UNIRE I RIFORMISTI, GOVERNARE IL PAESE Il testo della relazione di apertura del Consiglio Nazionale del 31 gennaio 2004 di Roberto Villetti

01 gennaio 2004

La lista unica per le elezioni europee può essere domani il timone politico del centrosinistra

Penso di interpretare, all’inizio dei lavori della nostra assemblea, un sentimento assai diffuso tra i socialisti ricordando una figura di grande rilievo per la cultura italiana, Norberto Bobbio, scomparso recentemente. Non si può comprendere a pieno l’influenza del filosofo torinese se non ci si misura con i forti limiti che ha avuto la sinistra italiana. Nel nostro Paese non c’è stato mai un forte partito socialdemocratico di tipo europeo occidentale che portasse avanti un programma di riforme sociali, accompagnato da una ferma difesa dei principi della democrazia liberale. Bobbio, che comprese bene questo grave handicap, ha cercato per tutta la sua esistenza di docente e di studioso di dialogare con i socialisti e i comunisti per convincerli di questo ed è in questo contesto che si colloca la sua lezione civile e morale.

Il filosofo torinese può essere definito il teorico di un socialismo liberale che si colloca nella socialdemocrazia europea. Bobbio amava ricordare una celebre frase di Gaetano Salvemini, che secondo il filosofo torinese dovremmo tutti imparare a memoria. Diceva Salvemini: “Chi è convinto di possedere il segreto infallibile per rendere felici gli uomini, è sempre pronto ad ammazzarli.” Qui, in queste poche parole è condensato il laicismo, il riformismo e l’antidogmatismo che caratterizza il socialismo liberale. Ebbene, nella nostra azione politica il pensiero di Bobbio resta e resterà per noi socialisti un punto di riferimento essenziale.

Questo nostro Consiglio Nazionale è chiamato a dare una valutazione sullo stato dei lavori della Lista unitaria. Possiamo prendere atto positivamente che si sono create e rafforzate le condizioni per le quali noi avevamo deciso, con la nostra Convenzione Nazionale di Napoli, di aderirvi. Non è stato un percorso facile. L’incontro, che Boselli, Fassino, Rutelli e Sbarbati hanno avuto a Bruxelles con Romano Prodi, ha rafforzato la prospettiva per la quale ci siamo da tempo impegnati. Noi abbiamo conseguito un risultato positivo poiché abbiamo posto condizioni di carattere generale assai sentite e diffuse tra i DS e nella Margherita. Non abbiamo certo posto condizioni di partito o di potere.

Noi – ed è bene ripeterlo oggi che la questione si è risolta – non abbiamo mai posto veti nei confronti di nessuno, tanto meno nei confronti dell’Italia dei valori di Di Pietro. Siamo convinti, come lo sono tutti, che nell’attuale sistema maggioritario si devono fare le alleanze più vaste, che bisogna imparare a convivere tra diversi e che non si può pretendere in partenza l’omogeneità politica e programmatica.

Per questo motivo, ci siamo mossi per estendere e rafforzare l’alleanza di centrosinistra anche rispetto a quelle componenti che non erano state con l’Ulivo nell’ultima campagna elettorale del 2001, come Rifondazione Comunista e l’Italia dei Valori. Sappiamo bene come quella divisione abbia pesato nella sconfitta del centrosinistra e, prima ancora, come sia stata pesante la rottura di Rifondazione Comunista con il governo Prodi e quella di Antonio Di Pietro con il governo Amato. Questi percorsi diversi hanno indubbiamente creato polemiche e incomprensioni che ancora pesano nello schieramento dell’opposizione, ma siamo tutti convinti che il valore dell’unità sia fondamentale per sconfiggere il centrodestra. Noi abbiamo posto una questione diversa che non ha nulla a che vedere con i veti e che invece riguarda la qualità della coalizione. Non bisogna, infatti, solo vincere le prossime elezioni politiche, ma anche – una volta sconfitto il centrodestra – riuscire a governare nel segno della stabilità e delle riforme.

