6-7 APRILE 2002 - CONGRESSO REGIONALE SDI - RELAZIONE DI ROBERTO BISCARDINI

06 aprile 2002

“Sono più di 400 i delegati che il 15 agosto del 1892, profittando delle forti riduzioni ferroviarie concesse dal Governo per il quarto centenario della scoperta dell’America, si riuniscono a Genova nella Sala Sivori. Ci sono socialisti, anarchici, operaisti, mazziniani. “Non si tirano le sedie annota Angiolini nella sua cronaca - solo perché erano inchiodate”.
Gli anarchici erano venuti a Genova col proposito deliberato di far fallire il progetto di Turati e Prampolini. Ma nonostante le grida e l’intreccio delle contrapposizioni non ci riuscirono. “Lasciateci in pace” dissero Turati e Prampolini. La sera si riunirono nella trattoria di Salita dei Pollaioli e la mattina dopo nella Sala dei Carabinieri in via della Pace, dove viene discusso e approvato il programma, lo statuto ed eletto il Comitato Centrale. Il modello del nuovo partito è quello della socialdemocrazia tedesca ma il carattere popolare, più che operaio, lo avvicina al socialismo francese. Il programma è in sostanza quello della Lega socialista di Milano. Programma riformista, metodo marxista, senza dogmi e pregiudiziali rivoluzionarie”.


Con queste parole Bettino Craxi a Genova 10 anni fa, nella sua ultima manifestazione pubblica, ricordava, nel centesimo anniversario della fondazione come il Partito Socialista Italiano nacque dalla rottura politica tra i riformisti da una parte e i massimalisti e anarchici dall’altra.
Con queste parole oggi, qui a Milano, città del socialismo riformista, vogliamo ricordare 10 anni dopo, nel centodecimo anniversario del PSI, uno dei momenti più straordinari della storia democratica e civile del nostro Paese.
Ma quest’anno è anche il decimo anniversario della fine del PSI e a questo proposito voglio ancora utilizzare le parole che Craxi disse allora a Genova:

“Dobbiamo proporci di superare la crisi socialista, rinnovando senza traumi ciò che deve essere rinnovato.
Il Partito Socialista si propone di creare le condizioni perché in Italia prenda corpo una forza riformista più grande che unisca gli sforzi di forze diverse che possono convergere su di un programma comune, che siano mosse da una sincera ispirazione socialista, e con forze ispirate da una chiara impostazione riformatrice democratica, ecologista, democratico - liberale.
Penso che la nascita del Partito Socialista Europeo servirà anche a chiarire ciò che merita ed è utile che sia chiarito. Anche il messaggio dell’Unità Socialista si farà strada presto o tardi, nell’interesse del mondo del lavoro, della vita democratica e del progresso italiano, che non avrebbero che da avvantaggiarsi da una presenza socialista rinnovata ed unita, conclusione finale e positiva di un lungo ciclo storico di divisioni, di lotte e di aspri contrasti.”

Dopodiché è tutta storia recente: è la storia dei nostri ultimi dieci anni, prima come SI e poi come SDI, per la salvaguardia dei valori del socialismo democratico e riformista, per tenere viva una tradizione politica che senza di noi sarebbe andata completamente perduta, per tenere aperta una prospettiva, e di questo possiamo andare orgogliosi.
Dalla proposta dell’Unità socialista rimasta incompiuta all’inizio degli anni ’90, si può ripartire con la fiducia che ciò che non fu possibile allora è possibile oggi. Ecco il punto.

Cari compagni e care compagne,
con questo breve messaggio retrospettivo, apriamo i lavori del nostro Congresso regionale, mettendo al primo posto la necessità di guardare avanti, di guardare al futuro del socialismo per il futuro delle più giovani generazioni.

Ringrazio le delegazioni dei partiti che hanno voluto essere presenti ai nostri lavori, ringrazio gli iscritti, i simpatizzanti e tutti coloro che per ragioni diverse e con diverse motivazioni hanno deciso di essere con noi in questi due giorni di Congresso.
Abbiamo scelto una sala molto grande, non per mania di grandezza ma solo sulla base di un semplice calcolo economico, e per questo ringraziamo Livio Tamberi che ci ha dato l’opportunità di considerarci almeno per due giorni parte del suo gruppo consiliare in Provincia di Milano.
Lo SDI regionale arriva a questo appuntamento dopo avere effettuato i propri Congressi provinciali, avere eletto i nuovi organismi territoriali, rinnovato e integrato con giovani esponenti il proprio gruppo dirigente, dimostrando una interessante vitalità politica e una vivace capacità organizzativa.

Ci separano dall’ultimo Congresso regionale tre anni nei quali molto è cambiato, sia a livello nazionale che a livello locale.
Tre anni che non abbiamo passato invano e che hanno visto un impegno costante delle nostre Federazioni, delle Sezioni locali, degli amministratori e dei nostri militanti.

