Gennaio - Febbraio 2002 - Editoriale di Luciano Cafagna su MondOperaio - IL TARLO DELL'ANTIPOLITICA

31 gennaio 2002

L'anno 2002, nel quale stiamo entrando, segnerà i dieci anni dall’avvio della “guerra civile fra i poteri” che pose fine a quella che la pubblicistica corrente chiama da tempo la Prima Repubblica.
Il casus belli di quella guerra civile fra i poteri (che ebbe persino i suoi morti) fu, come spesso nelle guerre, un episodio minore — lo si ricorderà —: l’arresto di Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano, e socialista, colto in flagrante mentre incassava una “mazzetta”. Di lì partì — come fosse logisticamente pronta da tempo — una campagna di iniziative e di intimidazioni giudiziarie su larghissima scala. Pare che si proponesse di realizzare una sorta di bonifica morale del mondo politico italiano. Fu appoggiata e valorizzata - questo non va dimenticato da una massiccia campagna di stampa e di televisione:
gli storici futuri potranno verificare, ma credo che sia stata una campagna quasi unanime, alla quale tutte le direzioni e redazioni parteciparono (forse le redazioni più delle direzioni, salvo che per il Tg 3 che ebbe un direttore, nel suo genere bravissimo, che trasmetteva ogni sera veri e propri bollettini di guerra). E alla quale nessuna “proprietà” si oppose.

Questa campagna denunciò per mesi e mesi, in un crescendo martellante, la città politica italiana come “Tangentopoli” (parola che ebbe una fortuna immensa), cioè la polis delle tangenti per antonomasia, nel suo genere qualcosa come il Paese dei Balocchi di Pinocchio, o qualcuno dei paesi visitati dal Gulliver di Jonathan Swift. Fu una campagna di screditamento radicale della classe politica della democrazia italiana. Distrusse il partito colonna della “Prima Repubblica” — la Democrazia cristiana — nonché il Partito socialista. La vicenda venne ad aggiungersi, a distanza di pochissimi anni (1992 e 1989), allo sfacelo di quello che era stato per anni il tormentato, ma indispensabile, “faro di luce” ideologico del grande Partito comunista italiano — l’Unione Sovietica — e alla crisi, derivatane, di questo partito, che aveva dovuto abiurare quel nome-bandiera di “comunista”. A sinistra molti vissero il crollo della Democrazia cristiana e dei socialisti come una sorta di vendetta della storia, quasi di rivincita degli ex-comunisti. Ma non era così. Si sbagliavano di brutto. Le due catastrofi non si compensavano, ma si sommavano. La crisi era crisi della intera democrazia italiana. L’intervallo del centrosinistra, inesorabilmente effimero nonostante lo sforzo fatto per metterlo in mare con tutte le benedizioni da un forte Presidente della Repubblica quale fu certamente Oscar Luigi Scalfaro, sta a confermarlo.

E torniamo quindi agli storici del futuro: si daranno certamente un gran da fare per capire se vi siano state (e con quali nomi e cognomi) connivenze fra magistrati ed esponenti dell’ex-Pci. E quanto abbiano eventualmente pesato pressioni di tipo sessantottino delle redazioni di giornali e di televisioni e se, e come, in queste pressioni abbiano giocato, come sollecitatori o magari anche come moderatori, uomini dell’ex-Pci. E forse, quegli storici del futuro, cominceranno a porsi il problema di storia comparata che consiste nell’illuminare la storia di un paese determinato andando a vedere come situazioni analoghe siano state, in paesi diversi, affrontate e risolte in modi diversi con risultati diversamente efficaci.