Per vincere con questo sistema maggioritario occorrono le alleanze più vaste ed estese ma per governare è necessaria una forte leadership politica, com’è quella di Prodi, e una forte coesione dei riformisti e dei riformatori. Le due cose non sono affatto in contraddizione, ma sono invece complementari. Solo così si può creare un timone – per riprendere una definizione di Fassino - che segni la rotta del centro sinistra. Questa cooperazione, per essere efficace, può avvenire solo tra forze affini. Non può avvenire con formazioni che affini non sono. Qui sta la ragione dello stare insieme tra SDI, DS, Margherita e Repubblicani europei. Qui sta il motivo per cui l’Italia dei Valori fa una sua lista diversa. Tutti restiamo, però, alleati nel centro sinistra e nell’Ulivo.

Il problema principale che abbiamo ora è quello di rilanciare il centro sinistra, di evitare ulteriori polemiche e di riprendere la strada dell’unità. L’esperienza della scorsa legislatura deve costituire per tutti quanti noi una lezione da non ripetere. Non lo diciamo per quanto riguarda i governi che ci sono stati e che per molti aspetti hanno dato risultati apprezzabili, ma per l’immagine di instabilità e di divisione che il centrosinistra ha offerto. Non siamo riusciti a far comprendere alla maggioranza dei cittadini tutto il valore dell’azione che c’è stata di risanamento economico e finanziario e dell’approdo dell’Italia alla moneta unica europea. Siamo stati, invece, penalizzati dai sacrifici che le politiche del centro sinistra hanno richiesto. E’ stato premiato Berlusconi che a “Porta a porta”, la piazza televisiva di Vespa, ha promesso il Bengodi: meno tasse, più pensioni e più infrastrutture.

Non credo che il centro sinistra debba gareggiare in demagogia con Berlusconi su chi promette di più. C’è l’esigenza di un cambiamento radicale che dia una ben definita fisionomia politica e programmatica a tutto il centro sinistra. Fin dal nostro Congresso di Genova ci siamo posti l’obiettivo strategico di una ristrutturazione del centro sinistra, che abbiamo in comune con Romano Prodi fin da quando introdusse sulla scena politica l’idea dell’Ulivo. Dopo l’89 e dopo il collasso del sistema politico in Italia non si è determinato un nuovo panorama simile a quello dei grandi paesi democratici dell’Europa Occidentale. Infatti, al fine di comprendere fino in fondo la natura delle formazioni in campo bisogna ricorrere spesso ai termini di ex e post. A suo tempo, il filosofo Biagio Di Giovanni ha osservato che il forte limite del centrosinistra è proprio quello di apparire come una alleanza di forze residuali provenienti da un mondo politico che non c’è più.

Si è creata una situazione nella quale il vecchio non è del tutto stato superato, né il nuovo si è del tutto affermato. Questa è del resto la caratteristica dell’attuale sistema politico italiano che – non a caso – è definito ancora in transizione. Modificare la situazione attuale è il principale impulso che ci deve guidare. Noi siamo convinti che in Italia sarebbe necessario un partito socialdemocratico di tipo europeo. Tuttavia, non vi sono le condizioni perché ciò si realizzi. Solo se con la crisi del vecchio sistema politico il PCI, Il PSI e il PSDI avessero dato vita a un nuovo partito, avremmo potuto avere anche in Italia un partito socialdemocratico di tipo europeo, contrapposto a un partito cristiano democratico, anch’esso con un forte riferimento al contesto del nostro continente. Così non è stato perché dopo le prime fasi di Tangentopoli non è intervenuta la politica come sarebbe potuto e dovuto accadere. Il problema tuttavia di una diversa articolazione del centrosinistra e più generale di tutte le forze politiche italiane rimane del tutto inalterato.