Il partito in Lombardia in soli tre anni ha affrontato tre importanti scadenze elettorali: le europee del ’99, le regionali del 2000, le elezioni politiche e amministrative del 2001, abbiamo partecipato dichiarandoci con chiarezza, senza mai alcuna ambiguità, a favore o contro i tanti quesiti referendari, che sono stati sottoposti in questi anni al giudizio degli elettori.
Ha retto sotto il peso di moltissime difficoltà, senza molti mezzi, senza il conforto di chi avrebbe potuto dare una mano nei momenti più difficili e non l’ha data, con pochi voti, pochi eletti, oggi con nessun parlamentare, senza una sufficiente attenzione del partito nazionale per la sua organizzazione al nord.
Ma soprattutto il partito in Lombardia è stato spesso il punto di riferimento propositivo e di stimolo (qualche volta anche scomodo) dell’iniziativa politica del partito a livello nazionale. Abbiamo svolto un ruolo importante di coordinamento interregionale, proposto temi politici di rilevanza nazionale e iniziative legislative fatte poi proprie dalle altre regioni e dal partito in sede parlamentare.

Tra i tanti appuntamenti organizzati in Lombardia dall’ultimo Congresso, voglio ricordarne due. L’Assemblea regionale del 1999 tenuta a Milano presso la Sala della Camera del Lavoro in preparazione del Congresso nazionale di Fiuggi nella quale definimmo i contorni della nostra autonomia, rifiutammo l’ingresso nella Cosa 2, confermammo il nostro impegno nell’ambito del centrosinistra ma contestualmente decidemmo di presentarci alle elezioni regionali del 2000 da soli, con la nostra lista autonoma rispetto a quella unitaria del centrosinistra e l’Assemblea regionale del 27 ottobre scorso dedicata al tema delle “nuove sfide” che ci ha consentito di arrivare a questo Congresso con un retroterra di elaborazioni e di proposte già in parte discusse.

Il nuovo progetto: un nuovo partito del socialismo europeo
Ma adesso siamo in una fase nuova, adesso ci sono nuove condizioni, è finita anche per noi la fase nella quale abbiamo testimoniato una tradizione, e possiamo puntare più in alto affinché il partito, con più coraggio che nel passato, fuori dalla logica dei soli tatticismi, faccia un vero e proprio salto di qualità.

Adesso bisogna guardare più avanti: bisogna rendersi conto che il quadro politico interno e internazionale é completamente cambiato, che ci sono problemi nuovi da affrontare e che si esce dalla crisi che attraversa la politica e l’antipolitica italiana assumendo un indirizzo e una prospettiva chiari.


Siamo riformisti e quindi puntiamo alla risoluzione concreta dei problemi, siamo una forza del dialogo e della ragione, crediamo al valore della mediazione, non siamo disposti a vendere o svendere i nostri valori, non abbiamo doppie verità.

Entriamo in questa fase politica con la nostra storia.
Siamo una forza profondamente laica, che crede nel valore fondamentale della laicità dello Stato.
Difendere la teoria dello Stato laico non significa sposare un’ideologia irreligiosa o peggio antireligiosa, non significa essere indifferenti nei confronti delle religioni per le quali sentiamo il massimo rispetto, significa essere liberali, disponibili a battersi affinchè ciascuno possa professare le proprie idee e la propria religione. Significa soprattutto difendere la concezione del potere politico come attività autonoma rispetto a qualsiasi confessione religiosa.
Ciò vale nella vita civile, nella scuola e nella ricerca.

Se si osserva ciò che è accaduto nel secolo appena concluso, “si vedrà come sempre attorno alle grandi questioni che hanno segnato le tappe del progresso civile della società italiana c’è sempre vicino, in un ruolo importante e in qualche caso determinante, la tradizione socialista e gli uomini che appartenevano a questa scuola e a questa tradizione.”
Tutte le principali conquiste dei diritti politici, alle prime conquiste del mondo del lavoro, dell’emancipazione operaia e contadina. Tutte le lotte per la libertà e contro le dittature, e poi ancora quasi tutte le riforme di questo dopoguerra, le più le più importanti riforme sociali o civili di questo Paese, portano un segno, una firma, una lotta di uomini socialisti”
Questa storia di civiltà e di libertà, che ha contribuito a fare moderno, civile e democratico questo Paese, non è ancora del tutto riconosciuta e men che meno sono ancora riconosciuti i nostri meriti. Ma questo non ci spaventa.

Certo ci fa specie vedere oggi, tra coloro che sono i più tenaci difensori dello statuto dei lavoratori, i figli e i nipoti di chi allora votò contro o si astenne, perché proposto da un socialista.
Ma ancora di più, ci ha fatto umanamente soffrire, anche nei giorni scorsi, vedere come nemmeno di fronte alla morte di Marco Biagi, non si sia voluto riconoscere in questa nuova vittima del terrorismo la figura di un socialista riformista da sempre. Ma questo, come ho detto, non ci spaventa.

