17 novembre 2003 - "Il PSI di Craxi visto dal PCI di Berliguer" intevento di Umberto Ranieri al Convegno di Italianieuropei "Riformismo socialista e Italia repubblicana. Storia e politica
17 novembre 2003
Quando Bettino Craxi diventa segretario nel luglio del ‘76 di un partito socialista in crisi molti hanno scritto nelle settimane successive al voto del 20 giugno di un declino irreversibile dei socialisti. Per alcuni è il partito comunista che si appresterebbe a essere l’erede più autentico sia del riformismo di Turati e Prampolini che della tradizione leninista. Secondo questa tesi l’intero schieramento delle forze progressiste italiane tenderebbe a identificarsi sempre di più con il partito comunista.
In questa atmosfera Craxi diventa segretario del PSI. E’ un socialista di ferme convinzioni autonomiste fra i pochi che si erano sottratti alle peregrinazioni opportunistiche tra le correnti che caratterizzarono la decadenza socialista dopo l’insuccesso del tentativo nenniano.
Certo nel gruppo dirigente del PCI in quell’estate del ‘76 nessuno crede che la segreteria Craxi segnerà una nuova fase nella vita del socialismo italiano.
Al MIDAS seguiranno gli anni del primum vivere in cui il partito socialista cercherà di farsi strada tra le due superpotenze della politica italiana nel tentativo di reagire ad una prassi di rassegnata e talora persino teorizzata subalternità. Verrà definita “politica corsara” in realtà fu qualcosa di diverso.
Facendo leva sul lavoro del gruppo di intellettuali che siraccoglie intorno a Mondoperaio diretto da Federico Coen, Craxi farà del confronto sul profilo ideale della sinistra il terreno su cui condurre la nuova battaglia autonomista. E sarà quel PSI a porre a cavallo degli anni ‘80 la questione reale dello svecchiamento della cultura dei programmi e del linguaggio della sinistra.
Craxi apre il fronte del revisionismo. L’autonomia culturale che i socialisti rivendicano ha la propria ascendenza ideale nel socialismo liberale, il confronto a sinistra non avviene sui mezzi ma sui fini. La battaglia revisionista condotta da Mondoperaio tra il ‘78 e l’82 segna un punto di non ritorno per l’evoluzione della sinistra italiana. Polemiche come quelle avviate da Bobbio sul marxismo e lo Stato, o come quelle successive su Gramsci e l’egemonia, sul togliattismo e la democrazia conflittuale, sullo statalismo e la politica dei redditi lasceranno un segno - scriverà Sabbatucci -nella storia della sinistra.
La risposta che la cultura comunista oppose alla sfida apparve inadeguata. Enrico Berlinguer liquidò con sufficienza la discussione come roba da professori che non hanno letto neppure un rigo di Marx. Da parte di alcuni intellettuali comunisti ritornò nella polemica una sorta di opposizione fra tradizione socialista e formalismo liberal-democratico. Altri respinsero la critica sui rischi consociativi della politica del PCI insistendo sulla formula di una ricomposizione unitaria della società civile che tradiva un residuo organicistico nel PCI e alimentava sospetti su una effettiva accettazione del pluralismo.
In realtà osserverà onestamente, ma alcuni anni dopo, Biagio de Giovanni, “noi non sapevamo bene cosa obbiettare, come muovere al contrattacco” e mi parve allora che il PCI subisse una sconfitta culturale gravita di conseguenze. La verità è che quei dibattiti andrebbero riletti come documenti esemplari del ritardo di una parte degli intellettuali comunisti.
Nella vicenda del PCI di quegli anni un capitolo a parte meriterebbe la funzione cui assolveranno alcuni intellettuali. Un passo indietro rispetto ai gruppi dirigenti politici del partito contrabbanderanno 1’ ignoranza di ciò che avveniva in Europa con la pretesa di coltivare un caso italiano più avanzato. Sofismi pur di evitare di fare i conti con la socialdemocrazia e il riformismo.
