Dicembre 2001 - gennaio 2002 L'ISLAM E L'OCCIDENTE TUTTO CIO' CHE DEVO SAPERE - Saggio di Luciano PELLICANI da Il Foglio (anche da Mondoperaio)

31 dicembre 2001

“La storia del mondo dal 1500 può essere concepita come una lotta fra il potere crescente dell’Occidente per opprimere il resto del mondo e gli sforzi ogni volta più disperati degli altri popoli per respingere gli Occidentali”.
William H. Mc Neill

“L’islam rimane il nostro scudo nella grande mischia della lotta tra civiltà”.
Abbasi Madani

“Ho cominciato a riflettere in un momento in cui la nostra cultura aggrediva le altre culture, di cui perciò mi sono fatto testimone e difensore. Adesso ho l’impressione che il movimento si sia invertito e che la nostra cultura sia sulla difensiva di fronte alle minacce esterne e in particolare di fronte alla minaccia islamica. Di colpo, mi sento etnologicamente e fermamente difensore della mia
Claude Lévi-Strauss

Quando, nel 1979, l’ayatollah Khomeyni, dopo aver costretto lo shah Muhammad Reza Pahlevi a prendere la via dell’esilio, proclamò la Repubblica islamica, il cancelliere socialdemocratico Helmut Schmidt dichiarò: “Ora bisognerà cominciare a studiare il Corano”. Se avessero seguito il suo consiglio, oggi - dopo l’attentato terroristico di Al Qaida alle Twin Towers di New York - gli Occidentali si troverebbero meno impreparati di fronte alla dichiarazione di guerra lanciata dallo sceicco Osama bin Laden [1].
Certo, negli ultimi venti anni, molto è cresciuta la letteratura sul mondo islamico; ma non è cresciuta altrettanto la percezione della minaccia che il fondamentalismo islamico costituisce per la civiltà in cui e di cui viviamo poiché numerosi sono stati gli studiosi che, dominati dalla preoccupazione di non essere accusati di coltivare pregiudizi eurocentrici, si sono prodigati per fornire una immagine politicamente corretta - e rassicurante [2] - della religione fondata da Maometto. Neanche quando Samuel Huntington diede alle stampe la sua monografia sullo scontro fra le civiltà [3], la vigilanza su quello che stava bollendo nella “pentola islamica” si rafforzò. Non pochi “esperti” assunsero un atteggiamento di sufficienza nei confronti della tesi di Huntington, quasi che essa fosse il frutto di una spericolata improvvisazione o, addirittura, un irresponsabile programma guerrafondaio. Ci fu chi, con una arroganza pari solo alla sua ottusità, ritenne di poter definire The Clash of Civilizations una “specie di pastrocchio oracolare” [4]. E questo malgrado il fatto che la Rivoluzione iraniana avesse attivato una reazione a catena dalla quale era scaturito un impressionante numero di movimenti fondamentalisti determinati a purificare la Umma - la comunità dei credenti -‘ ad abbattere i governi “apostati” e ad annientare il Grande Satana [5].

Va subito precisato che l’insorgenza dei movimenti fondamentalisti non significa punto che l’Islam in quanto tale abbia dichiarato guerra all’Occidente. Il fondamentalismo è una particolare interpretazione del Corano, la cui legittimità è contestata dagli stessi musulmani [6]. Sta di fatto che “la visione del mondo fondamentalista, cioè di quell’ideologia politica che divide il mondo in in-groups dell’Islam e in-groups degli altri visti come nemici, associandovi modi diversi di concepire l’ordine politico, è ai nostri giorni la più diffusa in tutto l’universo islamico” [7]. Accade così che i jihadisti, pur essendo una esigua minoranza, costituiscono una temibile forza non solo perché sono determinati a usare i mezzi più spietati e subdoli per conseguire i propri scopi, ma anche perché esprimono l’intenso risentimento dei musulmani nei confronti dell’arrogante e imperialistico mondo occidentale, da cui si sentono come assediati. Il che, detto con il lessico di Arnold J. Toynbee, significa che i popoli del Dar al Islam, a dispetto del fatto che da tempo hanno conquistato la loro indipendenza, continuano a percepirsi come il “proletariato esterno” della moderna civiltà industriale [8]. Ed è proprio da Toynbee - in particolare, dalla sua teoria della aggressione culturale - che bisogna partire, se si vuole andare al cuore dell’attuale dramma storico. Ma, prima di fare ciò, conviene fare chiarezza sulla visione del mondo contenuta nel Corano.
Il Messaggio profetico di Maometto - ultima e definitiva Rivelazione - si basa su una visione nettamente dicotomica e fortemente bellicista del mondo. Infatti, il Rasul Allah - l’inviato di Dio - non si limita a dividere il mondo in due territori - il Dar al.Islame il Dar al-kufr , vale a dire la “Casa della Vera Religione” e la “Casa della miscredenza” -; afferma a più riprese che fra questi due territori non ci può essere pace fino a quando l’Islam non avrà trionfato, fino a quando, cioè, il territorio della miscredenza non sarà stato conquistato dai “veri credenti”. Talché il Dar al-kufr è anche il Dar al -harb, la “Casa della guerra” [9]. E si tratta di una guerra santa, di una guerra voluta da Dio. Come tale, essa è una “missione di verità” tesa a “distruggere la falsità” [10] nel mondo intero, poiché - come recita un Hadith - “Dio ha rimesso la Terra ai musulmani” [11].

La guerra santa, dunque, contrariamente a quello che certi studiosi sembrano credere [12], nel Corano è concepita come un dovere religioso, anche se è vero che gli ulama- i dottori della Legge Sacra - non l’hanno mai inclusa fra i “pilastri dell’Islam”. E non si tratta solo di una guerra difensiva, bensì di una guerra offensiva, di una guerra imperialistica, che cesserà solo quando la “religione della verità” trionferà su tutto il pianeta Terra, poiché “il suo fine supremo è quello di costituire una sola comunità organizzata sotto una autorità unica, l’Islam della Ummaislamiyya” [13]. Sicché, non può non destare sorpresa l’illustrazione del concetto di jihad fatta da Sergio Noja sulle colonne del “Corriere della Sera”. Noja, dopo aver precisato che con la parola jihad - che vuol dire “sforzo”- si indicano due cose assai diverse fra di loro - la “grande guerra” contro gli istinti deteriori dell’uomo e la “piccola guerra” in armi contro gli infedeli -, cita alcuni versetti della sura della vacca dai quali si ricava che Maometto predicò una guerra difensiva accompagnata dalla raccomandazione di evitare gli eccessi [14]. Si dà il caso, però, che la sura del bottino non conferma punto l’interpretazione benevola di Noja [15]. Essa suona così: “Quando il tuo Signore disse, per rivelazione, agli angeli: io sarò con voi, rendete saldi quelli che credono, io getterò il terrore nel cuore di quelli che non credono, e voi colpiteli sulle nuche (decapitateli) e recidete loro tutte le estremità delle dita. Questo dovranno soffrire, perché essi si sono opposti a Dio, e chiunque si oppone a Dio e al suo apostolo, sappia che Dio sarà violento nel punirlo. Questo è il vostro castigo, verrà detto loro, subitelo, perché per i miscredenti è destinato il tormento del fuoco” [16]. E nella sura del pentimento si ritorna a invocare lo sterminio degli idolatri: “Uccidete i politeisti, ovunque li troviate, prendeteli prigionieri, assediateli e opponetevi ad essi [...]. Combatteteli dunque; Dio li punirà, per mano vostra” [17].
Chiaramente il Dio di Maometto, a dispetto del fatto che nel Corano venga continuamente chiamato il Misericordioso (al-Rahman), non è meno spietato e vendicativo del Dio del Vecchio Testamento [18], dal quale è ripreso di peso. E chiaramente altresì non si può dire - come pure è stato più volte detto, per evidenti e comprensibili ragioni politiche - che l’Islam è una religione della pace; al contrario, è una religione della guerra permanente, centrata sull’idea che i miscredenti devono essere posti di fronte all’alternativa: “Conversione o morte”. Un’idea che -fortunatamente per le popolazioni assoggettate - gli Arabi, sin dalle prime conquiste, misero da parte. Accadde così che essi, per calcolo politico, estesero lo status di dhimmi - previsto dal Corano solo per le “genti del Libro”, vale a dire gli ebrei e i cristiani - anche ai politeisti (mandei, mazdei, induisti e buddhisti) - purché, naturalmente, “pagassero “la jizya alla mano con umiliazione” [19]. Vero è che, di tanto in tanto, gli ulama chiesero l’applicazione letterale del dettato coranico; ma la “ragione teologica” raramente prevalse sulla “ragione politica” - persino in India [20], dove pure numerosi furono gli episodi di disfrenamento dell’odio teologico contro l’idolatria (distruzione dei templi, massacro degli indù, odiose discriminazioni tese a umiliare gli “infedeli”) [21]. Insomma, nel complesso i conquistatori musulmani si attennero alla linea di condotta fissata in una lettera inviata dal governatore dell’Iraq, Hajjaji ibn Yusuf, al nipote Muhammad ibn Qasim. che, avendo conquistato il Sind, chiedeva istruzioni circa il modo con cui dovevano essere trattati gli idolatri. “Dal momento che gli Indiani si sono sottomessi e hanno pagato l’imposta - questa fu la risposta di Hajjaji [22] - che cosa si può loro chiedere di più ? Li abbiamo presi sotto la nostra protezione; ci è dunque impossibile privarli dei loro beni e delle loro vite. Che sia loro accordato il permesso di adorare i loro dei. Nessuno deve essere molestato nella pratica della religione cui appartiene. Essi possono vivere secondo il loro costume” [23].