Entriamo in questa fase nuova con un nuovo progetto politico.
Sulla base di queste premesse la nostra proposta politica per dare uno sbocco lineare alla crisi della sinistra italiana è che i socialisti e quindi lo SDI siano i promotori, con chi ci sta, della nascita di un nuovo partito socialista, riformista e socialdemocratico che unifichi tutte le famiglie della sinistra laica e liberale.

Un grande partito socialdemocratico di tipo europeo nel solco della tradizione del riformismo italiano.
Un partito che consenta a tutti coloro che si riconoscono nei valori di libertà, giustizia sociale e di libertà di stare insieme senza distinzione, ognuno con la propria storia e i propri riferimenti politici e culturali.
Un partito che avvii il processo di unità delle forze riformista, ben distinte da quelle massimaliste, così come accadde a Genova 110 anni fa.
Un partito della sinistra “decente”, direbbero gli americani, che si lascia alle spalle gli arnesi del marxismo, il vizio dell’autosufficienza e dell’infallibilità, la sindrome dell’arroganza e della superiorità, il disprezzo per l’avversario e quel “purismo morale”, che caratterizza ancora la cultura post comunista, per cui la colpa è sempre degli altri.
Sono paraocchi tremendi che non consentono ancora a certa sinistra di guardare in faccia alla realtà per quella che è, di vedere quanto sia forte per esempio “il potere della religione nel mondo moderno”, che non gli permette di essere pienamente laici, difensori di tutti i diritti umani., nessuno escluso, e non gli consente di accettare fino in fondo le regole della democrazia politica.

E’ un progetto che dipende dalla nostra capacità di ritessere la tela di interessi diversi, di speranze e nuove aspettative, di ricomporli dentro proposte e programmi nuovi.
Certo in questo momento in Italia non sembra esserci un vento favorevole che spira in questa direzione, non c’è come vorremmo un dichiarato sentimento rivolto a costruire, con i riformisti del centrosinistra, come sarebbe logico, un partito socialdemocratico di tipo europeo, ma alla forza della politica, guardando all’Europa, non c’è alternativa.
E’ un progetto che può riunire già subito le forze politiche che si richiamano al socialismo europeo, ma deve guardare alla società, facendosi carico di interpretare il fermento delle nuove componenti della sinistra come bisogno di cambiamento, di modernizzazione e di innovazione.
Sarebbe infatti sbagliato liquidare con un battuta i sentimenti e gli ideali che stanno alla base dei movimenti giovanili e di protesta, che anzi rappresentano dentro la stasi di una politica senza valori, un punto importante con il quale raccordarsi e interloquire.
Certo si tratta di saper distinguere, dentro le altre manifestazioni di piazza e persino tra chi partecipa ai girotondi e alle manifestazioni dei no global, chi è lì come espressione del qualunquismo dell’antipolitica o dell’estremismo e chi è lì come portatore di aspirazioni, di speranze, di legittime domande insoddisfatte e di una rinnovata quanto legittima voglia di partecipare e di protestare.
Il bisogno di chiarezza, di cambiamento e di modernizzazione, depurato dai tanti infantilismi ed estremismi, che non può non vederci attenti, ha peraltro la sua radice nella crisi di rappresentanza della sinistra attuale, nella irrisolta questione socialista e nella mancanza di una forte presenza organizzata del movimento socialista in grado, anche in Italia come in Germania, in Francia, in Inghilterra, di accogliere al suo interno e legittimare diverse tendenze politiche e culturali della sinistra, da quelle più moderate a quelle più intransigenti e movimentiste.

Proponiamo la nascita di un nuovo partito socialista perché siamo assolutamente convinti che lo spazio politico socialista in Italia non è né chiuso, né morto, né occupato, è si potrà sempre più consolidare se riusciremo insieme ad altri soggetti di ispirazione laica e liberale ed insieme a tutti coloro che ci stanno, a dar forma e contenuti a questa nuova formazione riformista.

Ma ci sono tanti avvocati del diavolo e tanti uomini di poca fede che ci continuano a dire che non ne vale la pena, perché la socialdemocrazia è in crisi e starebbe entrando in crisi anche nel resto d’Europa.
Chi sostiene questa tesi é fuori dalla storia delle normali democrazie occidentali, che si basano sull’alternanza dei governi e quindi sull’ammissione delle fasi cicliche.
La storia ci dice che i partiti socialdemocratici in tutti gli altri paesi del mondo si sono trovati a fasi alterne fuori gioco, quasi che non avesse più una prospettiva dopo aver realizzato i propri obiettivi riformatori; così come la socialdemocrazia si è trovata spesse volte a perdere a causa di politiche mediocri ritenute deludenti per i propri tradizionali sostenitori. Ma se questo fenomeno si spiega come dato ciclico nella storia delle singole nazioni, non sta più in piedi se si allarga l’orizzonte, perché a quel livello, a livello della grande realtà mondiale ed internazionale, i valori di giustizia, di libertà e di eguaglianza tipici della socialdemocrazia europea ritrovano una grandissima ragione d’essere. E siccome è ormai chiaro per tutti quanto pesi sull’occidente tutto ciò che dall’occidente è fuori, si capisce meglio nel confronto delle grandi ingiustizie e delle diseguaglianze planetarie cosa significhi stare dalla parte della socialdemocrazia e cosa significa starne fuori.
Spero che su questo tema mi venga in soccorso Marc Ozuof che ringraziamo per aver accolto il nostro invito che mi risparmia un’analisi su questo argomento.

