6 ottobre 2002 . DENUNCE - Anno 2002, la grande fuga dalla politica – Uno studio rivela l'involuzione del nostro sistema democratico. E le nuove ragioni del disinteresse crescente - di Giuseppe DE RITA
06 ottobre 2002
Lontane, burocratiche, ostili: gli italiani credono sempre meno nelle istituzioni
Anticipiamo un brano dal saggio "Il regno inerme. Società e crisi delle istituzioni" di Giuseppe De Rita, in libreria da martedì prossimo (editore Einaudi, pagine 89, 10) .
Non le abbiamo mai molto amate, noi italiani, le nostre istituzioni. Ma si converrà che assistere impotenti al loro suicidio è situazione sgradevole e inquietante.
Non le abbiamo molto amate perché le abbiamo sentite lontane, autoreferenziali, burocratiche, poco attente alla realtà, senza ruolo, quindi estranee. Nel bene come nel male, nella nostra buona fortuna e nelle nostre sciagure.
Non le abbiamo molto amate perché non le abbiamo neppure capite: le abbiamo considerate cioè come componenti di un'architettura del potere disegnata da pochi per molti, in base a scelte e valutazioni di alto livello (i dibattiti costituzionali sono riservati a pochi padri nobili), ma che non avevano chiare connessioni con i problemi e i comportamenti quotidiani di tutti noi.
Infine non le abbiamo molto amate perché le abbiamo sempre viste come "cose della politica", occupate e dominate cioè da soggetti e dinamiche che pur quando pensiamo di conoscere e capire (oggi addirittura nei dettagli offerti dal gossip giornalistico o dai talk show televisivi) restano comunque un campo magnetico in cui paradossalmente si scaricano attrazione curiosa, sospettosa repulsione, antico scetticismo, tutto tranne la convinzione che in quei soggetti e in quella dinamica si realizzino gli interessi della collettività.
Si potrebbe continuare per pagine ad approfondire i vari aspetti del disamore italiano per le istituzioni, argomento che ha dato luogo a migliaia di riflessioni culturali. Ma non servirebbe, il disamore istituzionale è forse il fenomeno che in assoluto gli italiani più avvertono e ammettono, in totale libertà psichica, senza sentirsi in materia colpevoli di alcunché. E forse non è azzardato dire che dell'istinto suicida che sta percorrendo le istituzioni, l'italiano medio sostanzialmente si disinteressa, forse in cuor suo pensando che una progressiva "de-istituzionalizzazione" non gli porterebbe danno ma più libertà di movimento, e più facile perseguimento dei propri interessi e obiettivi.
Del resto egli vive quotidianamente in una cultura collettiva che gli racconta con ampiezza di particolari che la de-istituzionalizzazione è un processo tranquillamente in corso, quasi fisiologico: la gestione della moneta si trasferisce in Europa, il diritto alla difesa militare si trasferisce alla Nato, il potere di amministrazione pubblica si trasferisce alle autonomie locali, la privatizzazione e la liberalizzazione del sistema economico riduce il ruolo dell'azione pubblica.
Di fronte a questa dispersione e dislocazione dei poteri, non può essere sorprendente la sensazione che l'idea stessa di Stato nazionale si sgretoli e con esso il tradizionale modo di intendere tutti i comparti dell'apparato istituzionale. Questo finisce per vivere in un mondo che non ne vede più quella forte funzione di traino economico, sociale e civile sulla quale lo Stato nazionale era stato creato e via via calibrato. E gli stessi fallimenti in sequenza dei tentativi di riforma costituzionale sono verosimilmente da attribuire a questa caduta di ruolo complessivo, con una conseguente tendenza delle istituzioni ad appiattirsi sulla propria progressiva insignificanza, quasi in un inconscio suicidio.
Qualcuno si troverà a reagire polemicamente all'insistito termine di suicidio delle istituzioni. Si negherà che la regressione sia reale; si daranno colpe
sostanziali alla politica e ai suoi errori di questi ultimi anni; si rilancerà volontaristicamente quel clericalismo legalitario che spesso nasconde il disprezzo per la realtà; magari addirittura si sospetterà che con un indebito catastrofismo istituzionale si vogliano contrastare le magnifiche intenzioni di riforma perseguite dai possessori pro tempore del potere.
A chi avanza queste riserve si può solo rispondere con una breve presentazione di ciò che è avvenuto e sta avvenendo nel panorama istituzionale italiano.
È anzitutto in corso uno svuotamento delle sedi classiche di partecipazione istituzionale ai vari livelli: in pratica non esiste più la vita dei consigli comunali, provinciali e regionali, ridotti a mere comparse dell'attività e dell'attivismo personale del sindaco, del presidente della provincia, del presidente-governatore delle regioni; e anche il parlamento nazionale sacrifica la propria dialettica interna alla spietata "blindatura" dei provvedimenti di un governo teso a dimostrare la sua incisività programmatica e decisionale. Questo restringimento del respiro interno delle istituzioni "rappresentative" porta effetti pericolosi nei processi, necessari e da tutti voluti, di redistribuzione dei poteri pubblici verso la periferia del sistema. Le spinte al decentramento amministrativo e le riforme, stabilite o in corso, del Titolo V della Costituzione, sembrano tutte impoverirsi in una sorta di "sindacalismo istituzionale", dove ogni governatore, presidente, o sindaco contratta con gli altri omologhi o con i vertici nazionali la possibile ripartizione delle competenze, senza alcuna attenzione alla vitalità interna delle istituzioni che dovrebbero poi gestirle. La concentrazione sulla devolution e il disinteresse verso il ben più importante e strutturale processo della cosiddetta "devolution della devolution" (per arrivare a una reale architettura distribuita delle responsabilità pubbliche) sono il segnale di un pericoloso scivolamento nello slabbramento del tessuto istituzionale ai vari livelli.
Domenica 6 ottobre 2002 – corriere delle sera