Se il regime di tolleranza istituzionalizzato dagli Arabi nei territori da essi conquistati [24] fu dettato da ragioni squisitamente politiche - il loro obbiettivo era quello di dominare e sfruttare le popolazioni assoggettate, non già sterminarle -‘ di natura affatto diversa furono le motivazioni del loro atteggiamento nei confronti dei prodotti spirituali degli “infedeli”; in particolare, dei Greci, di cui - esattamente come era accaduto secoli prima ai rozzi Romani - subirono lo straordinario fascino sino al punto da creare, agli inizi del IX secolo, la Casa della Sapienza [25]. Grazie a questa ammirevole istituzione, furono tradotti, studiati e diffusi i classici della filosofia e delle scienze [26]; il che contribuì potentemente a fare della civiltà islamica il faro intellettuale del Mediterraneo, nello stesso momento in cui l’Europa cristiana arrancava faticosamente per uscire dal buio dell’Alto Medioevo e Bisanzio irrigidiva le sue forme di vita espellendo dal suo seno la filosofia e con essa la libera investigazione [27]. Il risultato fu che, per secoli e secoli, non ci fu campo del sapere la teologia, la filosofia, la medicina, la matematica, l’astronomia, la geografia, la storiografia, ecc. - in cui i musulmani non poterono vantare un incontestabile primato [28]. E parimenti incontestabile era il primato economico del mondo arabo-musulmano rispetto a tutte le altre civiltà [29], se si eccettua quella cinese. Poi, a partire grosso modo dal XIII secolo, la luce, lentamente ma inesorabilmente, incominciò a spegnersi nel Dar al Islam, non prima, comunque, che le grandi opere di Averroè, distrutte e bandite dagli Almohadi, incominciassero a circolare in Europa, stimolando la rinascita della filosofia e dello spirito scientifico nella civiltà occidentale [30].

Molti sono stati i tentativi di spiegare perché mai quella che era stata una delle più brillanti e creative civiltà dell’intera storia dell’umanità abbia imboccato la via della decadenza e della pietrificazione delle sue istituzioni. Fra di essi, il più convincente - malgrado che sia stato pressoché ignorato sia dagli studiosi musulmani che da quelli occidentali [3l] - resta quello compiuto da Ibn Khaldun, il geniale storico arabo vissuto nel XIV secolo. La sua tesi è così riassumibile: la rovina economica della civiltà islamica era da imputare al fatto che i diritti di proprietà erano metodicamente calpestati dai governanti, i quali ritenevano di poter disporre ad libitum dei beni dei sudditi, con l’inevitabile conseguenza di soffocare sul nascere ogni motivazione a lavorare e intraprendere.
Ma sentiamo direttamente Ibn Khaldurì. “Vessare la proprietà privata - si legge nella Muqaddima -, significa uccidere negli uomini la volontà di guadagnare di più, riducendoli a temere che la spoliazione è la conclusione dei loro sforzi. Una volta privati della speranza di guadagnare, essi non si prodigheranno più. Gli attentati alla proprietà privata fanno crescere il loro avvilimento. Se essi sono universali e se investono tutti i mezzi di esistenza, allora la stagnazione degli affari è generale, a causa della scomparsa di ogni incentivo a lavorare. Al contrario a lievi attentati alla proprietà privata corrisponderà un lieve arresto del lavoro. Poiché la civiltà, il benessere e la prosperità pubblica dipendono dalla produttività e dagli sforzi che compiono gli uomini, in tutte le direzioni, nel loro proprio interesse e per il loro profitto. Quando gli uomini non lavorano più per guadagnare la loro vita e cessa ogni attività lucrativa, la civiltà materiale deperisce e ogni cosa va di male in peggio. Gli uomini per trovare lavoro si disperdono all’estero. La popolazione si riduce. Il Paese si svuota e le sue città cadono in rovina. La disintegrazione della civiltà coinvolge quella dello Stato, come ogni alterazione della materia è seguita dall’alterazione della forma” [32].
Alla luce di questa lucida diagnosi del tumore che stava corrodendo i tessuti vitali della civiltà musulmana, si capisce agevolmente perché quando il viaggiatore arabo Ibn Jubair giunse, nel 1184, in Palestina, constatò che i suoi correligionari - a dispetto del fatto che il Corano imponesse ai “veri credenti” l’obbligo di abbandonare il Dar al-kufr - preferivano vivere sotto il dominio dei kaflrun (infedeli) poiché questi ultimi “agivano con equità” [33]. Va subito detto che il comportamento dei sovrani cristiani non era dettato da un superiore codice morale. Se essi governavano “con equità”, era perché la società europea aveva preso, nel corso di furiose e interminabili lotte intestine, una originalissima configurazione politico-giuridica. Era diventata - giusta l’efficace definizione datane dallo storico arabo Amin Maalouf - “una società distributrice di diritti” [34].

Certo, la figura del cittadino era sconosciuta; ciò non di meno, i baroni, i cavalieri, gli ordini religiosi, le università, i mercanti, gli artigiani e persino i contadini godevano di diritti stabiliti con precisione e, di regola, rispettati [35]. Il che suscitava la meraviglia degli abitanti del Dar al Islam [36], che gemevano sotto una forma di dominio - il dispotismo - basata sull’arbitrio più totale. Accadeva così che, mentre nei regni che i crociati, manu militari si erano ritagliati nel Vicino Oriente i diritti dei contadini e dei mercanti - primi fra tutti, i diritti di proprietà - erano garantiti, tali diritti nel mondo islamico erano del tutto sconosciuti [37].
I governanti non esitavano a ricorrere a qualsiasi mezzo - le vergate, la prigione e persino la tortura - “per confiscare la ricchezza dei mercanti” [38]. La regola generale dell’Impero abbaside era la seguente: “Il visir confiscava la proprietà del governatore che cadeva in disgrazia e il governatore si appropriava dei beni degli ufficiali inferiori e dei privati cittadini” [39]. Una regola - codificata con l’eufemistica formula musadara (contribuzioni) - alla quale si attennero, salvo rare ed episodiche eccezioni, tutti i sovrani del Dar al.Islam.Il che avrebbe indotto Engels, sulla scorta dei preziosi réportages di Francois Bernier [40], a definire il modo di produzione tipico dei Paesi dominati dal sultanismo una “economia di saccheggio”, nella quale la proprietà dei sudditi era sommamente insicura e le pratiche fiscali quanto mai vessatorie [41]. Il tutto era animato dall’idea - formulata a chiare lettere dal celebre visir selgiukide Nizam al Mulk -che “il suolo di un regno e i suoi abitanti appartenevano al sultano” [42], il quale aveva il diritto di farne l’uso che credeva dal momento che era Dio stesso che gli aveva concesso il possesso del mondo” [43]. E, dal momento che gli ulama, dominati come erano dalla paura dell’anarchia, reiteravano continuamente che il dovere dei sudditi era quello di “non resistere mai al sovrano, anche quando questi era ingiusto” [44], l’inevitabile conseguenza fu la conversione dello Stato musulmano da “teocrazia di principio” in “autocrazia dei califfi e dei sultani” [45].