La Lista unitaria, per la quale abbiamo lavorato e alla quale continueremo a dare il nostro contributo, vuole essere un primo passo verso una trasformazione del centrosinistra. Innanzitutto la Lista, se verrà premiata dagli elettori, potrà costituire il primo nucleo di una cooperazione rafforzata tra riformisti e riformatori che dia l’impronta politica e programmatica alla coalizione del centrosinistra. Questa cooperazione rafforzata potrebbe essere il laboratorio nel quale riuscire a dare vita a un soggetto politico federato, nel quale i partiti mantengano una propria peculiarità e una propria autonomia ma vi siano regole comuni per decidere insieme le questioni più importanti della politica italiana. E in ultima istanza si può pensare che, se questo processo andrà avanti, si potrà arrivare ad un vero e proprio partito riformista. Forzature, strette o accelerazioni non solo non servono ma possono essere controproducenti. L’idea guida di tutto questo processo deve essere la costruzione di qualche cosa di profondamente innovativo in Italia e in Europa. Questa è, del resto, la strada che stanno percorrendo i partiti socialisti, socialdemocratici e laburisti per superare i confini tradizionali dell’antico movimento operaio. Non si tratta di riportare tutto il centro sinistra al “secolo socialdemocratico” che si è appena chiuso ma di sperimentare vie nuove.

Chi deciderà i tempi, i modi e le forme di questo processo? A mio giudizio saranno solo e soltanto le elettrici e gli elettori. Se alle prossime elezioni europee la Lista avrà una ampia massa di consensi, superiore a quella delle formazioni che l’hanno promossa, allora l’idea di un partito riformista e riformatore acquisterà quota e si diffonderà nella opinione pubblica. E’ a questo risultato che noi come socialisti puntiamo. Quando pensiamo in futuro a un nuovo partito, non riteniamo che ciò debba avvenire con le forme organizzative che sono state conosciute nel passato. Troppo spesso nell’ultima fase della storia della Prima Repubblica i partiti hanno avuto caratteristiche onnivore, invadendo spazi propri della società civile. Ciò è avvenuto soprattutto nel campo dell’amministrazione dello Stato, ma soprattutto in quello dell’economia e della finanza.

I partiti, dopo la crisi di sistema che è avvenuta dopo l’Ottantanove, sono stati costretti a lasciare il campo. Alla lunga ritirata dei partiti, che per certi versi è stata sacrosanta, inevitabile e positiva, non potevano subentrare automaticamente nuovi protagonisti che fossero in grado di prenderne il posto. Le risorse associative, corporative ed locali in Italia non sono mai mancate, ma sono state sempre inserite nella rete della politica. Questa dipendenza dalla politica, intesa come contesa di fazioni, dipende dal fatto che in Italia non è mai esistito uno stato centrale composto da una burocrazia sufficientemente neutrale e comunque dedita ad assicurare la continuità delle istituzioni. Lo Stato è stato trasformato dal fascismo in un aggregato politico nel quale contava direttamente il dirigente importante del partito unico al potere. Su questo conio, come osservò a suo tempo Giuliano Amato, sulla base di un’analisi di Luciano Cafagna, si sono innestati i partiti democratici con l’avvento della Repubblica. L’assenza dello Stato come apparato neutrale che garantisce identici trattamenti a tutti i cittadini è mancato e ancora se ne sente la mancanza. A questa debolezza dello Stato non ha corrisposto una borghesia imprenditoriale dotata di autonomia ma un capitalismo a base famigliare, che ha sempre ricercato nella politica i mezzi per assicurarsi quelle sovvenzioni necessarie a sostenere attività economiche spesso in difficoltà. Dove non ci sono stati più i partiti non sono ancora apparsi nuovi attori sulla scena. Piuttosto si è creata a ridosso della società politica una nebulosa di soggetti che appaiono più che altro un personale dirigente di riserva, talvolta già sperimentato nel Palazzo, con forti caratteristiche ideologiche o religiose. Il problema di una struttura associativa nella società italiana, che vada oltre alle caratteristiche di categoria o di classe e sia rivolto a interessi dei cittadini come utenti, clienti, consumatori o risparmiatori, è ancora aperto come quello di avere un’impresa moderna capace di reggere la concorrenza e rispettare le regole.