Alla fine degli anni ‘70 si esaurirà la politica di solidarietà nazionale. Il PSI l’ha vissuta con l’assillo che il grande incontro tra DC e PCI potesse schiacciarlo. Il partito comunista dopo trent’anni di opposizione si è misurato concretamente anche se indirettamente con il tema del governo.
“Il PCI ha ispirato la sua politica in quegli anni ricorderà Gerardo Chiaromonte - a una visione degli interessi nazionali rispetto alla quale ogni altra considerazione è passata in secondo piano”.
In realtà il governo di solidarietà nazionale dedicherà quasi tutta la sua attenzione a un solo tema, quello del terrorismo. E nel corso della drammatica vicenda del rapimento e dell’assassinio di Aldo Moro si manifesteranno diversi punti di vista tra i due partiti della sinistra. E’ arduo ancora oggi discernere ragioni e torti nel modo in cui fu affrontata quella vicenda. Continuo a pensare ancora a distanza di tanti anni che la linea adottata sia stata giusta, e tuttavia riflettendo sulla condotta del PSI in quella fase emerge in modo indiscutibile che tra i socialisti si manifesterà una disponibilità maggiore all’ascolto delle inquietudini che si vanno diffondendo in ambienti e settori del Paese verso la vocazione a concepire in termini unitari e organicistici gli sviluppi della società italiana.
La verità è che tra la cultura comunista unitaria, centralizzata, non aliena dall’accettare come propria alcuni valori fondativi della tradizione e le culture conflittuali generate dalla rivoluzione del costume e delle aspettative di cui è investita l’Italia si determina una profonda incomprensione che soprattutto negli strati giovanili diventa aperta contrapposizione.
Il PSI appare, al di là di manovre politiche evidenti, più consapevole della necessità di tenere conto e aprirsi a problematiche di tale natura. Con la fine di Moro scomparirà l’interlocutore del PCI.
Il tentativo di incontro tra DC e PCI che ha occupato il centro del decennio si conclude, il ciclo si chiude. In realtà questa forma del tutto anomala avrebbe potuto rivelarsi funzionale se fosse stata intesa come premessa per una democrazia compiuta. Il PCI l’ha vissuto in modo diverso. Per i comunisti il compromesso storico è lo sbocco naturale di tutta la storia precedente del partito, la stessa vittoria elettorale del ‘75-’76 ha interpretata come il risultato di un processo continuo qualcosa che veniva da lontano.
Gerardo Chiaromonte scriverà che quella politica fu intesa da tutti e dallo stesso Berlinguer come la continuazione e lo sviluppo della linea di unità democratica e antifascista, e sarà De Giovanni a sostenere riflettendo su quel passaggio della storia d’Italia, che in una, situazione non togliattiana si seguì una strategia togliattiana, e in quella situazione si vide la massima legittimazione quasi il successo di quella strategia.
La verità è che il compromesso storico nonostante tentativi enfatici di attribuirgli una valenza addirittura universale sarà il prodotto di una situazione nazionale e costituirà l’estremo tentativo del PCI di assumere il ruolo di forza di governo senza un ripensamento di fondo del proprio impianto ideologico.
In ogni caso una simile strategia dopo la morte di Aldo Moro e la liquidazione della sua politica resterà una mera ipotesi ideologica che cozzerà contro l’asse DC-PSI la cui logica politica si sarebbe espressa negli anni ‘80 nell’obbiettivo dell’isolamento del PCI e del suo svuotamento politico ed elettorale.
Passeranno due anni dalla rottura della rottura della maggioranza di unità nazionale a quando la direzione del PCI adotterà la linea dell’alternativa. il 27 novembre dell’80 nel clima agitato dalle polemiche sui ritardi degli interventi governativi in soccorso delle vittime del terremoto, il PCI decide l’abbandono esplicito della linea del compromesso storico, e formula nel momento stesso in cui i socialisti l’hanno di fatto abbandonato la proposta dell‘alternativa.