Vero è che né ai califfi né, tanto meno, ai sultani era riconosciuto il diritto di legiferare poiché, secondo la Sacra Immutabile Tradizione - la Sunna -, ogni cosa fisica e morale doveva essere regolata dalla Sharia, la quale, “in politica come in altre questioni, si basava sulla Rivelazione e quindi non era soggetta a cambiamenti” [46]. Sennonché, l’assenza di corpi intermedi, capaci di limitare in qualche modo il potere sovrano, rendeva quest’ultimo di fatto incontrollabile. Diversamente da quello che accadeva nell’Europa occidentale, nel mondo islamico non c’erano né aristocrazie ereditarie [47], né città autocefale [48]. né istituzioni ierocratiche autonome. L’autorità del sovrano - califfo o sultano che fosse - era praticamente illimitata e si estrinsecava attraverso tutta una serie di interventi aventi un duplice scopo: “acquisire il controllo personale dell’economia e mettere tutti i cittadini alla mercé delle sue richieste” [49]. Il che avveniva grazie a un singolare metodo di reclutamento del personale militare: il “sistema Mutasim” [50]. Le cose si svolgevano in questo modo: il titolare della sovranità, per evitare di dipendere da forze sociali autonome, comprava dei giovani schiavi (mamluk o ghulam) che trattava, diciamo così, come figli e che addestrava con particolare cura affinché fossero docili strumenti nelle sue mani. Questi “automi militari” [51] erano chiamati “apostoli del talento” [52] in quanto scelti per le loro qualità fisiche e intellettuali e, data la condizione di assoluta dipendenza nella quale si trovavano, potevano aspirare a ricoprire alti incarichi solo nella misura in cui riuscivano, manifestando una fedeltà incondizionata, a conservare il favore del loro signore. Accadeva così che essi “appartenevano interamente allo Stato ed erano privi di legami familiari o locali in grado di compromettere la loro totale dedizione al padrone e al servizio della casta militare” [53]; e accadeva altresì che essi costituivano una élite “ad alta coesione interna e pericolosamente irresponsabile nei confronti della comunità” [54], che trattava come cosa di cui poteva disporre a piacimento. Risultato: nel mondo islamico - ,soprattutto a partire dal trasferimento della leadership politico-militare dagli Arabi ai Turchi - lo Stato, interamente dominato dagli schiavi del despota, altro non era che la “dittatura di un esercito straniero sulla popolazione indigena” [55].

Per secoli e secoli, il “sistema Mutasim”, a dispetto della sua totale irrazionalità economica, diede ottimi risultati dal punto di vista politico-militare. Tant’è che l’ambasciatore di Ferdinando d’Austria a Istanbul, Busbecq. impressionato dalla compattezza dell’Impero ottomano e dal suo formidabile apparato bellico, giunse alla conclusione che l’Europa - lacerata dalle guerre di religione e divisa in tanti Stati in lotta permanente per l’egemonia - aveva poche chances di arrestare l’espansione dell’Islam [56].
Sennonché, due secoli più tardi, non solo la pessimistica previsione di Busbecq non si era realizzata ma, addirittura, risultava schiacciante la superiorità della rissosa Europa sull’Impero ottomano.
Per spiegare questo straordinario fatto storico, Franco Cardini ha così argomentato: “Ancora oggi, non è raro imbattersi in sostanziosi residui dell’antica convinzione che la civiltà occidentale si sia sparsa in, e imposta a, tutto il mondo grazie alla superiorità del Vangelo sugli altri culti e le altre fedi - e più tardi grazie alla superiorità morale del sistema democratico-parlamentare su altri sistemi politici - anziché grazie alla sua tecnologia; soprattutto a quelle vele e a quei cannoni dei quali parla Carlo Maria Cipolla, in un libro bellissimo, ha dimostrato consistere la vera, forse la sola - ma fondamentale - superiorità dell’Occidente sul resto del mondo” [57]. Ora, che l’Europa occidentale sia riuscita a imporre il suo dominio al mondo intero grazie alla sua superiorità tecnologica, è cosa di evidenza solare; meno evidente, però, è la spiegazione di tale superiorità. Un problema che Cardini non si pone, con il risultato di precludersi la possibilità di intendere che la superiorità dell’Occidente, prima di essere di natura tecnologica, è stata di natura politico-istituzionale. Del resto, proprio in Vele e cannoni, Cipolla, dopo aver formulato la domanda: “Perché i Cinesi, pur avendo inventato con largo anticipo la polvere da sparo, non si industrializzarono”, suggerisce che il progresso tecnologico in Cina fu arrestato dalla scarsa autonomia di cui godeva la società a petto dello Stato [58]. E, in effetti, lo Stato cinese aveva tutti i tratti tipici della weberiana “gabbia d’acciaio”: era - giusta la definizione di Etienne Balazs -uno “Stato-provvidenza pieno di tentacoli, Stato-moloc totalitario, dirigista e interventista” [59] che, impedendo con ogni mezzo la nascita di città autonome e la formazione di una dinamica borghesia imprenditoriale, blocco sia lo sviluppo industriale che lo sviluppo scientifico e tecnologico della Cina [60]. Esattamente come lo Stato islamico, il quale - per le ragioni che abbiamo visto - riuscì a “ingabbiare” le società sulle quali esercitò il suo dominio e, di conseguenza, impedì quell’originalissimo sviluppo che ebbe l’Europa occidentale. Uno sviluppo che iniziò a partire dalla rivoluzione comunale, durante la quale - grazie alle libertà e ai diritti strappati, armi in pugno, dai borghigiani - furono messe le basi istituzional:i della “società civile”, vale a dire della “società dell’industria, della concorrenza generale, degli interessi privati perseguenti liberamente i loro fini” [61], dunque della società centrata sul mercato ed egemonizzata dalla borghesia imprenditoriale, protagonista assoluta di quella smisurata metamorfosi espansiva che va sotto il nome di capitalismo e di cui Marx ci ha lasciato una insuperata descrizione: “La borghesia non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi rapporti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte li classi industriali precedenti era invece l’immutata conservazione dell’antico modo di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’incessante scuotimento di tutte le condizioni sociali, l’incertezza e il movimentismo eterni contraddistinguono l’epoca borghese da tutte le precedenti. Tutte le stabili e arrugginite condizioni di vita, con il loro seguito di opinioni e credenze rese venerabili dall’età, si dissolvono, e le nuove invecchiano prima ancora di aver potuto fare le ossa [---]. Il bisogno di sbocchi sempre più estesi per i suoi prodotti spinge la borghesia per tutto il globo terrestre. Dappertutto essa deve ficcarsi, dappertutto stabilirvisi, dappertutto stringere relazioni. Sfruttando il mercato mondiale la borghesia ha reso cosmopolita la produzione e il consumo di tutti i paesi. Con grande dispiacere dei reazionari, ha tolto all'industria la base nazionale. Le antichissime industrie nazionali sono state e vengono, di giorno in giorno, annichilite. Esse vengono soppiantate da nuove industrie, la cui introduzione è questione di vita o di morte per tutte le azioni civili - industrie che non lavorano più materie ‘prime indigene, bensì materie prime provenienti dalle regioni più remote, e i cui prodotti non si consumano soltanto nel Paese, ma in tutte le parti del mondo. Al posto -.dei vecchi bisogni, a soddisfare i quali bastavano i prodotti nazionali, subentrano bisogni nuovi, che per essere soddisfatti esigono i prodotti dei Paesi e dei climi più lontani. In luogo dell’antico isolamento locale e nazionale, ‘per cui ogni Paese bastava a se stesso, subentra un traffico universale, una universale dipendenza delle nazioni una dall’altra. E, come nella produzione materiale, così anche nella produzione spirituale. I prodotti spirituali delle singole nazioni diventano patrimonio comune [..]. :col rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con le comunicazioni infinitamente agevolate, la borghesia trascina nella civiltà anche le nazioni più barbare. I tenui prezzi delle sue merci sono l’artiglieria pesante con cui essa abbatte tutte le muraglie cinesi” [62].