Ha fatto molta impressione nell’opinione pubblica il caso della Parmalat che è stato – per il vero - preceduto da quello della Cirio. Sappiamo bene che si tratta di un fenomeno criminale che non può essere generalizzato a tutto il contesto dell’impresa italiana. Tuttavia, soprattutto per le dimensioni finanziarie della truffa, per il buon nome che aveva acquisito l’azienda di Collecchio nel mondo e per i riflessi gravi che ha avuto nei confronti dei risparmiatori, la Parmalat ha smentito nei confronti dell’opinione pubblica la convinzione che delle grandi imprese italiane ci si potesse comunque fidare. Certo, era ben noto che gli imprenditori italiani erano stati coinvolti nel finanziamento illegale ed irregolare dei partiti e della politica, ma l’impressione che allora si era avuta fu che erano statti trascinati obtorto collo in Tangentopoli. Ciò che è accaduto con la Cirio e con la Parmalat e potrebbe accadere con altre aziende dimostra che l’Italia ha ancora profonde sacche di arretratezza dove non alligna solo la mafia tradizionale ma anche la pura e semplice criminalità economica e finanziaria.

Si è parlato di una nuova Tangentopoli che oggi dovrebbe investire le imprese italiane, dopo quella che ha coinvolto i partiti. A dire il vero, non ci sono oggi elementi per fare una previsione del genere. Comunque, la giustizia deve fare il suo corso poiché l’illegalità oltre ad essere un fattore di inciviltà ostacola lo sviluppo. In ogni caso, non dovrà avvenire ciò che è successo con Tangentopoli quando oltre a colpire i dirigenti e gli amministratori che avevano commesso reati si sono lasciati distruggere i partiti democratici. Se saranno chiamati in causa manager ed imprenditori disonesti si dovrà comunque cercare di salvare aziende che spesso sono sane o comunque con opportune iniziative possono stare sul mercato. Per quanto ci riguarda - forse sarà un vecchio rito - esprimiamo la nostra piena solidarietà ai lavoratori italiani e stranieri della Parmalat e della Cirio, come a tutti quelli che assieme ai risparmiatori sono i primi danneggiati delle malversazioni compiute.

Le illegalità e i crimini nel mondo dell’economia e della finanza vanno a scapito non solo del risparmio ma anche della tenuta e della credibilità del nostro sistema. La risposta al caso Parmalat deve essere sicuramente quella di irrobustire autorità che siano in grado di controllare e di far rispettare le norme che esistono e quelle che devono essere create per evitare il ripetersi di questi gravi fenomeni. Anche se Berlusconi ha preso tempo rinviando a martedì una decisione, si è formato un largo consenso attorno all’ipotesi di affidare i controlli a tre differenti autorità: per la stabilità alla Banca d’Italia, per la trasparenza ad una nuova super Consob, per la concorrenza - compresa quella bancaria - all’Antitrust. Tutta questa nuova architettura va costruita cercando di assicurare alle tre autorità la massima indipendenza attraverso procedure decise concordemente tra maggioranza e opposizione. Noi siamo convinti che in queste emergenze, come nel caso della politica estera e della tutela dell’ordine pubblico, sia assolutamente necessario in una democrazia dell’alternanza assicurare politiche bipartisan. E’ comunque indispensabile che nuove norme e nuove autorità possano avere una vita che vada oltre quella di una maggioranza parlamentare. Tuttavia esiste un problema più generale che riguarda le imprese, il futuro della nostra economia, la politica industriale.