Ma ritorniamo all’Italia.
La nascita di un nuovo partito del socialismo e riformismo nel nostro Paese si giustifica per più di una ragione.
Senza un credibile partito socialista e riformista la sinistra italiana non è credibile e senza un credibile partito socialdemocratico l’Ulivo non è credibile e non può vincere.

Senza una forza politica organizzata nella quale possono identificarsi gli elettori non si vince e le coalizioni non sono credibili se non sono credibili i partiti che le compongono.
L’esperienza inglese da questo punto di vista, come ho avuto modo già di ricordare, è esemplare. Il New Labour vinse le elezioni in Gran Bretagna dopo 18 anni di opposizione nel 1997, ma il passaggio decisivo per questo successo fu la trasformazione a Blackpool nel 1996 del vecchio Labour Party nel nuovo partito. Ciò consenti a Tony Blair di vincere le elezioni con un manifesto che iniziava così “Il partito laburista è cambiato, ora possiamo chiedere la fiducia della gente per cambiare la Gran Bretagna.”
Noi proponiamo di imitare quell’esempio, perché siamo sicuri che se la sinistra democratica italiana potesse rivolgersi agli elettori dicendo “abbiamo cambiato i nostri partiti, ne abbiamo dato vita ad uno nuovo e unito, adesso vi chiediamo di cambiare l’Italia”, gli italiani sarebbero più favorevolmente dalla nostra parte.

Ma c’è di più.
Un partito forte socialdemocratico consentirebbe alla coalizione di centrosinistra, senza ambiguità, di caratterizzare la sua politica, senza bisogno di fare troppa tattica, e marcando in modo concreto la sua identità e i suoi programmi. Bisogna evitare di ripetere gli errori del passato, anche quelli commessi dagli ultimi governi di centrosinistra, che non hanno potuto sviluppare tutta la loro potenzialità perché si sono logorati, senza trovare un vero punto di equilibrio, nella ricerca di un punto di mediazione tra cultura postdemocristiana e postcomunista, peraltro scimmiottando troppo la destra alla ricerca di una assurda credibilità al centro.
E alla fine molte scelte di questi governi hanno scontentato tutti e quella politica è apparsa come né carne né pesce.
Ma ancora: intorno ad un partito socialdemocratico e riformista forte sarebbe più semplice, come avviene nel resto d’Europa, organizzare un sistema vincente di alleanze elettorali verso il centro e alla propria sinistra che sono mancate alle elezioni del 13 maggio scorso.

Per questi motivi lanciamo un appello a tutti i socialisti, militanti ed elettori dispersi in altre formazioni e a tutti coloro, di altre culture, che si riconoscono nella pratica del riformismo, perché si rompano gli indugi, perché si dia vita e si lavori, ognuno con le proprie responsabilità, per questo obiettivo.
Ai dirigenti dei Ds in particolare chiediamo che il dopo Pesaro diventi una linea politica concreta, coerente e conseguente e di non perdere ancora tempo così come è già stato perso in questi mesi.
E chiediamo non solo a coloro che affermano di essere socialisti, ma ai tanti che dicono di essere diventati riformisti di muoversi, e in particolare ai Ds di svegliarsi, di cambiare, di sciogliersi e di spaccarsi se occorre, ma di non perdere questa occasione della storia, di evitare anche questa volta di arrivare all’appuntamento con venti anni di ritardo, lasciando il centrodestra al governo per altri dieci.

Certo i rapporti tra noi e i Ds non sono stati buoni e nonostante qualche segnale di maggiore disponibilità, non sono ancora buoni.
Dal maggio scorso, dopo i deludenti risultati elettorali delle politiche, proprio dalla Lombardia ci siamo mossi, facendo nostra la proposta di Giuliano Amato, per aprire con i compagni diessini un dialogo nuovo.
Ad ottobre in occasione dei congressi locali e nazionale dei Ds, e poi dopo il Congresso di Pesaro, che ha rappresentato certamente un passaggio positivo, dal nostro Congresso provinciale di Milano abbiamo chiesto ai Ds di fare qualche passo avanti in più in una direzione coerente con le loro dichiarazioni.
Abbiamo avanzato la proposta di presentare alle prossime elezioni amministrative del 26 maggio liste unitarie dell’Ulivo o liste della Rosa come sintesi dell’area riformista del centrosinistra.
Non è successo in modo significativo né l’una né l’altra cosa. Abbiamo avuto a parole risposte positive che non abbiamo sottovalutato, ma in concreto non si è realizzato in modo significato nessuno degli obiettivi sperati.
Oggi al di là di qualche caso di buona volontà, non possiamo ritenere che le cose siano molto cambiate.