Con quella crisi, da noi, si apri la strada a quella che la stessa pubblicistica ricordata dianzi chiama la “Seconda Repubblica”. “Seconda Repubblica” che ora, a quanto pare, e a conti fatti, dopo un decennio di “transizione”, sembra essersi assestata — incredibile dictu — come repubblica populistico-berlusconiana, centrifugobossiana, nostalgico-finiana. Nonché, sostanzialmente e irriducibilmente, “antigiustizialista”, se per “giustizialismo” intendiamo un regime di più o meno accentuato giacobinismo giudiziario, nel quale la magistratura tenda ad esercitare un controllo quasi quotidiano sulla “virtù” dei politici, colpendoli persino nei momenti più delicati dell’esercizio delle loro funzioni di rappresentanti del paese, come fece incredibilmente qualche anno fa la magistratura milanese con il Presidente del Consiglio in carica durante un consesso internazionale ospitato nella città di Napoli . Non vogliamo ricordare il nome di quel Presidente del Consiglio perché, ai fini di quello che qui cerchiamo di sottolineare, il nome non ha alcuna, proprio alcuna, importanza. E non ha alcuna importanza tutto quello che di male ciascuno di noi può pensare di chi lo porta.

A conti fatti, dunque, l’esito di quella “guerra civile” per la verità non ancora completamente terminata,
ma di esito che direi praticamente scontato, salvo il boomerang sempre possibile di errori di opposto estremismo
- pare annunciarsi come sostanzialmente catastrofico per quella parte della magistratura che la aveva avviata. Nonché, va aggiunto, per coloro che, nell’area politica, l’avevano, con spirito suicida, caldeggiata, applaudita, incoraggiata. Catastrofico, vorrei aggiungere, con estremismi se vogliamo eufemisticamente chiamarli così — da parte del vincitore che appaiono addirittura ripugnanti.
C’è, in ogni caso, da supporre che l’anno 2002 abbia a finir con l’essere un anno nel quale si tenteranno bilanci di questo tormentato decennio. E potrebbe essere non inutile, dunque, prepararsi ad affrontarli partendo col piede giusto piuttosto che col piede sbagliato.

La riflessione più seria che dovremmo fare sugli esiti della
crisi che allora venne aperta è infatti che se il giustizialismo è risultato perdente, non si può purtroppo dire con chiarezza chi abbia vinto e che connotati chi ha vinto abbia. E’ un fatto - da sottolineare con il verbo all’indicativo — che la campagna giustizialista ha avuto, come unico effetto sostanziale (sono in molti a nutrire dubbi sull’effettivo ridursi della corruzione), quello di moltiplicare nel paese il discredito per la politica. E il dilagare, quindi, dell’Antipolitica. E’ un punto, questo, sul quale non si insisterà mai abbastanza, ma che dovrebbe diventare, invece, un indiscutibile luogo comune, soprattutto nella sinistra democratica. Quando parliamo di “Antipolitica” dobbiamo intenderci, perché molti possono non capire bene di che si tratta. Di “Antipolitica” — per fare un esempio - si nutrì abbondantemente il fascismo, il quale faceva pensare a quei suoi seguaci che erano in buona fede - un numero certamente assai più grande di quanto l’antifascismo abbia poi voluto ammettere — di voler sostituire, nella guida del paese, il Genio, i Giusti e gli Eroi alla feccia dei politici politicanti. I quali politici politicanti non erano poi altro che i politici della democrazia, liberamente eletti, con tutti i loro pregi — vi erano fra loro i Turati, i Matteotti, gli Sturzo, gli Amendola, i Nitti — e tutti i loro difetti. Non cito Gramsci, che pure considero un
grande, perché, in direzione opposta, neanche lui, allora, credeva nella democrazia.