Non lo si ripeterà mai abbastanza: la superiorità tecnologica grazie alla quale le potenze europee, fra il XVI e il XIX secolo, hanno potuto estendere i loro tentacoli sull’intero pianeta, è stata la conseguenza di lungo periodo della nascita delle città autocefale, della formazione della società distributrice di diritti e della istituzionalizzazione di uno spazio protetto - il mercato - in cui la borghesia ha avuto agio di mettere in moto la macchina tel capitalismo [63]. Per contro, nel Dar al-Islam , non essendoci “alcun limite al potere arbitrario del Principe, lo viluppo delle città mercantili, come l’evoluzione delle idee, non poteva che essere ritardato” [64]. E non poteva altresì non essere ritardato lo sviluppo tecnologico, poiché, “mentre le industrie private erano ostacolate e compresse, le industrie di proprietà dello Stato non erano spinte all’innovazione tecnologica, ed anche questo era certamente un fattore determinante del declino industria-“ [65]. Accadde così che, nello stesso periodo storico in cui l’Europa costruiva le basi istituzionali del suo decollo economico, scientifico e tecnologico - tutte strettamente legate alla nascita e allo sviluppo della società civile -‘ la cultura del Dar al-Islam prigioniera di quella che Lewis Aumford ha chiamato la Megamacchina - lo Stato dispotico, padrone assoluto dei beni e della stessa vita dei sudditi [66] -, perdeva, con una impressionante rapidità, la sua creatività e diventava una sterile “cultura del commento” [67], completamente egemonizzata da una oligarchia di teologi-giuristi ossessivamente animati da un’unica preoccupazione: bloccare sul nascere “ogni biasimevole innovazione (bida)” [68]. Il risultato inevitabile fu che, per preservare la purezza del modo di vita tradizionale, gli ulama impedirono la “penetrazione delle idee e delle nozioni di investigazione e di scoperta, di sperimentazione e di evoluzione sulle quali si fondava la scienza occidentale e le tecniche che ne derivavano” [69].

Per secoli e secoli, chiusi nel culto narcisistico della propria superiorità, i musulmani non furono in grado di percepire la minaccia che incombeva sul loro mondo. Solo quando, nel 1798, Napoleone apparve sulla scena egiziana, essi presero coscienza del fatto che l’Europa aveva preso un vantaggio al tempo stesso umiliante e pericoloso [70]. Fu un vero e proprio choc culturale, che li costrinse a porsi quella domanda che ancora oggi domina i loro pensieri e i loro sentimenti e da cui non si può prescindere, se si vuole intendere il dramma nel quale sono immersi: “Come è potuto accadere che il mondo sia diventato l’inferno dei credenti e il paradiso dei miscredenti?” [71]. Così, quasi di colpo, il Dar al.Islam si trovò di fronte a una sfida inaspettata, inedita e di natura tale da minacciare il cuore della sua identità spirituale, dal momento che ben presto risultò chiaro che, per rispondere alla sfida degli “infedeli”, non era sufficiente un aggiornamento tecnologico; occorreva abbandonare l’idea che la funzione dello Stato era quella di “preservare l’ordine esistente” [72] e porre mano alla riplasmazione delle sue istituzioni prendendo a modello quelle dell’Europa. Occorreva, in altre parole, frantumare la rigida crosta della Sunna e imboccare risolutamente la via della acculturazione: una operazione che - sempre ed accanitamente i custodi professionali della Sharia si erano rifiutati di fare, convinti come erano che ogni novità, per piccola che fosse, avrebbe minacciato l’armonia del sacro Macrocosmo nel quale vivevano [73].
La natura della sfida di fronte alla quale vennero a trovarsi i popoli del Dar al.Islam partire da quella che è stata chiamata la Nahda - la Rinascita - risulterà chiara una volta che si tenga presente che ciò che caratterizza in maniera forte la moderna civiltà occidentale non è solo la sua formidabile attrezzatura tecnologica che impone alle civiltà-altre di imboccare la via dell”’aggiornamento imitativo” onde evitare di essere travolte; è anche e soprattutto la formidabile potenza radioattiva della sua cultura spirituale, la quale non conosce limiti di sorta. La Modernità è una civiltà costitutivamente imperialistica [74], la cui istituzione centrale è il mercato. Il mercato, ex definitione, non ha frontiere: è una istituzione a vocazione planetaria, che tende a sottoporre agli imperativi impersonali della logica catallattica tutto ciò che trova sul suo cammino - interessi, valori, credenze, istituzioni, pratiche consolidate, ecc. - e che procede come una smisurata valanga culturale che cresce su se stessa. Non a caso, Marx ha definito il capitalismo una “rivoluzione in permanenza” [75]. E, in effetti, ovunque esso è penetrato, ha prodotto cataclismatici mutamenti che non hanno risparmiato nulla e nessuno. A motivo della sua “distruttiva creatività” e del suo irrefrenabile dinamismo autopropulsivo, tutti i popoli della Terra sono stati forzosamente inglobati in un unico destino storico. Il risultato è stato che la civiltà occidentale ha preso ad assediare le culture-altre e le ha poste di fronte a una sfida di immani proporzioni, il cui contenuto essenziale è così riassumibile: o trovare una “risposta” adeguata oppure essere degradate al rango di colonie del Centro capitalistico.
Un fenomeno del genere è una novità storica assoluta. Nel passato ci sono state civiltà di grande potenza radioattiva, capaci di irradiare la loro cultura al di fuori dell’area geografica in cui sono nate; ma nessuna di esse ha posseduto la capacità di dilagare in ogni dove e di estendere il raggio della sua multiforme influenza sull’intero pianeta, aggredendo il codice genetico delle altre civiltà. E’ per questo che l’aggressione culturale permanente è ciò che caratterizza i rapporti fra Occidente e Oriente ormai da secoli. E’ vero che è uscito di scena il colonialismo nella sua forma politico-militare; ma non è uscito di scena il colonialismo culturale, talché i popoli orientali, pur avendo conquistato la loro indipendenza, sono rimasti alle prese con una tremenda sfida. Essi si trovano di fronte a una cultura allogena che tende a sommergerli con il suo impressionante flusso di tecniche, di merci, di messaggi, di simboli e di valori, il quale non può non alterare profondamente il loro tradizionale modo di vita e l’immagine che essi hanno di se stessi.
A questo punto, per intendere le traumatiche conseguenze dell’imperialistica intrusione della civiltà occidentale nell’Islam, conviene farsi guidare dalla teoria toynbiana dell’aggressione culturale [76].
Dice Toynbee: quando due civiltà si incontrano, quella dotata di una superiore potenza radioattiva suscita nell’altra un mutamento radicale della sua attitudine mimetica, la quale si rivolge dall’interno verso l’esterno. Accade così che la civiltà “inferiore” incomincia ad imitare il modo di vita alieno, che prende a modello, sia perché ne avverte il fascino, sia perché è forza maggiore farlo per sfuggire alla sua umiliante condizione di sudditanza materiale psicologica. Se tale processo mimetico si mette prontamente in moto, la società “inferiore” ha la possibilità di neutralizzare la minaccia che viene dall’esterno anche se l’impresa, ovviamente, non si presenta punto facile, dal momento che, per sincronizzare il suo ritmo di sviluppo con quello della civiltà “superiore”, essa deve apportare modifiche rapide e radicali alla sua organizzazione interna e alle sue specifiche forme di vita. Il che: significa che una efficace risposta alla sfida esterna deve per forza di cose, passare attraverso un radicale adattamento istituzionale, paragonabile a una dolorosa operazione chirurgica. Esempio classico: la “rivoluzione Meij grazie alla quale il Giappone riuscì, trapiantando nel suo organismo alcuni elementi culturali alieni, a scongiurare il pericolo di essere trasformato in una colonia delle potenze occidentali.

