Il femminismo nel pensiero politico:

UN SAGGIO DI POLITICA DIMENTICATA

Di Katiuscia Giubilei, ed. Kimerik, Patti, 2007

Le donne integrano attraverso il proprio lavoro, l’impegno, la conoscenza e la sensibilità, la storia politica italiana, europea, mondiale. La condizionano nel presente e lo hanno fatto nel corso dei secoli, la influenzano, attraverso i movimenti femministi e l’indefesso impegno; ma la storia non lo ha mai riconosciuto, o lo ha fatto scarsamente, sottovoce, velandosi tutt’oggi di discriminazioni tali da non lasciare, alla categoria di genere, libera possibilità di espressione.

La disparità è ben evidente già nei confronti della prima donna, di Eva, che compare nel racconto biblico in secondo piano, costola di Adamo prima, sua rovina poi.

La principale, effettiva comparsa pubblica della donna è sulla scena della polis, nel lontano VI secolo a.C. nell’ambito della scuola Pitagorica, dove si distingue Aspasia di Mileto, ricordata anche dalla tragedia attica, maestra di retorica e quasi certamente compagna del grande statista ateniese Pericle.

Ecco subito una prima denuncia, che un lavoro sulle donne ha il dovere di lanciare: perché è Aspasia l’amante di Pericle e mai Pericle l’amante di Aspasia? dove Pericle è l’uomo della storia in senso lato e Aspasia la donna, in generale. Così accade con Turati e Anna Kuliscioff, con Sarte e Simone de Beauvoir, solo per citare due coppie celebri: quando la storia racconta le donne, non dimentica mai il loro coinvolgimento sessuale e/o affettivo ma anzi lo racconta, anche senza rispetto, sulle pagine, mentre non fa altrettanto con gli uomini, o per lo meno, mai in maniera tanto vincolante; come se qualsiasi relazione non avvenisse in due e come se la donna, senza feeling, non avesse storia né tantomeno interesse.

Impegno del mio lavoro è mostrare o magari semplicemente ricordare (a noi donne, per prime) che non è così e per farlo, azzardo il racconto di una selezione di storie, di esponenti di prestigio della categoria, autorevoli pensatrici, che hanno determinato i percorsi femminili e femministi del passato. Mi soffermo in particolare sulla politica e sulla letteratura e cerco di cogliere i profili di donne che, attraverso il proprio lavoro, hanno messo in condizione me, oggi e tutte noi contemporanee, di poter esigere il riconoscimento di genere e la parità. È ora di reclamare l’equità, non solo in base ad un discorso di giustizia sociale (che evidentemente la storia, maschilista, non ha mai accolto) ma sulla base della valutazione del nostro operato. Ed è assurdo che noi donne, dobbiamo spendere le nostre energie, per conquistare quello che, almeno in teoria, rimane un diritto naturale: la parità. Mentre, se così non fosse, potremmo risparmiare le nostre fatiche ed utilizzarle, per integrare i percorsi storici, politici e sociali di crescita e di evoluzione.

Si può far risalire niente di meno che a Santa Caterina da Siena la prima rappresentanza politica femminile della storia, riconosciuta dal Vaticano stesso, attraverso le dichiarazioni di due Santi Padri: Paolo VI e Giovanni Paolo II, che ne hanno omaggiato il magistero politico nelle proprie Encicliche e nei discorsi, deputati alla Santa e pronunciati in più occasioni. Tra il XIII secolo e i primi anni del Cinquecento, il suo è l’unico nome femminile della tradizione, non solo ecclesiastica ma anche laica, connotata da un lungo silenzio, spezzato solo dall’originalità della sua espressione.