In realtà la proposta dell’alternativa verrà fatta discendere da una argomentazione politica e da un’analisi che non si discosteranno da quelle usate negli anni precedenti, l’alternativa non nasce dall’idea di una alternanza tra forze diverse in un contesto nazionale condiviso. Essa nasce da una lettura pessimistica della società italiana che si ritiene investita da una crisi storica e da una denuncia di una questione morale che si configura come una emergenza democratica.
Si delinea una prospettiva in cui le forze politiche intermedie e lo stesso PSI l’alternativa si risolverebbe nel passaggio da una egemonia a un’altra, dalla DC al PCI. Posta in questi termini la proposta entrerà in rotta di collisione con il partito socialista.
La verità è che il processo di alternativa andrebbe configurata in termini diversi come costruzione di uno schieramento politico aperto in cui diventi essenziale la capacità di iniziativa autonoma del PSI. Non accadrà, anzi il duello a sinistra si esaspererà sempre di più in realtà dietro l’irrigidimento del PCI.
Scriverà Roberto Gualtieri “C’è la consapevolezza che un’alternativa di governo avrebbe inevitabilmente richiesto una profonda trasformazione del partito e della sua identità”. E’ il rischio che Berlinguer vuole scongiurare. Alla fine dell’81 ha scritto su Rinascita: “Per rinnovare noi stessi e spingere gli altri a rinnovarsi dobbiamo mantenere ben netti il riaffermare i caratteri che ci fanno diversi”. E’ una contraddizione logica ma nasce dal convincimento che incombe una crisi del sistema politico e che occorre mantenere la diversità dei comunisti per affrontarlo.
Certo Berlinguer ha avvertito il manifestarsi dei segni di un declino e di un corrompimento della vita pubblica e farà di questo tema con una lungimiranza che deve essergli riconosciuta, uno dei suoi motivi dominanti negli ultimi anni di vita. Il PCI tuttavia non riuscirà a indicare una strategia politica in grado di dare una risposta efficace a quello che è il vero problema l’origine dei fenomeni di degenerazione della vita pubblica e dell’invadenza dei partiti. Un sistema politico privo di alternanza.
Questa sarà la contraddizione da cui il PCI non verrà mai fuori. Fu estranea al pensiero di Berlinguer l’idea di una trasformazione del sistema politico italiano in senso bipolare per consentire un meccanismo di alternanza nella vita del Paese. Prevalse la convinzione che fuori dall’assetto politico e istituzionale entro cui si era sviluppato nel dopoguerra il PCI avrebbe rischiato la marginalizzazione.
Le conseguenze di tutto ciò le pagherà il Paese.
Tale impostazione porterà il PCI a non valutare come sarebbe stato necessario, la novità che si è prod9tta nella vicenda politica italiana agli inizi degli anni ‘80; la partecipazione del partito comunista alla solidarietà nazionale ha di fatto provocato la caduta della conventio escludendum ed ampliata a sinistra l’area della legittimità. Al PCI non si contesta più il diritto a governare, la questione che viene posta riguarda la sua attitudine a farlo. E’ un fatto enorme. La legittimità a governare per il PCI non ha più bisogno di alcuna forma di democrazia consociativa ma dipende dalla sua capacità di raccogliere sulla base di un convincente programma uno schieramento di governo. La verità è che il PCI incontrerà difficoltà che si riveleranno insormontabili a convertirsi in una forza politica capace di assumere decisamente la guida nel processo di formazione di uno schieramento alternativo di governo. Per farlo avrebbe dovuto condurre alle estreme conseguenze la revisione avviata un quarto di secolo prima ma il PCI ha sempre preteso di compiere il rinnovamento nel segno della continuità. Ha proceduto secondo una logica cumulativa dove tutto è adattamento e niente è mutamento. In tal modo - sosterrà un acuto studioso — “il nuovo si è aggiunto e sovrapposto al vecchio, il risultato è stato un impasto spesso contraddittorio fonte di ambiguità”.