Non sempre, però, la risposta di una civiltà aggredita ha successo. Può accadere che la società investita dalle radiazioni culturali allogene si trovi in uno stato di disintegrazione o, quanto meno, di decadenza; oppure che le sue strutture di base palesino una rigidità tale rendere impossibile una pronta ed efficace risposta adattiva a carattere autoplastico. In questi casi, l’aggressione culturale si trasforma in un vero e proprio dramma storico. Infatti, il primo impulso della società aggredita sarà quello di opporre una ostinata e astiosa resistenza all’intrusione della cultura allogena, che percepirà come un tentato ai suoi valori assiali e, di conseguenza, come uno snaturamento della sua identità spirituale. Contemporaneamente, l’impatto si risolverà in una diffrazione de cultura radioattiva, i cui elementi acquisteranno velocità e potere di penetrazione differenziati. Sicché, anziché un programmatico e armonico processo di acculturazione, si avrà una diffusione di frammenti culturali isolati, i cui effetti di lungo periodo non potranno essere adeguatamente controllati.
Infatti, a giudizio di Toynbee, l’aggressione culturale procede secondo tre sinistre leggi. La prima delle quali dice che il potere di penetrazione di un elemento culturale è proporzionale al grado della sua futilità e superficialità E’, questa, una legge dalle conseguenze devastanti, perché significa che la società aggredita, nell’impossibilità oggettiva di sottrarsi completamente all’influenza de cultura radioattiva, finirà per accettare quegli elementi che le sembreranno più facili da imitare o meno indesiderabili. Così il processo di acculturazione forzosa non solo produrrà il fenomeno della diffrazione, ma porterà anche a una selezione alla rovescia; conseguentemente, saranno gli elementi di rango inferiore che si insinueranno nel corpo della società aggredita. Infatti - e questa è la seconda legge dell’aggressione culturale -‘ un elemento culturale che è stato innocuo o altamente benefico nel corpo sociale nel quale esso è di casa, tende a produrre nuovi e devastanti effetti in un corpo sociale nel quale si è alloggiato come un esotico ed isolato intruso. Segue la terza legge, che dice che la caratteristica specifica del processo di radiazione-ricezione culturale è che “una cosa tira l’altra” in quanto una cultura non è un aggregato, bensì un sistema, i cui elementi sono interrelati fra di loro. Sicché gli sforzi compiuti dalla società aggredita per impedire la penetrazione di elementi culturali non desiderati sono votati allo scacco. Una volta messo in moto, il processo di acculturazione è inarrestabile, e i tentativi degli aggrediti di frenarlo non avranno altro risultato che quello di rendere più straziante la cosa.

Quando si fa palese che l’acculturazione è inevitabile e che le stesse capacità di autodeterminazione della società sottoposta alle radiazioni allogene vanno scemando a vista d’occhio, nasce il “partito erodiano”, cioè il partito di coloro che assumono un atteggiamento opposto a quello degli “zeloti”: anziché rifiutare ostinatamente la cultura aliena, gli “erodiani” si fanno sostenitori di una intenzionale e programmata acculturazione. Essi, per impedire la colonizzazione imposta, si prodigano per stimolare una sorta di auto-colonizzazione. Senonché, tale auto-colonizzazione non può non apparire, allo sguardo fondamentalista degli “zeloti”, la strada maestra che conduce all’annientamento delle specificità spirituali del loro Macrocosmo. Di qui l’inevitabile lotta fra i riformatori e i tradizionalisti. Per i primi, la salvezza può essere conseguita solo andando alla scuola della civiltà aliena per carpirle il segreto della sua potenza; per i secondi, alla rovescia, tutto ciò che viene dall’esterno è come un veleno per le tradizionali forme di vita, sicché essi ritengono che non c’è che un modo per evitare la catastrofe culturale: espellere l’Invasore e chiudere ermeticamente le frontiere, di modo che nulla e nessuno possa inquinare e corrompere il loro Macrocosmo.
L’analisi toynbiana dell’invasione culturale è chiaramente ideal-tipica, ma lascia intravedere il materiale empirico sul quale il grande storico inglese ha lavorato per inferire le sue leggi. Ciò che egli descrive è soprattutto, anche se non esclusivamente, la penetrazione culturale della moderna civiltà industriale nei Paesi del Terzo Mondo e gli effetti sconvolgenti che essa ha prodotto. Una penetrazione che non si è limitata a fare scempio delle istituzioni, degli usi e dei valori che ha trovato sulla sua strada, ma che ha anche straziato gli uomini, privandoli del loro habitat ancestrale e condannandoli a vivere in un mondo che si è progressivamente trasformato in una realtà estranea o addirittura ostile. In effetti, il capitalismo, aggredendo le società poste al di fuori della sua area di sviluppo endogeno, ha sradicato milioni di esseri umani, trasformandoli in una gigantesca massa alienata e, per ciò stesso, risentita. Questi milioni di individui - sparsi in tutte le aree culturali laddove il sistema di mercato si è presentato come una aggressiva e distruttiva potenza esogena - costituiscono, ormai da generazioni, il “proletariato esterno” della civiltà occidentale.

Non può sorprendere, allora, constatare che, ancora .oggi, due cose caratterizzano in maniera forte la condizione esistenziale dei popoli musulmani: il loro “immenso senso di frustrazione e di collera” [77] e il fatto che essi vivono l’Occidente come una presenza al tempo stesso oppressiva e invadente. Oppressiva, per la sua schiacciante superiorità materiale; invadente, perché la Modernità costituisce una permanente minaccia per le tradizionali forme di vita del Dar al-Islam. Queste, per i musulmani, sono di origine divina e, come tali, non possono essere oggetto di analisi critica, né, tanto meno, possono essere modificate. La Sharia è la “via” che Dio ha aperto davanti agli uomini ed essi non’ possono deviare senza “commettere un peccato, perché non v’è un diritto di cui non sia partecipe Dio” [78]. Sin dalle origini, nell’Islam, diritto e religione sono indistinguibili, talché la scienza giuridica (fiqh), essendo lo studio e la conoscenza della Legge Divina, è una scienza teologica. Il che fa del “diritto musulmano un esempio particolarmente significativo di diritto sacro” [79]. Conseguentemente, “la religione non è una componente o una dimensione della vita, che regola alcune questioni e dalla quale altre faccende sono escluse: essa coinvolge l’intera esistenza, in una giurisdi-zione non limitata ma totale. In una società del genere, la stessa idea di una separazione tra Chiesa e Stato è priva di significato, poiché non esistono due realtà distinguibili. Chiesa e Stato, autorità politica e autorità religiosa, sono la stessa cosa” [80]. Di qui l’ostinata resistenza opposta dalle società musulmane alla Modernità. Modernità, infatti, vuol dire “vita senza valori sacri” [81] o, quanto meno, rigorosa separazione fra regno della politica e regno della religione. In modo tipico, lo Stato moderno è uno Stato laico, uno Stato che, da una parte, non si identifica con un particolare credo religioso e, dall’altra, riconosce la legittimità di tutte le religioni. Esso, pertanto, è l’esatto contrario dello Stato così come esso è sempre stato concepito nel Dar al-Islam, vale a dire come l’istituzione avente l’ineludibile funzione di garantire il dominio della Legge Divina, dunque come l”’espressione politica della stessa religione” [82]. Di qui la sentenza di Khomeyni: “L’Islam è politico o non è”. Una sentenza perfettamente in linea con l’intera tradizione islamica, per la quale religione e Stato - din wa dawlah - sono un’unica realtà, sicché ogni tentativo di separare il potere temporale dal potere spirituale non può non essere considerato un empio allontanamento dalla Legge Divina. “statica e immutabile” [83]. E significa altresì che esiste una incompatibilità di principio fra la Sharia e la Modernità [84]. Questa è inscindibile dal processo di secolarizzazione, il quale ha posto fine al legame organico fra lo Stato e la religione e ha trasformato quest’ultima in una faccenda privata. Ma una religione ridotta a una faccenda privata è precisamente ciò che i musulmani rigoristi non possono accettare poiché essa “implica l’abbandono della Sharia” [85].