Guardiamo però cosa succede oggi: l’Ulivo, oscilla tra l’essere una federazione di forze politiche o una semplice alleanza elettorale, naviga a zig zag e, ad un anno di distanza dal voto, non è comunque più unito di prima e quindi non appare più forte di prima.
In sede locale la nascita della Margherita, fatto positivo in sé, non ha giocato a favore della coalizione; la sua nascita ha coinciso con una iniziativa tutta di parte, che sembra avere come obiettivo principale il sorpasso elettorale dei Ds e i Ds hanno risposto con la stessa logica.
E intorno a questa questione, che poi si traduce nella sostanziale spartizione di posti e di candidati, si sono consumate in queste settimane, in modo deludente, salvo qualche rara eccezione, le trattative per la presentazione delle liste alle elezioni amministrative del 26 maggio.

Con la nascita della Margherita, se c’era qualche dubbio tra le nostre fila intorno alla questione se questa nuova formazione politica avesse potuto rappresentare un punto di approdo per i socialisti, i dubbi sono del tutto fugati.
Quel partito, mezzo democristiano e mezzo liberaldemocratico, rivendica il diritto di rappresentare un’area ben diversa e distinta da quella socialdemocratica.
Svanisce quindi per ora un’ipotesi, peraltro possibile nello scenario politico italiano, quella di costruire da subito un percorso unitario tra tutte le forze riformiste, liberaldemocratiche e socialiste dell’Ulivo, facendo convivere dentro un unico partito di ispirazione socialdemocratica e riformista sia l’anima laica, socialista e liberale, sia quella popolare e cattolica.
L’Ulivo o il centrosinistra che dir si voglia rimane quindi per ora un’alleanza di partiti distinti, ma l’unico partito che manca è quello socialista e socialdemocratico e anche questa è un’anomalia che va risolta.
Per queste ragioni l’obiettivo di costruirne uno diventa un obiettivo nuovo e straordinario.

A questo punto dobbiamo rispondere ancora ad un ultima domanda.
Se la nostra proposta per un nuovo partito della socialdemocrazia europea non trovasse consensi nei Ds o peggio ancora, se quel partito fosse risucchiato da una politica massimalista, quale sarà la risposta dello SDI?

Andremo avanti comunque, i socialisti non annegheranno la propria identità dentro un partito a forte prevalenza postdemocristiana nella Margherita, non confluiranno nei Ds, ma dovranno ricercare nuove alleanze per realizzare comunque questo nuovo progetto.

Potremmo fare un atto di coraggio come ci aveva indicato Amato, quello di partire dal basso mettendo sul tavolo anche la nostra disponibilità allo scioglimento, quando cogliessimo la disponibilità dell’autoscioglimento degli altri.
Potremmo concordare che il processo di formazione del nuovo partito attraverso una fase costituente che azzeri quel che c’è per costruire il nuovo da zero.
Ma se tutto ciò non accadrà, sarà un paradosso, ma toccherà alla nostra volontà farsi carico da soli di questo progetto, ben sapendo che prima o poi si farà strada.

Dovremo andare alla ricerca di alleanze fuori dalla logica dei vecchi partiti, ricercare adesioni individuali o di gruppo nella politica e nella società, ricercare nuovi rapporti con tutte quelle aree che non si accontentano dello status quo. Le scadenze in politica obbligano e per le elezioni europee del 2004 una nuova formazione socialdemocratica ci dovrà essere e in quella occasione potremo avere il nuovo simbolo.
Sarà un percorso complesso, ma non è detto che abbia meno appeal e meno capacità di attrattiva di quel che c’è oggi sul mercato della politica.

In questi ultimi mesi abbiamo raccolto in Lombardia nuovi e inaspettati consensi, nuove iscrizioni, anche di persone comuni, di chi fino ad ora non ha mai fatto politica attiva e ciò non è accaduto in nome della nostra attività politica, né tanto meno in virtù della politica sviluppata dal partito a livello nazionale, che per la verità è stata abbastanza debole e discontinua. Se ciò è potuto accadere è perché qualcuno ha colto il significato del nostro progetto e della prospettiva che stiamo costruendo, e su un progetto vale la pena di spendersi.

Il nostro progetto è ambizioso, richiede una grande volontà e molto entusiasmo; è contro la rassegnazione della sconfitta e contro la sindrome dell’essere troppo piccoli. Questa sindrome non ci ha fatto crescere e la vecchia politica va cambiata.