La crisi della Parmalat ha dato l’impressione che nel mondo dell’economia e dell’impresa si annidi il raggiro, la truffa, l’inganno nei confronti del mercato e soprattutto dei risparmiatori. Ora, in questi termini il problema non esiste. Solo chi concepisce il mercato come una sorta di calcolatore che alloca le risorse e che può essere facilmente ingannato a proprio vantaggio può credere che economia e criminalità sia una coppia vincente per accumulare ricchezza. Il mercato, invece, è istituzione, regole, controlli, deontologie, cultura, tradizioni. Può esistere un mercato selvaggio ma al contrario di quanto alcuni fanno credere si tratterebbe di una forma del tutto arretrata che non comporterebbe uno sviluppo sano e sostenibile.

Il problema principale sta nel nuovo rapporto che si è creato tra economia e finanza su scala globale. La nascita di nuovi prodotti finanziari, come sono i derivati, ha talmente ampliato la gamma delle offerte da sconvolgere i tradizionali criteri di gestione delle imprese. Gli Stati sono sprovvisti di efficaci meccanismi di controllo sulle transazioni finanziarie. Non è, del resto, possibile ipotizzare una marcia indietro con una finanza che torna ad accamparsi sotto le tende dell’economia reale. Si tratta di mettere in campo nuovi strumenti su scala macroregionale e a livello internazionale per governare fenomeni che possono determinare gravi turbolenze.

Occorre un diverso respiro alla nostra politica economica, alla nostra politica industriale e al mercato. L’estensione delle funzioni giurisdizionali, che ha messo in primo piano l’azione dei giudici in molti settori del nostro paese, è anche il risultato dell’assenza di efficaci controlli interni alle imprese, allo Stato, alla Pubblica Amministrazione, capaci innanzitutto di disincentivare i comportamenti deviati. E’ in questa direzione che bisogna che si realizzi un vero cambiamento di mentalità, di cultura e di tradizione nel nostro Paese. Noi dobbiamo sempre avere presente, nel momento in cui costruiamo una architettura politica come è la Casa dei riformisti o dei riformatori, che ciò che interessa maggiormente i cittadini sono i problemi quotidiani che essi vivono.

La crisi economica che è avvenuta al livello internazionale e che ha avuto ripercussioni anche in Italia, ha indubbiamente indebolito tutti, risparmiatori e consumatori, imprenditori e lavoratori. L’aspetto che più ha colpito tutti i cittadini è stato costituito dal carovita che ha ridotto il potere d’acquisto dei salari e degli stipendi. Abbiamo assistito ad una vera e propria offensiva che Berlusconi ha portato avanti contro l’euro che sarebbe – a suo dire - il solo responsabile dell’aumento dei prezzi. Questa mossa propagandistica da parte di Berlusconi non nasce solo dal’euroscetticismo che alberga all’interno del centro destra, ma serve soprattutto a colpire nell’immaginario collettivo quello che è stato da presidente del Consiglio il grande artefice, assieme a Ciampi, dell’entrata dell’Italia nella moneta unica europea e comunque il personaggio più rilevante che abbiamo oggi in Europa, Romano Prodi. Pur di cercare di colpire il suo futuro contendente nelle prossime elezioni politiche, Berlusconi non esita a danneggiare lo stesso interesse nazionale del nostro Paese. Quest’atteggiamento è davvero sciagurato. Da questo nostro Consiglio Nazionale vogliamo esprimere a Romano Prodi tutta la nostra solidarietà.

Questo attacco di Berlusconi non è una prova di forza, ma un sintomo di debolezza. Da tutti i sondaggi, almeno per il momento e con la cautela con la quale devono essere prese queste rilevazioni, il centro destra appare in netto declino e il centro sinistra in netta ripresa.