E' vero che la rivoluzione kemalista è riuscita a instaurare, sulle macerie dell’Impero ottomano, un “completo laicismo” [86]. Ma questa tipica risposta “erodiana” all’aggressione culturale occidentale non ha superato i confini della Turchia. Essa costituisce una eccezione legata ad un uomo d’eccezione: Kemal Atatùrk, il quale, grazie alla sua personalità carismatica e all’enorme prestigio da cui era circondato per aver salvato la nazione turca dagli appetiti imperialistici delle potenze europee, riuscì a imporre una rottura radicale con la Sharia e a iniettare nella classe politico-militare da lui stesso forgiata l’idea che la “Turchia era degna della civiltà occidentale” [87] e che lo avrebbe dimostrato europeizzando le sue istituzioni. E, coerentemente con il suo programma, abolì il Califfato soppresse gli ordini religiosi, eliminò ogni legame fra l’Islam e lo Stato, introdusse l’alfabeto latino e adottò codici modellati su quelli dei Paesi europei [88]. Donde lo slogan con il quale Ziya Gokalp - il più lucido e influente ideologo della Turchia moderna - sintetizzò il significato storico della rivoluzione kemalista: “Appartenere alla nazione turca, alla religione islamica e alla civiltà europea” [89]

La nuova Turchia, nata dalla rivoluzione kenialista, dimostra che il muro spirituale e istituzionale che divide l’Islam dalla Modernità può essere abbattuto [90]; ma dimostra anche che l’impresa è enormemente difficile [91] tant’è vero che, a più riprese, l’esercito è stato costretto a intervenire per difendere l’eredità di Kemal Ataturk contro gli islamisti raccolti attorno al Partito della Prosperità (Refah), il cui obbiettivo è la trasformazione dello Stato laico in uno Stato confessionale sul modello della Repubblica iraniana, nata dalla prima e più spettacolare vittoria riportata dal fondamentalismo: quella guidata da Khomeyni.
Khomeyni aveva percepito con estrema lucidità che la. modernizzazione economica e tecnologica voluta dalla shah non si sarebbe limitata ad accrescere le capacità produttive del proprio Paese, bensì, aprendo le porte alla cultura laico-scientifica, avrebbe finito per delegittimare progressivamente la tradizione religiosa, con il risultato che il cuore dell’identità iraniana sarebbe stato aggredito e intaccato in modo irrimediabile. Occorreva, pertanto arrestare il processo di intrusione della civiltà moderna prima che fosse troppo tardi; prima, cioè, che dietro le riforme economiche e le tecniche dell’Occidente giungessero i modi di pensare e di valutare ad esse connessi. E gli parve che l’unica strategia idonea a “proteggere l’Islam” [92] e ad allontanare la prospettiva della fuoriuscita dell’Iran dalla Sharia fosse quella di elevare una impenetrabile barriera, di modo che l’introduzione degli elementi culturali alieni risultasse impossibile. In aggiunta, dal momento che l”’infezione occidentale” aveva già colpito la società iraniana, egli - dopo aver ricordato che per un musulmano non poteva esserci “altro partito che il partito di Dio” [93] e che l’unico governo legittimo era il “governo della Sharia” [94] - proclamò alto e forte la necessità di una politica di “purificazione spirituale”, basata sull’imperativo etico-religioso di punire spietatamente i “portatori del Male”, vale a dire gli elementi contaminati dai perversi costumi dei “capitalisti, adoratori del denaro” [95]. Obbiettivo dichiarato: espellere tutto ciò che inquinava la Umma e restaurare la Vela yat -i faqih, vale a dire il dominio assoluto e integrale della Vera Religione (Din Hana) e di coloro che si erano dedicati professionalmente allo studio del Corano: gli “esperti della Legge” [96]. In una parola: arrestare il processo di modernizzazione e di secolarizzazione, rifiutando ciò che, in un modo o nell’altro, era connesso alla “pagana” civiltà occidentale. E, a tal fine, non esitò ad instaurare un regime di “terrore, paura e vendetta” [97], fomentando la delazione in tutti gli ambienti sociali [98] e scatenando le “unità mobili della collera di Dio” contro tutti coloro che osavano opporsi alla instaurazione del governo teocratico degli ayatollah [99].
Ma Khomeyni non si limitò ad elevare una granitica barriera per impedire l’inquinamento spirituale della Umma. Elaborò l’ambizioso disegno di porre l’Islam alla testa di “tutti i popoli diseredati della Terra” [100], sostituendo in tale ruolo rivoluzionario il comunismo sovietico. Questo grandioso programma fu espresso con la massima chiarezza nella lettera che egli, poco prima di morire, inviò a Gorbaciov. In essa, il carismatico leader della teocrazia iraniana chiese al segretario del Pcus di riconoscere pubblicamente che il comunismo era ormai ridotto a un fossile storico poiché, essendo privo di una “vera credenza in Dio”, aveva lo “stesso problema che stava trascinando l’Occidente in un vicolo cieco, nel nulla”; e di riconoscere altresì che ormai sulla scena mondiale non restava che una sola forza spirituale in grado di perseguire l’obbiettivo di liberare i popoli che si trovavano nella “prigione dell’Occidente e del Grande Satana” [101]: l’Islam.
Un siffatto programma costituisce una vera e propria dichiarazione di guerra del Sacro contro il Profano il cui obbiettivo è lo scatenamento di una rivoluzione planetaria “contro la civiltà occidentale, combattuta non solo nelle sue perversioni, ma anche nei suoi stessi principi” [102]. I quali, contrariamente a quello che pensa Cardini, non sono rifiutati in quanto “corollario e conseguenza della sostanza cristiana dell’Occidente” [103], sono rifiutati in quanto “laici” [104], in quanto espressione di una civiltà che, “pur proclamandosi cristiana, si oppone all’insegnamento di Cristo” [105] in nome dell’idea che “la religione deve essere separata dalla politica” [106]. Detto con le parole del filosofo arabo Sadik J. Al-Azm, gli islamisti radicali condannano “la cultura, la civiltà e la società del loro secolo come pagana, apostata, infedele e senza Dio” [107].
E in effetti, la “costruzione ideologica degli islamisti si basa sulla contrapposizione tra la storia post-coranica e quella preislamica, utilizzando il concetto di jahiliyya per connotare tutto ciò che è negativo e dunque anche tutti i valori dell’Occidente secolarizzato” [108]. Sul punto, le idee espresse da Abbasi Madani - il leader del Fronte islamico di salvezza (Fis) il cui obbiettivo era l”’epurazione dello Stato dagli elementi ostili alla religione” [109] - sono di una chiarezza che non lascia spazio a dubbi di sorta. “La crisi morale - così egli si espresse in una intervista rilasciata nel 1989 al settimanale “Algérie actualité” - è la conseguenza logica e inevitabile del laicismo e del materialismo. Questo paradosso, istituito e imposto all’umanità dall’Occidente cieco e zoppicante, è stato all’origine della profonda rottura che si è prodotta fra rivelazione e ragione. In effetti l’Occidente ha rinnegato la rivelazione, venerato la ragione e adorato la materia”.
Né si può dire che l’attacco di Madani al “laicismo”, al “razionalismo” e al “materialismo” della civiltà moderna abbia alcunché di originale. Lo si trova tal quale negli innumerevoli scritti dei teorici della risposta “zelota” all’aggressione culturale occidentale, tutti ossessivamente dominati dall’idea che l’integrità spirituale dei popoli dell’Islam è minacciata dalla “civiltà senza Dio”, centrata sul binomio “secolarismo-individualismo” [110]. Tant’è che, già alla fine del XIX secolo, lo storico marocchino Ahmed al-Nasiri così ammoniva i suoi correligionari: “Sappiate che questa libertà di cui parlano gli Europei è senza alcun dubbio una invenzione degli atei, poiché è contraria ai diritti di Dio, della famiglia e dell’uomo stesso” [111]
D’altra parte, come potrebbe essere diversamente ? L’Islam - ce lo ha spiegato una volta per tutte René Guénon [112] - è una civiltà rigorosamente tradizionalista; come tale, non può non vedere nella società occidentale, attraversata da parte a parte dal rifiuto del carattere sacro della tradizione, un sistema di vita perverso, basato sul culto satanico della ragione e della materia e sulla negazione dell”’anelito alla vita eterna” [113]. E, in effetti, il “disincanto del mondo”, che è il cuore del processo di secolarizzazione, ha generato in Occidente non solo la laicizzazione della cultura - vale a dire l’emancipazione della produzione spirituale dal controllo delle istituzioni ierocratiche - ma anche il fenomeno della privatizzazione della fede: un fenomeno al quale i custodi della Sharia hanno sempre guardato con orrore e interpretato come un perverso ritorno alla jahilyya - l’epoca oscura della miscredenza e dell’idolatria, precedente il Messaggio del “sigillo dei profeti”. La stessa idea - così tipica della moderna democrazia liberale -‘ secondo la quale la legge è cosa fatta dagli uomini, non può non risultare blasfema per chi, come i musulmani ortodossi, considerano il “potere legislativo riservato a Dio” [114] e, conseguentemente, vedono nel diritto la Parola Divina (Kalam Allah), di fronte alla quale è concepibile un solo atteggiamento: l’obbedienza senza riserve - l’islam, per l’appunto. Donde il rifiuto dell’individualismo, percepito come un agente entropico, un generatore di fitna - l’anarchia intellettuale e morale che da sempre ha costituito l’incubo dell’Islam [115]. E, essendo l’individualismo - id est, la “libertà dei moderni” - il valore fondamentale della civiltà occidentale, questa non può non essere percepita dai musulmani ortodossi come una permanente minaccia per il loro Macrocosmo etico-religioso, tutto dominato dal “senso dell’Assoluto” [116]; in altre parole, come un attentato alla loro identità culturale, indissolubilmente legata alla Rivelazione. Ciò è stato espresso come meglio non si potrebbe in un articolo apparso nel 1930 sul giornale egiziano “Al-Fath”: “Considerato nel suo insieme, il territorio dominato dal colonialismo è piccolo; un giorno verrà in cui il possessore del suolo si troverà in condizione di recuperare ciò che gli è stato rubato. Ma che gli invasori possano colonizzare il cuore degli uomini e delle donne, ecco il danno ultimo, la catastrofe finale. Il pericolo reale ci viene dalla guerra spirituale che l’Europa conduce metodicamente contro l’anima degli Orientali in generale e dei musulmani in particolare, con l’aiuto delle sue opere di filosofia, dei suoi romanzi, del suo teatro, dei suoi film e della sua lingua. Il fine di questa azione concertata è di natura psicologica: strappare i popoli orientali dal loro passato” [117].