Per esempio all’impegnativa affermazione fatta sotto l’incalzare degli avvenimenti polacchi che si è esaurita la spinta propulsiva della Rivoluzione d’ott9bre si accompagna il rilancio della strategia della terza via. Mentre si affronta il trauma del distacco dall’URSS ,osserverà Massimo Salvadori, Berlinguer sembra dire ai militanti “badate, le critiche all’est non significa che stiamo diventando socialdemocratici”. La preoccupazione di Berlinguer che lo strappo con l’URSS possa essere vissuto come un cedimento è talmente assillante che nel messaggio per il nuovo anno sull’unità del 31 dicembre 1981 parlerà di decrepitezza della cultura riformista, tuonerà contro il fallimento del riformismo che resterebbe per sua natura subalterna al capitalismo e concluderà con un richiamo alle virtù delle diversità comuniste.
Da cosa nasceva questa linea di condotta da parte del PCI? In realtà c’è una questione di cultura politica: il Paese sta cambiando, il PCI non sembra percepire la portata delle novità. “Noi non capivamo il peso dei cambiamenti grandissimi che investivano l’occidente”, osserverà Alfredo Reichlin. Ed essendo incapaci di rinnovare i nostri schemi politici e culturali ci arroccammo a difesa di tutti.
Da questo punto di vista gli appunti di Tatò recentemente pubblicati ci restituiscono in un diverso concettuale inquietante; a colpire una rappresentazione del mondo che mostra di non cogliere ciò che va maturando, il capitalismo occidentale sta uscendo da una lunga crisi degli anni ‘70 in forma destinata a mutare le caratteristiche di fondo dell’economia internazionale. La sensazione che si ricava dalla lettura di quelle note che al vertice del partito sia dominante una lettura della mutazione in atto in termini di degenerazione della società occidentale. In realtà non funzionare più è lo schema teorico secondo il quale la sinistra rappresenta le ragioni dello sviluppo e la destra rappresenta invece la stagnazione e la crisi.
In questa situazione occorrerebbe scongiurare il rischio di immobilizzare il partito in un’azione sterile, viceversa la spinta al settarismo diventa più forte. Mentre si proclama la prospettiva dell’alternativa si accentua nel corpo del partito una larghissima diffidenza nei confronti del PSI. Vanamente Giorgio Napolitano proverà a richiamare al metodo dell’analisi differenziata a proposito del partito socialista, a non chiudersi in vuote invettive non sortirà granché, in questo clima del resto è maturata la bruciante sconfitta alla FIAT.
Questa linea di condotta da parte del PCI fornirà argomenti al partito socialista per ritornare alla collaborazione con la DC. Il segretario del PSI ha accolto agli inizi degli anni ‘80 un bisogno di stabilità nel Paese, la stanchezza per il terrorismo, per l’addensarsi di tensioni sociali senza sbocco, e di fronte al ritrarsi del PCI alla necessità di scongiurare elezioni anticipate Craxi alza la bandiera della governabilità. E’ una tattica che consentirà al PSI di superare quello stato di frustrazione che lo ha contraddistinto negli anni del frontismo e del centrosinistra.
Partendo da questo tuttavia non rimuoverà la condizione di debolezza elettorale del partito, e partendo da questo dato matura nel PSI la decisione di rivendicare la guida del governo. L’avvento della prima presidenza socialista sarà dell’agosto dell’83: cambia la scena e trasforma un bilancio elettoralmente stagnante in un successo politico; la conquista di Palazzo Chigi si carica di suggestione e aspettative. Craxi apparirà a molti il leader che rompe la tradizione di un sistema politico istituzionale appesantito dalla ricerca continua della mediazione.
Quando il PSI assume la presidenza del Consiglio il PCI ha di fronte a sè due strade possibili: incalzare Craxi sfidandolo ad essere conseguente sul terreno delle riforme, far leva sul timore di un decisionismo destabilizzante. Berlinguer scelse questa seconda strada fino a dare all’azione del PCI caratteri di quella che Salvadori definirà “l’opposizione etica” al craxismo. In realtà come il periodo tra il ‘78 e l’83 costituì il punto di non ritorno della crisi culturale per il PCI per la risposta conservatrice che esso diede all’offensiva liberalsocialista il biennio ‘83-’84 è quello in cui matura la crisi della politica del PCI con la sconfitta su due questioni decisive: gli euromissili e la scala mobile.