Questo euroscetticismo di Berlusconi contraddice un asse tradizionale della politica estera del nostro Paese. Se l’Italia non fosse stata oggi nell’euro, in presenza di una crisi congiunturale di tipo internazionale come si è finora profilata e con lo scoppio del caso Parmalat, si sarebbero avuti forti contraccolpi. L’euro invece costituisce il primo garante del nostro stock del debito pubblico che come sappiamo è tra i più elevati d’Europa e che bisogna comunque ridurre, anno dopo anno, per riportarlo al livello della media dei paesi dell’Unione. Attaccare quindi l’euro significa danneggiare il nostro paese. Berlusconi è in difficoltà perché non è riuscito a mantenere le sue promesse. Le tasse non sono diminuite, i redditi sono cresciuti poco, i prezzi di parecchi beni sono aumentati di molto. Tremonti ripete che il governo non ha messo le mani in tasca agli italiani. C’è stata, però. una mano invisibile che ha alleggerito e di molto le tasche dei cittadini.

Il malcontento cresce attorno al Governo. I cittadini vivono una condizione di malessere. La protesta assume forme diverse che escono dai canali tradizionali e diventano ribellione sociale. Il caso degli autisti dei trasporti pubblici di Milano è emblematico di una situazione che rischia di sfuggire di mano. Ci si trova di fronte a problemi che non sono uguali tra città e città e non solo tra Nord e Sud d’Italia. Nelle grandi aree metropolitane il carovita si è fatto sentire di più. E non si tratta solo dell’aumento dei prezzi di generi di prima necessità, ma anche del fatto che alcuni consumi, come il ristorante e persino la pizzeria, stanno diventando un lusso e comunque inavvicinabili per redditi famigliari medi.

L’ansia che i giovani provano per il lavoro flessibile si diffonde in tutta la famiglia allargata ai genitori che è oggi l’unica vera rete di protezione in caso di disoccupazione transitoria. Per la prima volta esistono due o tre generazioni, dai venti ai trenta anni, che temono che il proprio futuro sia peggiore di quello vissuto dai propri genitori. Dal dopoguerra in poi, il sentimento diffuso era stato sempre quello dell’attesa di continui miglioramenti. Questo stato d’animo gioca contro il governo, ma non è affatto detto che vada automaticamente a vantaggio delle opposizioni.

Questa questione è sintetizzabile nella frase: “non basta dire no!” E così ritorna il problema del programma. Tuttavia, non si tratta di scrivere uno zibaldone con tante soluzioni a tanti problemi, ma di offrire – come ripetutamente ha osservato Michele Salvati – un messaggio che sia un tutt’uno con il leader che lo incarna e con il programma che è proposto. Il messaggio per il centro sinistra deve essere rivolto al cambiamento. E’ il tema delle riforme. Dovrebbe essere del tutto naturale per il centro sinistra essere riformisti o riformatori, ma non è affatto così. Il centrosinistra ha dato molte volte la sensazione di essere per il mantenimento dello status quo e di attestarsi a difesa dell’establishment. Si tratti dello Stato sociale, del sistema previdenziale, della scuola o della giustizia il centro sinistra dà l’impressione di preferire la conservazione al cambiamento.

Il centrosinistra deve innanzitutto fare una riflessione molto attenta sui consensi che ha avuto e soprattutto sui consensi che non ha avuto. Probabilmente alla base della disaffezione dei ceti deboli c’è la convinzione che né la sinistra né il centro sinistra li difendano sufficientemente arroccandosi sulla situazione esistente. Sempre più appare che all’Ulivo vanno soprattutto i consensi che appartengono a ceti medi e a ceti medio alti, sia dal punto di vista del reddito sia dal punto di vista della cultura. Al centrodestra invece vanno in generale più consensi nelle fasce di reddito molto basse e di bassa istruzione. Sicuramente questo fenomeno non è solo dell’Italia ma riguarda anche altri paesi europei, vedi per tutti il caso di Le Pen in Francia che ha conquistato consensi nella stessa classe operaia impaurita dall’immigrazione. Dobbiamo interrogarci perché questo avviene poiché dovrebbero essere proprio i ceti e le classi più svantaggiate a guardare con favore alla sinistra e al centro sinistra. e perché avviene con questa intensità.

