Febbraio 2002 - IL PENDOLO DI TANGENTOPOLI - Intervista a Mino Martinazzoli - di Francesco ANFOSSI da Famiglia Cristiana
01 febbraio 2002
Ricorda quel giorno avvocato? Quel 17 febbraio 1992, giorno dell’arresto di Mario Chiesa?
«Non ho ricordi particolari del Mariuolo, come lo defini Craxi. Anche perché la data più significativa di Tangentopoli, dal punto di vista politico-istituzionale, è un’altra».
Nel suo ufficio di consigliere regionale lombardo del Ppi (poco più di uno stambugio, una cella monacale con scrivania e computer) Mino Martinazzoli accende una sigaretta e fissa assorto le volute azzurrine di fumo, come per leggervi il passato. Sull’argomento qualcosa da dire ce l’ha. Come avvocato, ex deputato, ex ministro della Giustizia, ex sindaco di Brescia. E, soprattutto, come ultimo segretario della Democrazia cristiana, al capezzale di un partito ormai al collasso.
Qual è, dunque, la data più importante di Tangentopoli, secondo lei?
«Il 13 luglio 1993, quando il presidente della Repubblica Scalfaro si rifiutò di firmare il decreto Conso sul finanziamento ai partiti, dopo che i magistrati di Milano minacciarono in Tv le dimissioni. Tanto bastò per indurre la classe politica a tornare sui suoi passi».
Fu definito il decreto "salva ladri”...
«Si limitava a trovare una soluzione».
Sembra voler bocciare Mani pulite...
«No, tutt’altro. Una delle vulgate di oggi, da parte di certe forze politiche, è che Tangentopoli è stata una congiura della magistratura con obiettivi politici: interpretazione piuttosto originale e dettata dalla convenienza politica del momento. Chiunque abbia buon senso, chi conosce il modo di essere della magistratura, non può essere convinto di questo. Però è anche vero che il torto della magistratura in quegli anni è stato quello di subire l’effetto “drogante” della popolarità. Il decreto Conso non sarebbe stato respinto se non si fosse coagulato intorno ai magistrati il senso comune degli italiani. Fu il maggior punto di caduta del potere politico».
E oggi?
«Oggi abbiamo la sensazione che la maggioranza di Governo tenda a recuperare il suo ruolo quasi come una rivincita. L’equilibrio dei poteri è proprio dello Stato di diritto. Se diventa conflitto permanente, è difficile trovare soluzioni. Attualmente, seguendo il pendolo della storia, sembra che sia il potere politico a influenzare la giustizia. Ma sono sempre due momenti patologici. Il pendolo continua a oscillare».
Chi è Antonio Di Pietro?
«La raffigurazione storica di quel che accade nei grandi rivolgimenti. Più Masaniello che Robespierre, direi».
Chi è stato Bettino Craxi?
«Pagò il suo coraggio. Bisogna pur ammettere che si alzò in Parlamento e difese la politica. La sera in cui gli lanciarono le monetine andai a trovarlo al Raphael. Lo trovai solo, abbandonato, con lui c’era solo un ragazzo».
Era Luca Josi, segretario dei giovani socialisti. Craxi era amareggiato?
«No. Craxi era un combattente. Mi sembrò ottimista sulla possibilità di una reazione. Parlammo di iniziative legislative per risolvere il problema del finanziamento illecito».
Che percezione ha oggi del livello di corruzione in Italia?
«Quella che avevamo identificato come una pervasiva corruzione politica credo che sia molto ridotta. Tutto era legato al modo di essere dei partiti, e oggi quei partiti così pesanti, che avevano bisogno di molti soldi per vivere, non ci sono più. Se, invece, parliamo della corruzione che si annida nel rapporto pubblico-privato, allora è difficile rispondere. C’è ancora una zona dove la corruzione prospera, come hanno dimostrato i recenti fatti di cronaca. Qualcosa non dico di fisiologico, ma un rischio che è permanente. Quello che rimane però in campo, irrisolto e inquinato, è il fatto che oggi è in crisi l’equilibrio dei poteri. Non sarebbe giusto confondere i problemi della giustizia con la cronaca giudiziaria. Se li confondiamo viviamo in una condizione malsana. Quando un processo, come il processo Sme-Ariosto, diventa un caso politico, quando è messo in discussione il principio che ogni cittadino è uguale di fronte alla legge, vuol dire che le cose non vanno bene. Quando l’esercizio legislativo del Parlamento approva scelte che coinvolgono gli stessi episodi, c’è qualcosa che non va. Se un grande tema moderno come la giustizia internazionale ancora una volta è sospettabile per le decisioni sulle rogatorie, allora è impossibile parlare di un processo riformatore».
