SALVIAMO L’ITALIA

di Paul Ginsborg

Ginsborg e lo Stivale visto da Cavour. Lo storico, di recente naturalizzato cittadino italiano, pubblica un saggio sulle radici ottocentesche ai nostri “mali di civiltà”

“Chi te l’ha fatto fare? Proprio ora?” Questa la domanda che gli amici hanno rivolto a Paul Ginsborg dopo l’annuncio della sua naturalizzazione come cittadino italiano. Vale ancora la pena di sentirsi italiani proprio mentre ci accingiamo a celebrare il 150esimo dell’Unità? Lo storico dell’Università di Firenze, già autore di fortunati volumi sulla storia dell’Italia Repubblicana e sulla politica contemporanea, ne è convinto tanto da intitolare il suo ultimo libro Salviamo l’Italia (Einaudi, pp. 134, € 10). Per farlo tenta di analizzare i problemi dell’Italia di oggi con la voce dei protagonisti del Risorgimento, da Cattaneo a Cavour, da Pisacane a Garibaldi, per delineare quelle che a suo parere sono le quattro vie, tutte intrecciate, attraverso le quali il nostro Paese può ritrovare la sua identità. Strade che certo non sono quelle che hanno sempre caratterizzato la storia italiana ma che, anche sottotraccia, non hanno mancato di emergere in determinati frangenti.
La prima viene individuata nella tradizione dell’autogoverno urbano, quella esaltata da Cattaneo che non a caso ne fece uno dei pilastri della sua proposta federalista ma unitaria, come ben si ricorda nel volume anche per respingere gli stereotipi leghisti. La seconda nella tradizione europeista, che non ebbe un grande spazio durante il Risorgimento a parte Mazzini, ma che successivamente ebbe la sua voce più originale in uno degli esponenti più “risorgimentali” dell’antifascismo come Altiero Spinelli. La terza il tentativo di raggiungere l’eguaglianza, non da intendersi nel senso dell’abolizione della proprietà privata o dell’irreggimentazione dentro una prospettiva collettivista capace di annullare l’individualismo sociale ed economico, ma come elemento capace di portare ad un miglioramento di una società costruita sui pilastri della libertà, della giustizia sociale e della partecipazione. La quarta, che l’autore considera più importante, è quello legata alla mitezza, a suo tempo già proposta da Norberto Bobbio. Non sempre presente nella storia nazionale, e non a caso Ginsborg cita i massacri compiuti nel febbraio del 1937 dagli italiani ad Addis Abeba, ma che non ha mancato per questo di avere delle rappresentazioni sia nella carta costituzionale o grazie all’impegno per la pace di uomini come Giorgio La Pira, il sindaco “santo” di Firenze. Mitezza che per lo storico inglese non si deve intendere come sottomissione, ma come virtù sociale propria di chi vuole sperare in un mondo migliore.
Certo i problemi odierni non sono pochi, dalla debolezza della laicità dello Stato al disfacimento del legame tra economia e morale, dalla forza di un modello televisivo colpevole di aver appiattito il nostro senso critico, ad esempio nella rappresentazione volgare dei corpi femminili, per arrivare alla povertà programmatica delle sinistre e alla proliferazione del clientelismo, del familismo e della criminalità organizzata. Senza dimenticare il fenomeno berlusconiano, che Ginsborg non liquida certo in maniera caricaturale ma riconoscendo che l’attuale capo del governo ha saputo dare una sua lettura del Paese, seppur personalistica e populista, all’interno delle modificazioni imposte dall’egemonia della cultura neoliberista da trent’anni a questa parte. A suo avviso occorre cambiare l’Italia con la costanza, la creatività e la fermezza, cercando di costruire ponti tra ceti medi istruiti e lavoratori dipendenti e non, evitando le nostalgie di chi crede che sia sufficiente l’affermazione di una sola classe, in modo da rinnovare la partecipazione dei cittadini oramai ridotti al ruolo di elettori consumatori sempre più apatici e disgustati da questa classe politica.

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