La storia delle donne è dunque legata al Vaticano ma è velata anche di leggenda, almeno nel caso della presunta Papessa Giovanna, accusata di essere una meretrice ed una strega e presente in numerosi libelli del suo tempo, elemento di discussione nella lotta tra luterani e cattolici. Se ne tenta, in questo lavoro, una riabilitazione, valutandone piuttosto la preparazione culturale, senza la quale, certamente (ammettiamo chiaramente la sua esistenza) non sarebbe mai potuta entrare nell’ambiente papale, nemmeno attraverso l’inganno. Ma, al di là di questa appena accennata parentesi favolistica, si entra nel vivo delle battaglie politiche di genere, in Inghilterra, con la figura di Mary Wollstonecraft, nata nel 1740 ca. e autrice della “Rivendicazione dei diritti della donna” che ambienta le problematiche femminili, da lei denunciate, nello spirito illuminista. La Wollstonecraft riconosce in intelletto, virtù e parità le prerogative indiscutibili del genere ed insorge contro la teoria roussoviana delle inclinazioni naturali, che vincola la donna alla sfera domestica. Pecca l’autrice, influenzata dalla propria origine borghese, nel non riconoscere il godimento dei diritti democratici alle classi subalterne, laddove invece è proprio tra gli oppressi che la lotta per l’abbattimento del sistema, qualunque esso sia, deve trovare la propria ragione. Riconosciamo comunque alla Wollstonecraft il merito di aver avviato, con la sua opera “Vindication”, la riflessione pubblica sulla disparità, seguita poi ardentemente dalle suffragiste, da Emmeline Pankhurst in primo piano, definibile la primula rossa del femminismo inglese, che si data con lei, nella prima metà dell’Ottocento. Le coraggiose manifestanti, incarcerate, ottengono il riconoscimento al voto politico nel 1918 e la Pankhurst, giustamente, riconosce nella conquista del voto un grande passaggio storico non solo delle donne ma degli uomini in senso lato e, soprattutto, della democrazia. Perché infatti parità di genere è democrazia. Ed il punto nodale è che il modello delle democrazie europee non si è evoluto ma si ispira ancora al pensiero di almeno due secoli fa, quando le donne non erano considerate soggetti politici pensanti e propositivi. E da allora poco è cambiato, nella sostanza, specie sulla scena politica, che rimane sprovvista di validi contributi, solo perché non maschi. Tornando alla nostra carrellata storica, sostiamo in Francia dove si muove, più o meno nello stesso periodo, Olympe de Gouges, autrice della prima “Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina” opera dedicata alla regina Maria Antonietta, ritenuta oppressa non meno delle altre. La Dichiarazione, pur essendo redatta nel 1791, è di un’attualità e modernità sbalorditive: ricorda la libertà di nascita della donna e la sua uguaglianza, nei diritti, all’uomo. Tra quelli naturali riconosce la resistenza all’oppressione; intravede in capacità, virtù e talento le uniche caratteristiche determinanti nell’assunzione ai pubblici impieghi e reclama la libertà di espressione. Dopo di lei, ricordiamo Madame de Stael soprattutto perché, nella sua opera più famosa, dal titolo “Della letteratura considerata attraverso il rapporto con le istituzioni sociali” (1800) dà ampio rilievo alla figura dello scrittore, che riconosce responsabile, attraverso i suoi lavori, del destino collettivo. Nel nostro Paese, ma ancora prima, siamo infatti nel Seicento, si muove una suora benedettina ardita, Angela Tarabotti, che contrappone l’austero abbigliamento monacale alla sfarzosità maschile e denuncia la clausura, conseguenza il più delle volte non della libera scelta ma della volontà paterna. L’Ottocento è poi contrassegnato dall’opera di Bianca Milesi in Moyon, “Maestra”, in quanto artefice, tra l’altro, di una sezione femminile della carboneria, impegnata nella diffusione delle idee mazziniane.

È dunque l’Ottocento il secolo determinante della battaglia femminista ed è ad un avvenimento del ’48 che si fa risalire l’origine del ricordo, nella giornata dell’8 marzo, proclamata Festa della Donna, quando una accesa manifestazione, in Prussia, costringe il re, terrorizzato dalla folla, a concedere una serie di promesse, che non aveva ancora mai realizzato, tra cui principalmente il diritto al voto.

Tornando alla storia, vediamo che, in seguito alle manifestazioni delle avanguardiste ottocentesche, a partire dai primi anni del ‘900 è il socialismo a costituirsi baluardo politico ed elemento di amplificazione delle idee e delle tematiche donne di emancipazione, a tal punto da interpretarne l’elemento di rivendicazione storica.

Flora Tristan, operaia femminista, colloca il suo impegno principalmente nella rivendicazione dei diritti della donna operaia, chiede l’istruzione, morale e intellettuale, per le donne del popolo, scende nelle bettole e nelle topaie per conoscere tutto, denuncia il traffico dei bambini, la grande miseria e la prostituzione.