La Dc crollò per Tangentopoli?
«No, Tangentopoli ha influito sul modo del nostro epilogo, ma le ragioni della nostra decadenza non sono lì».
E dove sono?
«Nel non aver saputo cogliere il cambiamento. Nel 1989 era caduto il muro di Berlino. E in quella data vi fu l’ultimo Congresso della Dc, in cui venne eletto Forlani segretario. Io ero presidente dei deputati e feci un intervento che si guadagnò 20 minuti di applausi. Dissi: “Badate che la crisi del comunismo in Europa conclude la fase storica della Dc, quella che, come diceva Moro, la condannava a governare, per mettere il Paese al riparo da disavventure disastrose”. E aggiunsi che non potevamo essere il motore immobile del cambiamento, che ne saremmo diventati il bersaglio. Mi riferivo all’esigenza di essere tempestivi, di cogliere l’occasione. Come quando decidemmo di recuperare la sigla del partito di Sturzo».
Di chi fu l’idea?
«Mia, credo. Ricordo tanti contrasti. Contro di noi c’erano l’amico Luigi Granelli, i grandi vecchi Andreotti, il povero Taviani. Atteggiamenti rispettabili, che nascevano da un’incomprensione: io non volevo cambiare nome, io volevo recuperare il richiamo di Sturzo, la sua idea di partito di programma, di progetto. Dovevano essere di più le nostre idee e meno il nostro potere. Non c’era più l’inevitabile zavorra di un partito condannato a governare. In una riunione a piazza del Gesù dissi: “Adesso che avete capito che non era una condanna all’ergastolo, siete diventati melanconici e pretendete di replicare un passato che non c'è più».
Melanconici? Disse proprio così?
«Si, melanconici: un po’ patetici, ma anche inetti, nel momento dell’avversità. Tutto questo avveniva nella temperie di Tangentopoli, non passava giorno senza un politico in manette».
Tangentopoli è un accidente storico?
«Un accidente eccessivo. Quei giorni avevo la sensazione che se un pubblico ministero non aveva trovato un democristiano da inquisire, quando tornava a casa la sera sua moglie se ne lamentava».
Come reagiste in quei giorni?
«Noi dicevamo ai magistrati: “Vi rispettiamo, potete giudicarci. Ma badate che i processi che aprite li dovete chiudere. Se non lo fate, i vostri gesti avranno solo un’impropria valenza politica. E infatti l’effetto fu quello. La nostra voce era fievole, nel clima generale. Nessuno voleva ascoltarci. Alle amministrative del ‘93 non andammo a un solo ballottaggio perché nessuno voleva allearsi con noi. Eravamo gli appestati. Ricordo che una società ci regalò un sondaggio (non eravamo in grado di pagarlo, non avevamo una lira). La parola che rimbalzava tra gli ex elettori democristiani che ci negavano il loro voto era: tradimento. Avevamo tradito i nostri ideali».
Scusi, ma lei, prima di allora, non aveva mai avvertito il “lezzo”?
«Quello che si avvertiva chiaramente era che i soldi alteravano il dibattito all’interno del partito. Le tessere si compravano. Avevo raccontato la storia di un amministratore che si era venduto la casa per comprarsi le tessere necessarie a diventare presidente di una Usl. Le correnti costavano. Ecco perché ci ispiravamo a Sturzo: una struttura federata, leggera, un segretario nazionale e poi quelli regionali. E mai più correnti».
Dormiva di notte?
«Dipendeva dal giorno».
Lei era un Mosè che voleva traghettare la Dc dentro un partito leggero...
«Un Mosè mancato. La Dc subì un tracollo alle elezioni politiche del ‘94».
Poi andò via. Qualcuno l’accusò di tradimento...
«Volevo dare l’esempio per primo. Pesò anche una forte crisi psicologica... Furono mesi difficili. Avevo tagliato molte teste. Tutta l’autorevolezza che avevo la spesi. Me ne andai. Non potevo certo prevedere quello che sarebbe successo con Buttiglione. Ma non ho un brutto ricordo del ‘94. Quando tutti dicevano o a destra o a sinistra, difendemmo la memoria del Centro, alla base della vittoria del Centrosinistra di Prodi nel ‘96.
Come chiudere Tangentopoli?
«Non bisogna chiudere, bisogna riaprire. Ritornare alla mediazione, alla riflessione pacata. Quante ironie sul linguaggio moroteo, che invece era uno stile autenticamente democratico. La democrazia esige la pazienza del compromesso. La maggioranza ha ragione di governare, ma non è depositaria della ragione, solo perché ha vinto le elezioni».