Ogniqualvolta che si parla di riforme, il centrosinistra tende ad avere come interlocutori non in cittadini in quanto utenti, clienti, consumatori o risparmiatori, ma solo i cittadini in quanto addetti ai servizi. Una volta perduto il riferimento alla classe operaia, e comunque in generale alla classe lavoratrice, la sinistra, e il centrosinistra, non riesce a connettersi con quegli aspetti della vita dei cittadini che non riguardano specificatamente il lavoro. Così non si coglie come il lavoro oggi sia di primaria importanza per chi non ce l’ha o ce l’ha precario, mentre per gli altri cittadini sono più importanti altri aspetti come essere donna o uomo, essere malato, essere utente dei servizi pubblici di trasporto, essere cliente di una rete telefonica, essere consumatore o risparmiatore e cercare di non essere ingannato. Il centro sinistra italiano appare assai arretrato nel cercare di comprendere gli stili di vita, i bisogni, i desideri e le attese degli italiani. Si muovono grandi rivoluzioni, come quella demografica, di fronte alla quale non si può far finta che nulla cambi nella previdenza. C’è bisogno di più scuola pubblica, di più ricerca e di più innovazione, ma per realizzare questi obiettivi sono richieste più risorse e bisogna dire dove si troveranno. Si diffonde il lavoro intermittente senza che lo Stato sociale offra una rete di sicurezza per i ricorrenti periodi di disoccupazione. Ci sono gli anziani non autosufficienti verso i quali non c’è sufficiente ed adeguata assistenza. Il nuovo mondo impone il cambiamento e il centro sinistra non può rinchiudersi in se stesso.

Non sappiamo come andrà avanti questo processo che parte con la Lista, ma dobbiamo sapere fin da oggi che non si potrà tradurre solo in un’opera di architettura politica. Tutto o quasi tutto - come ho detto - dipenderà dal risultato delle elezioni europee. Sarà comunque di grandissimo rilievo come sarà presentata la Lista, quale sarà il messaggio che darà Prodi ai cittadini, come riusciremo a presentarci per davvero come forza di cambiamento. Il primo banco di prova avverrà con la Convenzione che è stata programmata per il 13 e 14 febbraio a Roma, al Palalottomatica, l’ex Palazzetto dello Sport nel quartiere dell’Eur. Si tratta di un appuntamento assai importante e decisivo per tutti noi. Tutti abbiamo accolto come un fatto grandemente positivo che Romano Prodi concluderà i lavori della Convenzione e sarà il presidente del comitato promotore della Lista. Infatti è attorno a Prodi che dovrà essere costruito il messaggio da diffondere agli elettori.

Due leader, Prodi e Berlusconi, si fronteggeranno. Si tratta non solo di due stili diversi ma di due messaggi differenti che dovremo chiarire sempre di più di fronte agli elettori e alle elettrici. La nostra manifestazione dovrà rendere chiara immediatamente ai cittadini tutta la diversità che c’è tra il centro sinistra che si riunirà a metà febbraio e Forza Italia che si è ritrovata insieme per il suo decennale. Dobbiamo fare di tutto per marcare il nostro antagonismo al populismo e al plebiscitarismo che caratterizza il centro destra. Ritorna anche in questo caso la lezione liberale di Bobbio.