Anna Kuliscioff, leader politica di rilievo, indispensabile attraverso i suoi consigli all’azione di Turati, grande corsivista della Critica sociale ma raramente si ricorda la sua formazione universitaria nella facoltà di medicina, la sua specializzazione in ginecologia, la scoperta dell’origine batterica delle febbri puerperali, che ha aperto la strada alla ricerca e alla salvezza di milioni di donne dalla morte post partum.

Impegno socialista è quello portato avanti anche da Lina Merlin, la senatrice della lunga e difficile battaglia per l’abolizione delle case chiuse, riuscita finalmente nel 1958.

È determinante, l’impegno delle citate e di tante altre donne, per la costituzione del vasto apparato legislativo costruito a tutela del genere, riconosciuto oggi negli articoli 3, 37 e 51 della nostra Costituzione: l’art. 3 intravede, tra i compiti della Repubblica, quello di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che impediscono il pieno sviluppo della persona umana, ne riconosce la libertà e l’uguaglianza; l’art. 37 valuta l’uguaglianza dei diritti dei cittadini nel lavoro; l’art. 51 stabilisce la parità di accesso agli uffici pubblici e alle cariche effettive.

Il primo riconoscimento giuridico risale al lontano 2 giugno del 1946, quando l’Italia va al referendum istituzionale ed estende il diritto di voto alle donne.

Da allora, la parità salariale, il divorzio, la maternità, gli asili nido, il diritto di famiglia, la legge di parità, l’interruzione volontaria di gravidanza, l’imprenditoria femminile, la violenza sessuale, il lavoro notturno, gli assegni di maternità per casalinghe e disoccupate, gli infortuni domestici, i congedi parentali, la banca del tempo, la violenza: sono tutti gli argomenti della legislazione di genere, la cui esistenza è soprattutto determinante poiché rappresenta l’effettivo passaggio della questione rosa, dalla parità formale a quella sostanziale, almeno su carta. Quella politica e giuridica è ancora, e lo è stata nella storia, la necessità più indispensabile, per la donna, di affermarsi in quanto individuo, riconosciuta come tale, titolare dei diritti fondamentali della inviolabilità del proprio corpo e finanche, giustamente, della libertà sessuale. Quella condotta dalle rappresentanti del femminismo, nel corso dei secoli, non è stata una semplice battaglia di genere, perché ha determinato, piuttosto, una vera e propria rivoluzione culturale, indirizzata alla democrazia, da intendere, principalmente, come rispetto della diversità. È un processo in divenire, quello del riconoscimento di genere, anche oggi nella diversità, che deve considerare tutti gli aspetti della condizione non solo femminile ma maschile anche, ed omosessuale, dal punto di vista politico, socio-economico, culturale, etico, biologico e genetico, generato dalle trasformazioni storiche, principalmente, ai nostri giorni, dal fenomeno sociale delle migrazioni etniche in corso. Certo è che il riconoscimento giuridico non basta: lo attesta finanche il più recente trattato dell’Unione europea, chiamato la Carta di Roma, redatto nel maggio del 1996 dalla Commissione di Pari Opportunità e sottoscritto da più poteri. Il documento constata che, nonostante l’ormai riconosciuta uguaglianza giuridica, permane “una ineguaglianza nelle istanze e negli organismi decisionali in campo politico, economico e sociale a livello locale, regionale, nazionale ed europeo” e lancia l’appello “per un rinnovamento politico e sociale”, sottolinea la “mancanza di democrazia cui occorre porre rimedio” favorendo “l’accesso delle donne, in modo equivalente agli uomini, in tutti i luoghi di potere, di influenza e di decisione”.

Quindi bisogna continuare a fare denuncia, attraverso la propaganda e la diffusione dei principi di uguaglianza, anche nella differenza. La scrittura è da sempre la principale arma delle donne, le cui istanze sono state e sono tuttora diffuse, grazie al binomio femminismo e parola, che riappare costantemente nella tradizione e nella ricerca in oggetto.