Per queste ragioni abbiamo deciso in Lombardia di presentarci al Congresso nazionale con un nostro documento politico marcando la differenza con la proposta in parte contenuta nel documento nazionale che va sotto il nome di “casa dei riformisti”.
Finchè non si conoscono bene i contorni politici, in questa “casa” io farei fatica a starci.
Il termine riformista è diventato negli ultimi anni un termine troppo generico per potere indicare una proposta politica. Nel passato, nella storia della sinistra italiana per riformista si intendeva quella componente della sinistra che rifuggiva dalla cultura massimalista e non si riconosceva nel metodo rivoluzionario.
Poi nel corso della storia democratica di questo Paese si sono andati configurando due grandi filoni del riformismo italiano, quello tradizionalmente socialista e quello cattolico e solidarista. Oggi il termine riformista si identifica con la pratica di governo, con il riconoscimento del potere legislativo e con il riconoscimento del metodo democratico-istituzionale.
In questa accezione sono riformisti tutti i partiti del centrosinistra e con la stessa logica un po’ ignorante si dichiarano riformisti anche Berlusconi e Fini.
Anche per questo è meglio caratterizzare la nostra proposta in modo più preciso, incominciando noi a rivendicare la sacrosanta necessità che alle forze politiche corrisponda una precisa identità.

Il nuovo partito
Nuovo socialismo e nuovo partito non sono quindi due cose disgiunte, il progetto politico deve marciare contestualmente allo sforzo per la definizione del percorso che porterà alla costruzione del nuovo partito.
Dobbiamo definire la forma di un partito credibile, come diceva Riccardo Lombardi “organizzato così come vogliamo sia organizzata la società che intendiamo realizzare”.
Per anni l’antipolitica ci ha spiegato che senza leader non c’è un partito, ma vedendo tanti leader senza partito, incomincio a pensare che non sia vero.
Dobbiamo fare lo sforzo di costruire un partito come soggetto collettivo, articolato, ramificato, presente nella società attraverso i propri rappresentanti ed i propri aderenti, espressione di una società vivace e positiva che è andata cambiando radicalmente e di una società che è in continua e progressiva trasformazione. Un partito espressione di una società ricca di tante culture, già multietnica e multireligiosa, espressione di molteplici e positive diversità.
Ma un partito espressione di una società pluralista non ha bisogno solo di un leader o di un leader solo, non ha bisogno di un solo capo e tantomeno di un solo padrone.
Non ha bisogno di imitare Berlusconi, così come il centrosinistra, espressione di più identità, non ha bisogno di inventare ogni anno un leader maximo, disperdendo il valore politico e culturale della pluralità dei propri dirigenti.
Un partito nuovo ha bisogno di tanti riferimenti, rintracciabili, attivi, propositivi e costruttivi.
Un partito nuovo sa vivere nella più larga partecipazione e sa individuare gli strumenti per portare i cittadini a partecipare alla costruzione di un grande progetto collettivo.
Per questo anche noi dobbiamo cambiare mentalità, bisogna guardare più fuori che dentro il partito, individuando nuovi referenti sociali, coinvolgendo nuove energie, scrollandosi di dosso vecchie ruggini e vecchi rancori se ce ne sono.
Si tratta di rivolgersi a tutti coloro che finora non hanno fatto politica attiva con lo stesso interesse rispetto a quelli che l’hanno fatta. Ma nello stesso tempo offrire a tanti dirigenti e personalità impegnate in passato che si sono ritirate nel privato anche in ragione del bassissimo livello culturale che caratterizza la politica oggi, una nuova opportunità di lavoro politico e un nuovo diritto di cittadinanza.
Alla frase, che sentiamo sempre più ripetutamente, “mi piacerebbe fare politica ma non si capisce come e dove si può farla” dobbiamo saper dare una risposta pratica cogliendo positivamente l’attenzione che verso di noi è andata aumentando negli ultimi mesi.
Bisogna dare una risposta a chi pensa ancora alla politica come impegno civile e alla politica come qualcosa di strettamente connesso alla capacità umana di far girare le rotelle del cervello.
Per questo abbiamo promosso e sostenuto in questi ultimi mesi la nascita di alcune associazioni sociali, di volontariato e culturali e abbiamo in cantiere l’apertura a Milano di un circolo di ispirazione laica e socialista per ridare a questa città quello che è stato tolto con ogni mezzo, costo degli affitti compresi, per spazzare via dalla scena politica che non ha i soldi e favorendo chi li ha. Siamo ritornati alla politica per censo, le sezioni dei vecchi partiti sono state sostituite dai club di Forza Italia e i gloriosi circoli culturali laici e socialisti sono stati sostituiti da quelli ricchi di Marcello Dell’Utri e della famiglia Moratti.