Assieme alla campagna elettorale per il Parlamento Europeo, noi dovremo affrontare le elezioni provinciali, quelle comunali e quelle per il rinnovo del Consiglio Regionale della Sardegna. Dato che non ci presenteremo con il nostro simbolo alle elezioni europee, le elezioni amministrative costituiranno per noi una prova di grandissima rilevanza. Sulla base di questi risultati sarà misurata la nostra consistenza elettorale e la nostra capacità di rappresentare ciò che è rimasto di vivo e di vitale del movimento socialista nella sinistra. A questo scopo dobbiamo prepararci alle elezioni europee, come a quelle amministrative, con un forte impegno. In vista di questo obiettivo abbiamo convocato per la fine di marzo il Congresso Nazionale dello SDI. Sarà questa l’occasione per avviare un dibattito al nostro interno ma anche per fissare gli elementi fondamentali del nostro programma politico ed elettorale. E’ del tutto evidente che la lista dovrà sulle questioni fondamentali, dalla politica estera alla politica economica all’ordine pubblico, mantenere una posizione unica. Dobbiamo avere - e il primo appuntamento che ci attende è quello parlamentare sulla missione in Iraq - una posizione che sia concorde tra tutti coloro che danno vita alla Lista per le europee. Noi siamo dell’avviso che si può definire un orientamento preciso, anche a maggioranza, all’interno della Lista. A tale scopo si possono fissare apposite regole per arrivare ad una decisione comune. Sull’Iraq, come SDI, non abbiamo cambiato posizione: siamo stati contrari all’intervento americano; siamo per un’internazionalizzazione della transizione sotto l’egida dell’Onu; siamo per astenerci sul rifinanziamento della missione militare al solo scopo di non far mancare la solidarietà di tutto il Paese alle nostre forze armate. Detto ciò, siamo pronti a seguire una decisione comune, anche se fosse diversa da questa nostra posizione.

Questa necessità di una impostazione coerente della Lista pone anche allo SDI il problema di aggiornare il nostro ruolo politico e programmatico. Noi non possiamo concepire in termini puramente burocratici e organizzativi la nostra adesione alla lista. Noi non abbiamo altro patrimonio se non quello delle nostre convinzioni, delle nostre tradizioni e delle nostre idee che possono essere un fattore propulsivo per una forza che voglia definirsi riformista. Se rinunciamo a far sentire il nostro parere, di fatto abdichiamo al nostro ruolo. Non dobbiamo però neanche concepire il nostro contributo come la ripetizione continua di una posizione di partito da portare avanti per distinguerci rispetto alle altre due grandi forze della Lista Unitaria. Dobbiamo sempre più concepire il nostro contributo come qualcosa che coinvolga sempre più insieme lo SDI, i DS, la Margherita, i Repubblicani europei e le diverse associazioni che con questi partiti formano la lista.

In questo percorso strategico che ci attende non dobbiamo mai perdere di vista il nostro partito, la comunità nella quale facciamo politica assieme. In tutta questa impresa, che noi abbiamo fermamente voluto, la nostra struttura politica ed organizzativa ha un valore che dobbiamo cogliere in tutto il suo significato. Noi non ci incamminiamo nella costruzione della Lista, come premessa di obiettivi assai più impegnativi, da soli ed in ordine sparso. Possiamo, infatti, contare qualcosa in termini politici ed ideali se portiamo con noi la tradizione, la memoria e la storia del movimento socialista in Italia. Quanto più sapremo esprimere i sentimenti più autentici di giustizia e libertà dei nostri grandi antenati socialisti, tanto più riusciremo ad essere una componente fondamentale di un nuovo movimento riformista in Italia. Per fare questo curiamo il nostro Partito che è per tutti noi davvero importante. Non consentiamo che altri possano pretendere di rappresentare il socialismo collocandosi innaturalmente a destra. Impegniamoci allora nelle elezioni europee, ma anche in quelle amministrative. Oggi è aperta di fronte a noi un’importante prospettiva strategica. Si tratta di una sfida molto difficile da affrontare. Si tratta di un terreno per noi veramente nuovo. Si tratta però di un impegno al quale credo tutti noi abbiamo pensato nel corso degli ultimi anni e al quale vogliamo dare il meglio di noi stessi.

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