Ed è verificabile, procedendo con la nostra carrellata storica dei nomi; ricordiamo quello della Kollontaj, con le sue teorie ideali di amore alato, libero e giocoso, che appiana e giustifica la diversità; ma citiamo anche Hanna Arendt, non perché sia una femminista, tutt’altro, ma perché la sua notorietà di intellettuale e pensatrice politica, unica nelle preziose idee, offre prestigio al genere e si lega al corso di del prof. Vasale, quando la Arendt sottolinea, con intelligenza, il valore della correlazione tra le sfere della libertà e della politica, che riconosce artefice della preservazione, della cura e della garanzia nell’esercizio concreto della libertà, in tutte le sue forme di attuazione. E quindi, (n.d.r.) ancora, della democrazia.

Anche, Simone de Beauvoir, un’altra delle voci più autorevoli del femminismo, francese in questo caso, spera nella vittoria delle idee socialiste, affinché la società, prodotto delle maschiliste istanze patriarcali, possa finalmente modificarsi. Ma poi, nel corso degli anni, dalla parità, il femminismo diventa anche esasperazione, finché, oltre al rifiuto totale dell’uso consumistico dell’immagine femminile, il fine del movimento non si fa più quello della parità, raggiungibile ormai attraverso la mediazione giuridica, ma quello, davvero femminista e dunque, comunque di parte, della eccellenza della donna, della sua superiorità, da ricercare senza mai risparmiarsi fatiche. Con Betty Friedan, la madre del femminismo moderno, viene finanche proposto un nuovo programma di vita, che demistifica il matrimonio e la maternità mentre Luce Irigaray, ancora più contemporanea, durante una conferenza italiana del 1998, presenta un breve documento dal titolo “Dieci passi verso il compimento della democrazia” ed apre una seria riflessione sui valori proposti dalla prima parte della Costituzione Italiana: ravvede la necessità di rifondare la comunità, su una base civile di stampo multiculturalista, a garanzia della convivenza equilibrata di tutte le culture e ricorda, a proposito di libertà, che per parlarne davvero è, prima di tutto indispensabile, garantirne la tutela.

In Italia incontriamo Carla Lonzi (1931-1982), autrice di opere estreme, quali il “Manifesto di rivolta femminile”, “Sputiamo su Hegel” o “La donna clitoridea e la donna vaginale” e Laura Conti (1921-1933) di visione più moderata, che scrive, tra l’altro, un saggio sui problemi relativi all’interruzione volontaria della gravidanza e mostra, attraverso di esso, come le battaglie e i valori del neo-femminismo, per farsi valere, debbano calarsi all’interno dei vari saperi disciplinari e articolarsi attraverso una attendibile mediazione culturale e normativa, che diventa sempre più sofisticata e complessa; ciò avviene perché, chiaramente, la condizione della donna è recepita in maniera diversa nei differenti ordinamenti giuridici e sociali.

Alice Schwarzer, classe 1942, incarnazione del movimento femminista tedesco, non lesina pesanti accuse e ravvisa nella violenza la più forte arma del maschio, da sempre usata per la propria supremazia; essa rappresenta “il cuore nero di tutti i rapporti di potere – scrive la Schwarzer - è sempre stato così, tra le classi, le razze e le popolazioni, e non è diverso tra i sessi opposti ”.

Sintesi finale del suo pensiero e del nostro lavoro: la battaglia non è finita, è necessario continuare la rivendicazione. Spiriti brillanti hanno i connotati del cosiddetto sesso debole e va riconosciuto.

Un’altra grande, scomparsa da poco, che va ricordata è Oriana Fallaci, maestra della parola, un’altra esponente donna, unica, grazie alla grande dote di saper fare giochi di prestigio con le parole e questo è un dono che, o ce l’ hai o non ce l’ hai. Oriana, decisamente, lo aveva. Ed è stata spesso avversata, ritenuta presuntuosa, invidiata. In tutto questo panorama, conosciamo tante donne, tutte o quasi single e ci viene dunque naturale andare a capire cosa pensano le femministe del matrimonio: stranamente, lo rispettano ed anzi vedono in esso non un semplice contratto ma l’importante patto, che impreziosisce la comunità domestica, trasformandola in comunità etica. Tanto nel modello liberale che in quello romantico, interviene il matrimonio ad istituzionalizzare la comunità naturale e valorizzare il ruolo delle donne, ridotto dal maschilismo agli unici ruoli funzionalista e naturalistico, ravvedendo in essi il ruolo della donna.