Chi, come tanti di noi, ha dedicato alle lotte socialiste quasi l’intera vita, non può accontentarsi di vivacchiare per il resto degli anni che intende ancora dedicare alla politica, non può accontentarsi della tattica e della sopravvivenza, sente il bisogno di lavorare più in grande, per qualcosa che conterà negli anni a venire, pensando ai propri figli, ai propri nipoti e alla società nella quale vogliamo che vivano.
E se ragioniamo in questo modo riusciremo ad intercettare anche i loro interessi e riusciremo a coinvolgerli.
I giovani rappresentano per la sinistra una questione essenziale. Non si può sostenere di voler guardare avanti, senza guardare a loro come risorsa fondamentale del riformismo del futuro. Perché loro sono concreti ed il riformismo è concretezza.
La sinistra ha bisogno di ringiovanire e per farlo bisogna misurarsi con le aspirazioni ed i bisogni delle giovani generazioni.
Se la sinistra non conquista i giovani avrà perso qualunque cosa si faccia.

Il nuovo socialismo

L’impegno per la costruzione del nuovo partito del socialismo italiano diventa essenziale sia per identificare il terreno delle proposte politiche, sia per rendere più efficace il ruolo di opposizione costruttiva all’attuale governo.
Occorre rimettere in campo le idee, storicizzare vecchie proposte, aggiornarle, guardare alla realtà per quella che è, ben sapendo che la realtà è certamente molto più complessa di quanto qualsiasi semplificazioni sia in grado di rappresentare.
Dobbiamo costruire sempre più la nostra credibilità tornando tra i cittadini con programmi e proposte concrete, per contrastare la dilagante antipolitica del denaro, del consumismo, del qualunquismo ignorante e reazionario e per l’inclusione sociale di chi è escluso.
Si tratta di tornare a garantire la presenza socialista in tutte le battaglie per la giustizia economica, contrastando quelle di segno opposto, mettendo i diritti di cittadinanza al centro del nostro programma di sviluppo.
Occorre saper trarre dall’irreversibile fenomeno della globalizzazione tutte quelle opportunità che possono favorire l’uguaglianza delle condizioni di vita dei popoli, l’innalzamento dei redditi delle persone più povere, l’uguaglianza
tra uomini e donne, dando loro i mezzi per conciliare lavoro e vita familiare, per contrastare violenze, illiberalità e ingiustizie.

Di fronte a noi ci sono tre grandi questioni che devono essere affrontate in modo nuovo.

La prima è la grande “questione internazionale”.
La sinistra italiana in questi ultimi dieci anni, salvo rare eccezioni, ha sostanzialmente dimenticato questo impegno, lasciando la battaglia contro la violenze, contro la barbarie, contro la povertà, contro le malattie, contro le dittature e contro la fame che coinvolgono milioni e milioni di persone in tutto il mondo al loro destino, alle associazioni di volontariato, ai movimenti solidaristici e cattolici, alle denunce dei più giovani, quasi che queste questioni non ci appartenessero e non fossero questioni politiche da affrontare.
Dopo l’11 settembre la sinistra italiana ha avuto un lieve sussulto di lucidità e si è accorta che né il terrorismo internazionale, né quello interno, erano stati battuti.
Si è accorta che l’impegno per estendere l’area della democrazia e della libertà in moltissimi paesi del mondo, che ancora non le conoscono non poteva considerarsi terminato.
Ci siamo resi conto che più di un miliardo di islamici vive in paesi non democratici oppressi da dittature e regimi autoritari.
Ma poi la tensione è stata mollata.
Abbiamo vissuto dieci anni nei quali la crisi culturale prima ancora che politica della sinistra, insieme all’assenza forzata del socialismo italiano, hanno fatto sì che i riflettori sulle grandi ingiustizie mondiali fossero pressoché spenti. E anche il tema della pace è sembrato riemergere solo di fronte alle guerre, come quella drammatica che si sta consumando in queste ore in Palestina.
Salvo qualche caso individuale, la sinistra si è chiusa nell’occidente, non vedendo le grandi trasformazioni del capitalismo internazionale e quindi riducendo la propria azione alle sole vicende di casa propria.
Ha creduto di poter vivere fuori dalle relazioni planetarie non accorgendosi che l’occidente alla vecchia maniera non c’è più, ma esiste un occidente nuovo che domina o controlla praticamente tutto il resto del mondo.
Bisogna ritornare a riaprire gli occhi e ridiscutere del capitalismo non assumendolo come un dato metafisico o ideologico. La sua capacità di continuare a trasformarsi, come nessun altro sistema è stato in grado di fare, continua ad essere un grande problema.
Trasforma e snatura a suo fine ogni cosa, anche le parole e i principi che non appartengono alla sua tradizione.
Ha fatto sua la parola più eversiva per eccellenza: la libertà. Ha fatto suo ed ha snaturato il concetto di democrazia.
Ha annientato la cosiddetta lotta di classe riducendo le differenze di classe dentro i singoli paesi, ma ricostruendole a livello planetario sicché oggi le classi sono dislocate in paesi diversi, non si vedono, ma ci sono, con le loro belle differenze, secondo un modello molto più sofisticato ed evoluto della tradizionale divisione internazionale del lavoro.
E se in tante parti del mondo è ancora evidente lo sfruttamento della manodopera, in altre è ormai chiaro lo sfruttamento dell’intelligenza.

