimenti: mi ha insegnato che un socialista non deve dire mai “io” ma pensare sempre come “noi”, posponendo il giudizio individualista al giudizio personale maturato nel confronto con gli altri; mi ha insegnato, più che la scuola o l’università, ad esprimere i concetti senza circonvoluzioni e alla ricerca di un modo semplice di esporre le cose che consente non soli ai più di capire ma di comunicare ad un uditorio vasto e diversificato; mi ha insegnato l’importanza di tenere conto del pensiero degli altri, anche di quelli di cui meno condividiamo gli argomenti, di cogliere negli altri le idee che possano nascondersi dietro una difficoltà ad argomentare; mi ha insegnato a rispettare il giudizio della maggioranza, quando una battaglia di idee, pur giusta, sia stata perduta e occorra decidere.
Ma un insegnamento su tutti: quello di avere costanza nella militanza politica come strada per conquistare la fiducia e il cuore dei compagni. “Il tempo è galantuomo” era solito ripetere.
Credo di dovere in larga misura a questa sua spinta il mio impegno nella politica di zona e ai ragionamenti con Peduzzi, allora vice presidente del Consiglio di Zona 10, su e giù per il ponte della Martesana.
In Consiglio di Zona 10, con Bruno sono rimasto per oltre 12 anni, ben oltre il momento si era capito che le speranze di modificare le cose attraverso la “partecipazione” erano andate deluse.
Di Bruno ho scoperto negli anni l’onestà profonda ed un atteggiamento da socialista antico, la grande forza etica, il grande disinteresse, la radicata cultura laica.
Il suo essere laico aveva come contrappunto familiare la religiosità, che rispettava enormemente, di sua moglie Elide e quella che era stata di sua madre.
Aveva una venerazione per la memoria di suo padre Flavio, deputato socialista in più legislature, così che lo stesso nome dette a suo figlio.
Suo fratello Luigi, di dieci anni più giovane, più mite di carattere, ne seguiva costantemente le orme politiche e lo ha sempre venerato come accadeva una volta per i fratelli maggiori.
Per tutti gli anni Ottanta in quella sezione di periferia che era la Gorla, insieme a Bruno e a tanti compagni, Gianni Rasella, Roberto Grazzani, Antonio Di Bella, abbiamo costituito uno dei gruppi più attivi della sinistra socialista a Milano. Come sinistra conquistammo la segreteria della sezione, con Bruno tanto poco avvezzo ad essere in maggioranza, che alla prima mozione che Gianni Rasella ed io presentammo, pieni di euforia ma senza avere consultato i compagni, ci votò contro e furono gli altri del direttivo a salvarci dalle dimissioni. Imparammo la lezione e negli anni a seguire con Gianni ne abbiamo riso più di una volta.
La sezione era attiva e presente nel territorio e perfino invidiata per questo dai cugini comunisti e la sinistra del partito ne orientava la politica tranne che ai congressi, quando arrivavano i tesserati delle altre correnti, che si facevano vedere solo in quella circostanza, e che ribaltavano i risultati. Così nel Partito, nonostante il grande lavoro che ci sembrava di fare, nessuno di noi contava niente.
Con Bruno in Consiglio di Zona, io capogruppo e lui presidente della Commissione cultura costituivamo, insieme agli altri consiglieri del PSI un gruppo ben rappresentato e rispettato.
Tra le tante cose, Bruno era curioso dell’urbanistica e per non farsi intimorire dallo sfoggio del frasario urbanistico che faceva il compagno Mina del PCI, gli passai una sera una scheda gialla, che ha conservato per anni con tenera riconoscenza, con la spiega di ciò che nascondono le varie sigle dei PRG, dei PP, dei PIP, dei PL, dei P di Z, ecc.
Con Bruno abbiamo fondato la Cooperativa Edilizia Servizio Sociale Casa in Zona 10, che ebbe in pochissimo tempo oltre 1000 soci, un omaggio per parte mia a Lucio S. D’Angiolini, da sempre sostenitore delle “cooperative di massa”, e per entrambi a Michele Achilli, che della “Casa come Servizio Sociale” aveva fatto una delle più belle e importanti battaglie parlamentari del PSI fino ad essere relatore della Legge 865 del 1971 detta appunto la “Legge per la Casa” per antonomasia.
Con Bruno, presidente della Cooperativa, abbiamo realizzato il grande e bell’edificio di via San Mamete, la ristrutturazione di un vecchia casa in via Ponte Nuovo e l’edificio di via Saragat, già sorto sotto l’insegna del CoRCAb.
Bruno ha gestito la Cooperativa fino al suo scioglimento, voluto dalla Lega delle Cooperative nel quadro di una razionalizzazione che spingeva ad eliminare quelle cooperative, nate come la nostra nella spontaneità della partecipazione popolare, e garantire il diretto controllo di quelle rimaste: lo abbiamo fatto con una certa riluttanza, alla fine consapevoli che una stagione era finita ed in fondo perché le forze di Bruno cominciavano a non essere più le stesse.
Con Bruno abbiamo lavorato far superare gli anni di difficoltà del Circolo Famigliare di Unità Proletaria, ristrutturandolo e consentendo, con la realizzazione del Teatro Zelig, una sua rivitalizzazione come centro di riconoscibilità nella città come erano stati i Boschetti e il Circolo.
Non siamo riusciti a salvare, dalle macerie della fine del PSI del 1992, la sede del Partito di viale Monza; avevamo preso contatti con il curatore del fallimento, con quel che rimaneva degli amministratori del partito, avevamo proposto una sottoscrizione popolare tra i compagni rimasti, ma alla fine abbiamo ceduto quando si è capito che lo stato debitorio avrebbe risucchiato ogni eventuale sforzo.
Dopo lo scioglimento della Cooperativa e la fine del PSI vedevo Bruno sempre più di rado, privatamente. Questo natale, sapendolo malato e ritirato in casa da tempo avevo sentito il bisogno di andavo a trovare; leggeva sempre con passione, soprattutto di storia, e anche questa volta avevo trovato il suo tavolo pieno di libri nonostante la difficoltà a leggere che accusava; tra i libri ne ho scorto anche alcuni che non avrei sospettato, uno su papa Giovanni Paolo II, e francamente ho pensato che qualcuno approfittasse della sua debolezza di convalescente per suggerirgli qualche scelta.
Ma forse non era così: quest’anima laica, ma mai ferocemente laicista, forse nella religiosità costante e serena di sua moglie, aveva riconosciuto una forma di diversa militanza, una forma diversa, ad ulteriore verifica, di come bene poteva essere vissuta una vita.
Sua moglie con orgoglio mi ha detto che se fosse stato “uno di chiesa” lo avrebbero fatto santo, per come era vissuto e per come aveva sempre aiutato gli altri senza il minimo risparmio al suo impegno, con il totale disinteresse personale, che non accettava neanche il gesto di un regalo di riconoscenza.
L’ho visitato in ospedale due volte, qualche giorno prima che tornasse a casa: era debole e parlava a fatica ma si sforzava di dirmi tante cose e, con affetto, cercavo di capire e rispondergli. L’ho aiutato a bere un sorso d’acqua e a rinfrescarsi un poco.
Di lui, anche se stanco e provato dalla malattia, mi ha colpito la lucidità e, insieme, la trasparenza profonda degli occhi celeste; ricordandolo, non posso fare a meno di pensare che sarebbe desiderabile arrivare a morire con uno sguardo così.