La politica la valuta, fortunatamente, oggi anche attraverso la famiglia e ne analizza le problematiche di giustizia e di uguaglianza, poiché la famiglia non ha confini privati ma pubblici, socialmente, giuridicamente e politicamente; e ancora, sulla base della diversità mette in luce l’immagine della donna oggetto, che la società e la pubblicità, ancora non abbandonano, ma diffondono anzi, attraverso inutili e dannose immagini stereotipate. Allora ci si domanda se non sia sbagliato, inutile, lottare per l’uguaglianza mentre invece appare più produttivo e corretto battersi per la differenza: sul piano giuridico, per i diritti sociali e per le azioni positive. È questo sostanzialmente un più equilibrato pensiero contemporaneo comune, messo tuttavia in discussione anch’esso, dalle donne stesse; volendone citare una, autorevole, Susan Moller Okin, femminista, titolare della cattedra di Scienze Politiche alla Stanford University, impegnata e nota sì per i propri studi di filosofia politica, ma non di filosofia politica femminile; ed anzi lei stessa valuta gli Women’s studies una forma di marginalizzazione culturale del genere, che permette alle cattedre di filosofia politica e di storia tradizionali, di occuparsi solo di metà dell’umanità e lasciare l’altra, quella femminile, ghettizzata nell’isolamento della differenza. È un discorso molto razionale il suo e la razionalità non è quasi mai intravista tra le qualità della donna, troppo spesso è soppiantata dai tradizionali caratteri femminili di passionalità, ardore. Rosi Braidotti, nell’opera “Dissonanze. Le donne e la filosofia contemporanea” osserva a proposito che: “Non è perché gli uomini sono naturalmente razionali che sono i maestri, ma è la loro posizione di maestri che ha permesso loro di monopolizzare la razionalità e presentarla come loro prerogativa”, fino a relegare la donna in una errata proiezione di femminilità, quando invece anche la razionalità può essere femminile! e soppiantandola, addirittura, attraverso una serie di proiezioni mitiche, immaginarie ed ideali con cui noi stesse, sbagliando per prime, ci identifichiamo ed ostacoliamo ulteriormente la nostra soggettività, tornando funzionali all’esclusività patriarcale.

Gloria Steinem, femminista radicale, sempre fedele al proprio credo, è ancora bella, nonostante l’età, è una donna libera, un’onesta pensatrice, icona del movimento femminista americano, ha ispirato la seconda generazione di intellettuali, da Camille Paglia a Naomi Wolf, bellissima, estremamente femminile anche lei ma non per questo meno pensante! La Steinem, negli anni ’60, è divenuta il simbolo delle radical chic, la paladina delle donne pensanti e dal suo lavoro è nata la giovane americana Naomi Wolf, bellissima anche lei, senza la quale non si può parlare di femminismo contemporaneo. La Wolf nasce a San Francisco nel 1962, è figlia del poeta Leonard Wolf ed è la più influente pensatrice femminista degli ultimi anni, la dissacratrice del mito della bellezza femminile, troppo fisica, sessuale, virtuale, diffusa attraverso Internet: “Quest’esplosione del porno - scrive la Wolf in un recente speciale dedicato dal New York Magazine all’argomento - è responsabile della morte della libido maschile. Per la prima volta nella storia dell’umanità la forza dell’immagine e della suggestione ha soppiantato quella delle donne in carne e ossa; oggi una donna nuda è soltanto una brutta pornostar”. Fin da giovane, l’intellettuale ha predicato il power feminism, contrastando il vittimismo patetico di alcune femministe; insieme a Susan Falaudi, la Wolf è la più nota rappresentante della terza ondata del femminismo americano, impegnato non solo nella riflessione delle conquiste registrate ma soprattutto delle sconfitte subite dai movimenti delle donne, attraverso la cui osservazione è possibile intravedere i giusti nodi da sciogliere e cambiare finalmente il corso della storia.