Non può destare sorpresa, quindi, che - con la sola eccezione costituita dalla Turchia - nei Paesi del Dar al.Islam intellighenzia “erodiana” è sempre stata una esigua minoranza, incapace di incanalare le masse verso la Modernità. Tanto più che la Modernità ha fatto irruzione nella vita dei popoli musulmani non solo come una civiltà secolarizzata, centrata sulla ragione illuministica e la libertà individuale, ma anche come una potenza imperialistica, animata da una smisurata volontà di dominio [118]. Ed è per questo che “lo choc aggressivo dell’Occidente moderno ha provocato nel mondo dell’Islam uno stato di crisi endemica più o meno accentuato a seconda delle circostanze politiche e sociali, dimostrando così che non è veramente riuscito ad adattarsi alla Modernità ormai dominante” [119].
E’ vero che il così detto “socialismo arabo” è stato - non fosse altro perché ha combattuto il grido di guerra dei Fratelli Musulmani: “Niente costituzione, se non è il Corano” - un tentativo di laicizzazione delle strutture dell’Islam. Ma esso era destinato al fallimento poiché pretendeva avanzare verso la Modernità non seguendo la “via turca”, bensì dichiarando guerra all’Occidente e rifiutando le sue istituzioni fondamentali, dalla democrazia parlamentare al mercato. In particolare, “Nasser spinse all’estremo il proprio programma di nazionalizzazione presentandolo come uno strumento in grado di disarmare i capitalisti, nemici della rivoluzione e dell’unione araba” [120]. Il risultato fu che - anziché incoraggiare lo sviluppo della società civile, senza la quale non si dà modernizzazione di sorta - il nasserismo condannò come contro-rivoluzionaria ogni tendenza verso il capitalismo e il liberalismo e prese a combattere la borghesia imprenditoriale; in aggiunta, istituendo una rigorosa “sorveglianza dello Stato sulle imprese industriali e commerciali e sulla vita del cittadino inquadrata dal Partito unico” [121], soffocò l’economia egiziana con un mastodontico apparato burocratico.

Come era logico che accadesse, gli esiti disastrosi d una rivoluzione tutta orientata verso il dominio assoluto del Partito sulla società e dello Stato sull’economia, hanno offerto ai tradizionalisti una grande chance: quella di predicare, davanti a un uditorio sempre più frustrato risentito, l’idea che la salvezza dei popoli musulmani non va cercata nella imitazione blasfema degli “infedeli”, bensì nella restaurazione dei fondamentali principi dell’Islam. Di qui la richiesta della istituzionalizzazione di quel lo che Fatima Mernissi ha chiamato l’hijab, vale a dire una cortina spirituale tesa a tagliare lo spazio per impedire la circolazione delle idee e dei valori provenienti dal Gharj - “il nome arabo dell’Occidente, luogo delle tenebre e dell’incomprensibile” [122]. Ma, mentre i tradizionalisti si limitano ad esigere che i popoli del Dar al-Islam non si facciano contaminare dagli “impuri” costumi dei popoli de Dar al-kufr, i fondamentalisti vanno oltre: dichiarano senza mezzi termini che l’Islam deve uscire dalla sua posizione difensiva e deve militarizzarsi per conquistare e distruggere dalle fondamenta il Dar al-kufr. Così , infatti, suonano i loro slogan: “La società contemporanea è pagana, bisogna farne tabula rasa”; “Non ci sono che due partiti: il partito di Dio (Hizb Allah) e il partito di Satana (Hizb Shaytan); il primo deve condurre dappertutto la guerra santa senza tregua né pietà, sino all’instaurazione del governo di Dio” [123].