Il PCI non terrà conto di proposte che sui missili verranno da Craxi improntate a prudenza, come la cosiddetta clausola dissolvente o l’opzione zero e andrà così perduta l’occasione di un avvicinamento sul terreno strategico della politica internazionale.
Sulla scala mobile occorre ricordare che in quegli anni favorita da una congiuntura internazionale l’economia italiana cominciò a registrare segni di dinamismo. Se un limite ebbe quell’esperienza di governo, esso fu l’opposto di quello di neoliberismo denunciato dall’opposizione, mentre la conflittualità sociale cedeva cadeva, il debito pubblico si avvitava. L’opposizione di sinistra avrebbe dovuto scommettere su una grande politica di riduzione del debito che allargasse i margini della ripresa dell’economia e stabilizzasse i conti pubblici.
Una personalità come Amendola se fosse stato vivo credo avrebbe lanciato la sfida su questo punto, con la battaglia sulla scala mobile si scelse un’altra strada, una strada che condurrà alla sconfitta.
Socialisti e comunisti attraverseranno gli anni ‘80 duellando tra di loro, alla fine le conseguenze in un groviglio inestricabile di responsabilità saranno pagate da entrambi. La storia del PSI giungerà a un esito traumatico,
il PCI sarà incapace di giungere in anticipo sul 1989.
Sbagliarono entrambi e molto.
Ai gruppi dirigenti del PCI sfuggi che il filo conduttore che guidò le mosse della leadership socialista dalla fine degli anni ‘70 era stato lo sforzo per recuperare al PSI una propria fisionomia originaria ed autonoma. Mancò da parte del gruppo dirigente del PCI di quegli anni il coraggio di una iniziativa che riconoscesse che la sinistra avrebbe potuto governare il Paese solo in presenza di un PSI capace di una propria originale caratterizzazione.
Il PCI temette Craxi, lo temette perché per la prima volta nella sua storia, la sfida non veniva da minoranze velleitarie alla propria sinistra o alla propria destra intorno alla questione dei legami con l’Unione Sovietica. La sfida era di ben altra portata, in discussione era la capacità del PCI di essere all’altezza del compito di governare l’Italia. La strada per affrontare l’offensiva socialista era una sola, realizzare una innovazione ideale tale da collocare il PCI esplicitamente nel campo del socialismo democratico.
Era possibile una simile svolta in quegli anni? Certo questa sollecitazione verrà in modo sempre più insistente tra l’81 e l’89 dalle componenti riformiste interne al PCI, ma occorrerà attendere il 1989. Solo il crollo del muro imporrà la svolta. Io credo che Enrico Berlinguer avvertisse questo drammatico dilemma che si stagliava dinaìzi al PCI ma si illuse di poterlo affrontare senza aggiungere ad una esplicita fuoriuscita dalla tradizione comunista. Ritenne che vi fosse il tempo ed esistessero le basi concettuali per risolvere il problema battendo un’altra strada, la chiamò “la terza via”, una via che non avrebbe portato da alcuna parte.
Il partito socialista da parte sua utilizzò l’estenuante lentezza del rinnovamento del PCI per ripiegare sulla linea dell’accordo con la destra democristiana, smarrendo quell’equilibrio tra la necessità di garantire il governo del Paese e la necessità di lavorare a una prospettiva alternativa.” L’ambiguità da governare” di cui scrisse Antonio Giolitti.