Gad Lerner di recente, ha fatto noto, nella sua rubrica del settimanale Vanity Fair che sono purtroppo le donne spesso a dimenticare le giuste rivendicazioni, assentandosi nei momenti chiave, quando sarebbe importante, invece, intervenire: nel caso delle molestie sessuali esercitate dal mondo del lavoro e denunciate da Michele Salvati, un uomo, sul Corriere della Sera, a proposito della storiaccia delle signorine Rai soppesate dai politici, l’avvocatessa Bernardini de Pace definisce le donne “Lupacchiotte travestite da Cappuccetto Rosso che se la sghignazzano convinte che non ci sia niente di male ad incontrare il lupo cattivo se gli fai due moine e lui ti porta a casa della nonna a cavallo di una Porche”. Cara divorzista, ti risponde la laureanda per prima: non tutte la pensano così e seppure sia veritiera tanta sciocchezza femminile, essa tuttavia non può autorizzare la molestia. Salvati, noto intellettuale di sinistra, chiede normative più severe contro il mobbing e la divorzista che combina? Oltretutto, secondo la più recente indagine Istat sulle molestie sessuali, 900 mila donne hanno subito ricatti sessuali per essere assunte o per avanzare di carriera, tra il 1997 e il 2002; l’istituto di statistica dichiara, attraverso l’indagine che sono ben 10 milioni, in quest’arco di tempo, le vittime e non sono il classico vicolo buio o il parco di notte, i consueti luoghi del pericolo bensì il posto di lavoro.

La violenza, oltre a significare mancanza di democrazia, significa anche mancanza di civiltà e ci arretra, rendendoci ristrettamente ottusi, ostacolo i più moderni passaggi e connotati europei, che, identificano il principio di pari opportunità con uno dei quattro pilastri fondamentali dei Piani nazionali per l’occupazione. Durante il recente vertice straordinario di Lussemburgo, dove i Capi di Stato e di Governo degli Stati membri, hanno concordato le linee direttrici comuni per l’occupazione, è stato identificato proprio il principio di pari opportunità come uno dei quattro pilastri fondamentali, sulla base dei quali, i Piani del lavoro devono essere improntati, oltre ad averne sottolineato la trasversalità rispetto agli altri tre, rispettivamente occupabilità, imprenditorialità ed adattabilità.

E così ci ritroviamo, in conseguenza delle dichiarazioni di alcune donne, a doverci prendere un giustissimo monito da Lerner, proprio da un uomo quindi che scrive (ripeto, giustamente n.d.r.) di non cascarci: “La verità è che questo Paese (…) subisce una debacle della presenza e del pensiero femminista – scrive il giornalista – Avete voi sentito levarsi una qualche voce forte e organizzata delle donne che lavorano in Rai, sulle schifezze di Vallettopoli? Avete letto denunce o proposte di segno femminista sulle prime pagine dei giornali? Vi risulta che le donne di An abbiano preteso una riflessione interna sullo stile dei loro dirigenti? E, a sinistra, s’è forse mossa una foglia?”. Lerner, in questo, non sbaglia ed infatti dovremmo lavorare e mobilitarci tutte un po’ più insieme per correggere quanto accade, specialmente sulla scena politica: protestiamo per via della scarsa rappresentanza assegnataci e poi non facciano più rumore, quando qualche dirigentucolo ci riconosce qualche incaricuccio, tanto per salvare la faccia e fingere uno spirito paritario, in corsa con i tempi mentre poi alla fine, è sempre lui, il maschietto a decidere, senza nemmeno consultarci.

Lerner accenna con rispetto, condiviso, alla Muraro, una delle più autorevoli voci femministe contemporanee del nostro Paese, la quale non perde tempo a chiedersi cosa sia o cosa sia stato il femminismo ma è molto più interessata a conoscere e capire cosa sia capitato con il femminismo ed anche lei si cala nella scrittura, attraverso l’epistolario di due contemporanee femministe e scrittrici, Maria Moix e Rosa Chacel, laddove si parla del valore della sensibilità femminile nella scrittura ma anche dell’indifferenza sessuale della scrittura letteraria, che non deve lasciarsi trasportare dalla femminilità ma rendere invece impossibile, al lettore, riconoscere dalla stile il sesso dell’autore. Ancora razionalità dunque, nella scrittura.

Il femminismo contemporaneo valuta anche il ruolo della relazione materna, l’importanza dell’amore tra madre e figlia, la loro capacità di confrontarsi nel dialogo e nell’esperienza quotidiana, senza avviare l’abituale antagonismo, che distoglie la più giovane, nei casi più forti, dalla conoscenza di se stessa e ne ostacola la sana crescita psicologica ed intellettuale.