Chiaramente, ci troviamo di fronte a un grido di guerra lanciato contro la civiltà moderna in quanto civiltà secolarizzata [124] ; e, altrettanto chiaramente, ci troviamo di fronte alla ripresa di quello che fu il programma dei Fratelli Musulmani - l’associazione fondata nel 1929 dall’egiziano Hasan al-Banna, “madre di tutti i fondamentalismi del mondo arabo” [125] - fissato dal loro massimo teorico, Sayyid Qutb, in questi termini: “L’Islam è costretto alla lotta dall’obbiettivo che è suo proprio, vale a dire la guida del genere umano. La guerra è un obbligo individuale, contro gli ostacoli alla predicazione, ma sotto la forma collettiva di un gruppo ristretto, organizzato e profondamente cementato. Gli avversari sono anch’essi degli individui, raggruppati in classi, in Stati, in coalizioni. Il jihad, in reazione, è dunque assolutamente necessario in tutta la sua ampiezza. E’ unjihad mondiale, permanente. Così, essere musulmano, significa essere un guerriero, una comunità di guerrieri sinceri in permanenza, pronti ad essere utilizzati o no da Dio, se lo vuole e quando lo vuole, poiché lui solo è il capo della battaglia” [126]. Stando così le cose, non è sufficiente dire che l’obbiettivo dei fondamentalisti è la reislamizzazione delle società e degli Stati del Dar al-Islam [127]; occorre anche sottolineare che il loro programma è assai più ambizioso e inquietante: essi vogliono scatenare una guerra di religione per conquistare il mondo e instaurare il dominio della Sharia su tutta quanta l’umanità. In altre parole, essi, oltre ad esigere la restaurazione della antica Dar al-Adi - la Casa della Giustizia così come essa fu concepita dal Profeta -, vogliono annientare la fonte dell’inquinamento della Umma: l’Occidente secolarizzato. Di qui il doppio fronte nel quale oggi sono impegnati i jihadisti: contro i governi “apostati” che, pur proclamandosi musulmani, di fatto hanno abbandonato la “via” tracciata dalla Rivelazione; e contro l’America, massima potenza di quel mondo che essi vogliono radere al suolo. La loro guerra santa, quindi, è al tempo stesso una guerra civile - vale a dire una guerra fra musulmani, più precisamente una guerra scatenata dai religiosi per strappare il potere ai militari - e una guerra internazionale condotta con l’unica arma di cui i militanti dell'Hizb Allah dispongono: il terrorismo.
Se effettivamente la guerra in atto è duplice - nel senso che essa è condotta sia contro l”’Occidente esterno” che contro l”’Occidente interno” -‘ allora il suo esito finale non dipende solo dalla capacità che mostreranno le potenze occidentali di estirpare, combinando mezzi militari e mezzi politici è [128], il terrorismo globale dei jihadisti; dipende anche da quale interpretazione del Corano prevarrà nel mondo islamico. Allo stato attuale delle cose, la bilancia pende nettamente a favore degli “zeloti”, decisi a tutto, pur di non farsi colonizzare da quella che essi considerano una società empia e contaminante. Ma ciò non significa che, nel lungo periodo, la strategia degli “erodiani” sia condannata all’insuccesso. Chi così pensa, dimentica che, a dispetto della celeberrima frase di Cristo “Date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”- nella quale si è voluto scorgere il principio della separazione fra la religione e la politica -‘ per oltre mille anni lo Stato, in Europa, è stato uno Stato confessionale, impegnato a reprimere, ricorrendo ai mezzi più spietati - la tortura, il rogo, lo sterminio -, gli eretici e gli atei. E dimentica anche la potente vocazione teocratica e integralista della Chiesa cattolica, compiutamente espressa nel celebre Dictatus Papae, in cui Gregorio VII proclamò, urbi et orbi, che il pontefice romano, “in quanto successore diretto di San Pietro, aveva ereditato poteri monarchici che abbracciavano ogni aspetto della vita cristiana, dalla culla alla tomba” [129]. E questo perché, “secondo il quadro dottrinale universalmente accettato nel Medioevo, il cristiano e la Chiesa erano al di fuori della linea di evoluzione, di crescita e di espansione naturale: essi erano governati da norme di vita divine” [130]; il che faceva della Cristianità una “società ecclesiologica regolata da leggi le quali, di origine divina nella sostanza, venivano rese note dagli organi ecclesiastici competenti” [131]. Nulla, pertanto, poteva essere sottratto alla giurisdizione della Chiesa: l’autorità di questa era assoluta e totale e contestare la sua infallibilità [132] equivaleva a porsi fuori della società ecclesiologica, istituita da Dio per condurre gli uomini alla salvezza; equivaleva, in altre parole, a imboccare la via della empietà. E per gli empi, come aveva teorizzato a chiare lettere Sant’Agostino, non vi poteva essere che la persecuzione [133]. E quando l’eresia si fece minacciosa, Innocenzo III non ebbe esitazione alcuna a istituire l’Inquisizione, la quale, grazie alla collaborazione fra il potere temporale e il potere spirituale, condusse una guerra permanente non solo contro gli eretici, ma anche contro la possibilità stessa di pensare al di fuori della rigida ortodossia fissata d’imperio dalla Chiesa.
In un universo simbolico così strutturato, la separazione tipica della Città secolare, fra la religione e la politica era letteralmente impensabile [134]. Il potere temporale, ancorché distinto dal potere spirituale, era a questo subordinato e doveva svolgere il ruolo di braccio secolare della istituzione carismatica - la Chiesa - che rivendicava il monopolio della corretta interpretazione delle Sacre Scritture. Come ha scritto Hans Kùng, “Roma non ha mai conosciuto la separazione dei poteri, che ha respinto anche quando essa, in età moderna, venne realizzata dagli Stati moderni. Il Papa è e resta il capo supremo, il legislatore assoluto e il giudice massimo” [135]. E’ vero che, all’interno del paradigma cattolico-romano, fu elaborata la famosa teoria delle due spade; ma essa non fu intesa come separazione fra la giurisdizione religiosa e la giurisdizione politica; essa fu intesa nel senso che la spada secolare dell’Imperatore era “da usare secondo la volontà del Papa” [136]. Insomma, non diversamente dal mondo islamico, il mondo cristiano-medievale era un universo retto da leggi divine e, come tale, ostile alla autonomia della società e della politica; e ostile altresì alla libertà di pensiero, nella quale non poteva non vedere un empio allontanamento dalla “Verità venuta da Dio”. Sicché, se, come ha fatto Baget Bozzo, si definisce l’Islam una “dittatura della religione sulla vita” [137], allora si deve estendere tale definizione al cristianesimo [138] - oltre, naturalmente, all’ebraismo, progenitore di quello che Kùng ha chiamato il “paradigma della comunità teocratica” [139].
A ragione, perciò, lo storico arabo Burhan Ghalioun ha polemizzato contro il consolidato luogo comune, secondo il quale “il cristianesimo sarebbe, per principio, favorevole a una netta separazione del Regno di Dio dal regno politico”; e ha ricordato che “la storia suggerisce precisamente il contrario. E’ in reazione alla volontà degli uomini della Chiesa volti ad affermare la supremazia del religioso sul politico che la rinascita dello Stato ha assunto in Europa, da cinque secoli, una forma laica, cioè antireligiosa. Alla volontà d’instaurare uno Stato teocratico si oppone progressivamente, ma con forza, una volontà ancor più vigorosa di affrancare lo Stato dal giogo della Chiesa. In Europa, all’evangelizzazione segue così, come un’eco, la laicizzazione. E’ nel corso di questa dialettica storica che il secolare s’impone nettamente e che si elabora la laicità in quanto ideologia di separazione” [140].
Ma non è stato solo lo Stato il protagonista del processo di laicizzazione che ha portato alla formazione della Città secolare. Un altro agente, ancor più decisivo, ha contribuito potentemente al processo di emancipazione della società dal controllo delle istituzioni ierocratiche: il mercato. La rivoluzione comunale, dalla quale scaturirono le città autocefale, fece emergere una nuova classe, che l’ideologia dominante elaborata dai chierici - la dottrina dei tre ordini funzionali: oratores, bellatores e laboratores - non contemplava neanche: quella dei mercatores. Questi, surrettiziamente e progressivamente, introdussero una distinzione che avrebbe avuto conseguenze enormi sull’evoluzione della civiltà europea: quella fra il tempo (sacro) della religione e il tempo (profano) degli affari [141].

La Chiesa riteneva di avere il diritto-dovere di esercitare il monopolio della gestione del tempo in quanto, a suo giudizio, esso era cosa di Dio, non già dell’uomo. Ma il tempo degli affari non poteva essere sottoposto ai dettami della petrinologia economica, che condannava ciò di cui l’attività imprenditoriale dei borghesi si alimentava quotidianamente: l’illimitato desiderio di ricchezza - l'avaritia - e l’interesse - l'usura; il tempo degli affa

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