Cafagna si chiede, era Bettino Craxi un uomo tendente a un recupero modernizzante della tradizione socialista o divenne a un certo punto della sua punta solo un uomo di potere per il potere? Per la tattica Craxi aveva l’intuito e la prontezza necessaria e le sue qualità personali, e lui lo sapeva, erano eminentemente tattiche e non strategiche. Craxi fu per molti una lunga attesa, in tanti avevano pensato che potesse seguire la strategia di Mitterand. In realtà mancò in Italia la precondizione che aveva reso possibile Mitterand, il mitterandismo nasce da anni di opposizione ai partiti di centro destra. Il craxismo si sviluppa e si afferma in un duro gioco d~ cooperazione e competizione con le forze centriste. Il mitterandismo nasce dall’effettiva dissociazione dei socialisti dai metodi di governo di cui intendevano essere alternativi. Fu soltanto una necessità storica imposta dall’inerzia del PCI quali che fossero le intenzioni di Craxi col passare degli anni, la linea della governabilità finirà col perdere il rapporto con la prospettiva dell’alternativa.
Il partito socialista che aveva posto per primo il tema della riforma politico-istituzionale ripiegherà sul mantenimento dello status quo, e gli anni della estensione del potere a tutti i livelli saranno anche gli anni della riduzione del partito socialista come organismo vivente e pensante. Sarà Formica uno spirito libero ed arguto, a parlare di nani e ballerine, una triste metafora dello svuotamento degli organismi dirigenti del partito socialista a cui non si reagì quando sarebbe stato ancora possibile.
Nel 1987 quando Craxi conclude il suo lungo governo il partito del presidente del Consiglio toccherà il suo massimo elettorato: 14,3%. Era mancato un successo strategico? Le ragioni sono diverse. Sfuggi a Craxi che il PCI malgrado ritardi e ideologismi non era riducibile ad una sorte di variante italiana del comunismo internazionale, ma aveva radici profonde nella realtà del Paese, nel mondo del lavoro, ed era riuscito a intessere un rapporto con autorevoli partiti dell’Internazionale.
Ma la ragione di fondo è un’altra quella su cui insiste Sabbatucci, la ripresa della collaborazione con la DC e l’assunzione della guida del governo non produssero quei mutamenti e quelle riforme essenziali per la modernizzazione del Paese al tempo stesso decisivi per accrescere l’autorità e i consensi del partito socialista.
Il PSI degli anni ‘80 conquisterà un più ampio spazio e tuttavia alla fine il paradosso. “Sfruttando tutte le opportunità offerte dal sistema e diventandone il massimo beneficiano scrive Sabbatucci finirà con l’identificarsi con il sistema in crisi, il partito socialista, e col precludersi la possibilità di intercettare l’onda crescente di dissenso che proprio contro quel sistema andava maturando e che lo travolgerà”.
Il che per un partito che aveva lanciato l’idea della una grande riforma suonerà amaro e beffardo.
Consentitemi un’ultima considerazione, affidare a un politico una riflessione sul rapporto tra il PSI di Craxi e il PCI di Berlinguer ha senso solo se è rintracciabile un contenuto di attualità di quella polemica e della battaglia politico-culturale che l’avvento della leadership di Craxi determinò nella sinistra italiana. C’è una tale attualità? resta qualcosa dei temi e dei nodi che furono alla base di quello scontro? Che senso ha riproporre ancora oggi una riflessione che non sia puramente storiografica su Craxi e il PCI? Un senso c’è.
L’Italia resta l’unico paese in cui persino dopo un quinquennio di governo del centrosinistra alcuni non ritengono plausibile una candidatura della sinistra alla leadership della coalizione. L’Italia resta l’unico paese in cui pur registrando ormai l’esistenza di una formazione socialista maggioritaria, nella sinistra esiste di gran lunga più che in altri paesi d’Europa il condizionamento politico e culturale di un’area radicale che influenza il profilo e le posizioni della sinistra. E infine l’Italia resta l’unico paese europeo in cui la prospettiva di una modernizzazione della sinistra si pone non come processo interno di cambiamento ma nei termini di fusione con filoni e tradizioni lontane.
Sono questi i termini? Se vogliamo dirci almeno oggi la verità di una persistente difficoltà della sinistra italiana che testimoniano di un valore non puramente storiografico della lacerazione che ha diviso la sinistra degli anni ‘80, delle ragioni di un conflitto che ha diviso e lacerato la sinistra degli anni ‘80 e delle conseguenze di lungo periodo che esso produsse, e che ha guardar bene oggi ancora scontiamo.