Abbiamo parlato di Europa e abbiamo parlato d’America. Ma il femminismo è anche islamico, anzi, nel complesso, il femminismo islamico è ancora più radicale ed agguerrito di quello secolare. Pensatrici chiave di esso e della nuova interpretazione del Corano, sensibile al genere, sono riluttanti a identificare se stesse come femministe musulmane ma valorizzano il femminismo musulmano, invece, in qualità di fenomeno globale; studiano il Corano, convinte che non sia più possibile lasciare ai fanatici della superiorità del maschio, la libera interpretazione, a proprio uso e consumo, del Corano, che lancia invece un messaggio ugualitario, sullo studio del quale sono decisamente orientate le più moderne e colte scuole di pensiero, femminili, islamiche.

In conclusione, dopo tante pagine è lecito domandarsi perché ancora, oggi, le donne non ce la facciano e si intravede proprio nella storia, magistra vitae, una grande responsabile. Se sulle pagine dei licei e delle scuole superiori non ci fossero solo napoleoni e giulio cesari ma si dedicasse qualche riga anche alla parità, potrebbe essere un primo passo.

Questo mio lavoro rappresenta il tentativo di offrire un panorama storico della condizione femminile ed un semplice approccio alla conoscenza di genere. Oggi, di fronte agli incontestabili miglioramenti delle condizioni di vita di noi tutte, si tende troppo facilmente a considerare ormai superata la questione dell’uguaglianza tra i sessi. In realtà, nonostante gli indubbi successi nella crescita della presenza femminile, principalmente nelle istituzioni o comunque nei posti “ di potere ” ci si rende conto che l’uguaglianza di fatto è ancora osteggiata da un vergognoso e ormai desueto maschilismo, che tarda a morire. Ma il mio non vuol essere un lavoro di “ quota ”, non uno scritto di pianto o di differenza, bensì di parità, collaborazione, compartecipazione ed uguaglianza. È pur vero tuttavia che continuano ad essere poche le donne che governano, oggi, paradossalmente, ancora meno di ieri ma come risolvere la carenza femminile ai vertici decisionali, che crea un problema di disparità di non facile soluzione, ostacolando per lo più lo sviluppo e la crescita completa, quella cioè fatta da ambi i sessi, della nostra politica : si dovrebbe, sostengono i più cinici, insegnare alle donne a far politica utilizzando gli schemi mentali adottati dai loro colleghi maschi, che sono la maggioranza; oppure si utopizza, erroneamente, un modo di fare politica tutto al femminile, talmente al di fuori da quella che è la pratica abituale, all’interno delle organizzazioni sociali e civili, giurisprudenziali e amministrative, da lasciare il dibattito nella sfera teorica della pura filosofia. Ma la politica non è solo pensiero : essa è militanza e dunque azione, fatta di regole e comportamenti, da riconoscere e comprendere. L’esclusione femminile rappresenta una forma di ignoranza maschilista trasversale, che coinvolge indistintamente tutti i Paesi del mondo ma le donne continuano ad agire con costanza, coerenza e convinzione : queste sono le nostre principali caratteristiche. E sebbene si ripeta di continuo la nostra esclusione dai vertici statali, ci impegniamo allora sul territorio, nelle organizzazioni di utilità sociale e di volontariato, a contatto con le scuole, le parrocchie, gli ospedali, dove adoperiamo l’esperienza maturata durante la nostra vita di figlie, mogli e madri.

La donna rende servizio mediante la propria singolare capacità di analisi sociale, di comprensione dei problemi, di rimozione degli stessi, spesso con successo e mostra così soprattutto un forte senso di responsabilità civica.

L’impegno politico femminile è entrato nella storia, nella psicoanalisi, nella filosofia, nella letteratura, nella mescolanza tra pensiero teorico, pratico e romanzato, e questa tesi ha cercato di illustrarlo, facendo o rifacendo la conoscenza di una selezione di donne di prestigio, pensatrici determinanti, autrici spesso incomprese e non in corsa con i tempi, perché troppo anticipatrici, finalmente divenute parte integrante della storia del pensiero politico.

BIBLIOGRAFIA

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