Non ogni movimento “antipolitico” sbocca di necessità nel fascismo, naturalmente. E infatti io non penso per nulla che il berlusconismo sia fascismo, non lo ho mai pensato, e ritengo, anzi, che sia una pericolosa sciocchezza pensarlo: i difetti di Berlusconi e del berlusconismo sono molti e gravissimi, però non sono il fascismo. Ma, quando dico questo, intendo per “fascismo” il fascismo vero e proprio, il regime di dittatura antidemocrati-ca con soppressione delle libertà, prepotenze etniche e razziali, norme retrive verso i diritti etc. e non solo uno “stato d’animo” come a volte oggi si tende bonariamente a fare. Il fatto è che l’Antipolitica può definirsi come un’ anticamera sulla quale possono aprirsi più porte (ma è comunque l’anticamera dalla quale si passa per andare al fascismo): al giustizialismo reca una di queste porte di quella stessa anticamera (e molti si sono dimenticati come i neofascisti o postfascisti, comunque li si voglia chiamare, plaudissero entusiasti, a suo tempo, alla operazione “Mani pulite”).

La democrazia è una cosa complicata e piena di pericoli. E’ complicata perché è difficile, come fa intendere la parola stessa con la quale la “nostra” democrazia viene distinta da quella utopica che è la cosiddetta “democrazia diretta” (quella che corrispondeva alla “libertà degli antichi” dì Benjamin Constant, libertà fondata sulla schiavitù e sulla guerra). La nostra democrazia, noi la chiamiamo “indiretta”. Ed è vero, purtroppo, che in quei passaggi dell”’indiretto”, del mandato, cioè, nonché della rappresentanza, dei partiti, etc., ci si può perdere, si può perdere qualcosa e a volte anche molto. Ma “altra non ce ne è” - diceva il nostro Salvemini. “E’ il peggiore di tutti i sistemi, ad eccezione di qualsiasi altro” diceva Churchill, con una battuta che dovrebbe stare sulla porta di ogni nostra casa. E’ complicata, dunque, ed è piena di pericoli. Ma il pericolo più grande è la sfiducia. Ricordate Roosevelt, in altro contesto? “La sola cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa”. La logica è quella. Chi ingenera sfiducia nella democrazia — l’Antipolitica dei nostri tempi è questo — commette, contro la democrazia, il reato più grave. Non c’è appropriazione indebita che possa mettersi a paragone.

Nessuno può mettersi in testa di poter infallibilmente pilotare nei propri presuntuosi porti virtuali la
sfiducia in quelle relazioni civiche che si esprimono nella politica, che, nei nostri tempi, è la politica della democrazia, con i suoi pregi, ripetiamolo, e i suoi difetti. Il risultato effettivo della violenta delegittimazione operata anni fa dai rivoluzionari giustizialisti è ora davanti a tutti. La sfiducia nella politica ha prodotto la popolarità e il successo di un non-politico (fattosi politico, ovviamente, perché alla natura delle cose, vichianamente, non si sfugge), di uno percepito come “uno-come-noi”, uno che si è fatto da sé, uno che non ha bisogno di rubare perché è ricco, uno che parla come lo ha fatto mamma e non come un libro stampato, uno che è più bravo perché lo dimostrano i soldi che ha saputo fare, uno che può rivolgersi (“populisticamente”) alla gente senza tutti quei complicati meccanismi istituzionali del sistema rappresentativo parlamentare e le trappole che questo porta con sé. Tutte fesserie, certo, ma che discendono sillogisticamente dalla sfiducia nella politica dei politici. Persino il fatto che abbia potuto evadere le tasse — come gli imputano taluni magistrati - appare positivo. Oh, chi le mette le tasse? Chi, di grazia, se non quei maledetti “politici”? Per poi farne carne di porco. Evadere è dunque, diciamocela tutta, sacrosanto, se solo si riesce a farlo sfuggendo alle sanzioni: Bossi non lo suggeriva da tempo? E Berlusconi cosa altro è se non un Bossi non straccione, un Bossi in bella copia?
Per ora l’ondata antipolitica scatenata dalla rivoluzione giustizialista, e dal can-can massmediale che la accompagnò, ci ha dato Berlusconi. Quanto al futuro, esso è nelle mani di Dio. (Sento gridare dal fondo: “Aridatece la Prima Repubblicaaaa”..!).

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