Tutto è cambiato: ed in pochi anni è cambiato il mondo così come è cambiato il nostro paese e il socialismo rinasce affrontando con concretezza questi cambiamenti.
Se sul piano internazionale è chiaro l’impegno di una forza socialista per favorire lo sviluppo economico dei paesi più poveri, governando in senso positivo i nuovi processi di globalizzazione e per realizzare condizioni di pace dove ci sino ancora le guerre, non meno importante è l’attenzione alla politica estera del nostro paese.
Nel mondo è aperto un confronto duro tra la capacità o meno dell’Europa di affermare il proprio ruolo politico ed economico in una competizione ormai evidente con il resto dell’occidente.
In Italia molti interessi di oltreoceano passano per la politica di questo governo. Non a caso lo scontro politico, che ha portato alle dimissioni del ministro Ruggero, non è certo estraneo a questo ordine di problemi.
Non è infatti credibile che gli attacchi che la Lega ha mosso all’Europa, forcolandia e dintorni, rappresentino una posizione politica autonoma e non concordata con l’intero governo.
La cosa più attendibile è che il governo, e Berlusconi in primis, usino Bossi come un fedele guastatore al soldo di interessi internazionali ben precisi.
Ma il paradosso è che la sinistra sembra ferma, al di là della protesta, non costruisce legami politici con il resto del mondo, mentre a destra tutto si muove.
Io non credo alla favola che sia casuale che Berlusconi abbia voluto ricoprire personalmente anche la carica di ministro degli esteri, se dietro non ci fosse l’obiettivo di voler controllare da vicino il sistema delle alleanza economiche e politiche, fino alla normalizzazione delle ambasciate per collocare nel mondo, come è stato dichiarato, suoi fidatissimi manager.
D’altra parte la vera anomalia italiana, non è solo il conflitto di interessi, peraltro non risolvibile chiedendo alla RAI e a Mediaset di mollare ai privati una rete a testa, ma riguarda il fatto che abbiamo un primo ministro che fa più l’imprenditore che il politico, in una fase in cui l’economia ha decisamente sovrastato la politica.
Questa è la grande questione politica e non tecnica del conflitto di interessi.
Persino Formigoni, che in qualche modo rappresenta un altra faccia della stessa medaglia, dedica alla politica estera quasi tutto il suo tempo, muovendosi con disinvoltura sul piano delle relazioni economiche come su quello politico in un intreccio tra incontri istituzionali, incontri imprenditoriali e quelli dedicati, ormai in modo evidente, al rafforzamento di una nuova internazionale di destra.

2. La “grande questione sociale” è strettamente connessa con le politiche del governo e con il suo modello di distruzione del welfar che è stato costruito negli anni passati.
Sulle politiche del lavoro abbiamo fatto bene, anche in queste ultime settimane, a non lasciare solo il sindacato sia quando si è trattato di discutere le questioni di merito, sia quando si è trattato di schierarsi contro un governo controriformatore che sta usando l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori per sferrare contro il sindacato un attacco mortale.
Ma nello stesso tempo abbiamo fatto bene ad evidenziare come i mutamenti e la complessità intervenuti nel mondo del lavoro richiedono un approccio concreto e non ideologico, proseguendo sulla strada già indicata da almeno vent’anni, per modificare l’attuale statuto dei lavoratori in un nuovo statuto dei lavori e per dare risposte a tutti coloro che ancora non sono sufficientemente tutelati.
In questo senso, la battaglia che i sindacati stanno facendo, in forme diverse, tutte legittime, per difendere l’articolo 18 non rappresentano per noi un elemento di rigidità e di conservazione, ma un punto fermo per non consentire che il rapporto di lavoro sia ridotto ad un rapporto individuale tra un soggetto forte, il padronato, e il singolo lavoratore che, privato della solidarietà e della tutela, rimarrebbe solo in balia della propria debolezza.
Ma il problema immediato è di individuare nuove forme di tutela per quel gran numero di lavoratori il cui rapporto di lavoro, negli anni ’60 non era neppure immaginabile e che oggi non sono tutelati dall’articolo 18.
Quasi metà dei lavoratori oggi nel nostro paese ha un’occupazione in ragione di un contratto cosiddetto atipico e di tipo strettamente individuale con tutele ridotte rispetto a quelle dei lavoratori dipendenti a tempo indeterminato.

Per noi socialisti il contratto a tempo determinato o atipico che dir si voglia, non può sostituire in modo improprio e fittizio un regolare rapporto di lavoro, né si può rimanere con un Contratto Coordinato e continuativo per tutta la vita fingendo che questo sia il desiderio dei giovani di oggi e non quello dell’impresa. In questo caso la flessibilità non c’entra nulla, qui siamo di fronte ad un sistema d’impresa poco serio e poco solido. Perché non è sana un’impresa che assume un lavoratore avendo già in testa di licenziarlo quando vuole.
A questo punto bisogna mettere in campo proposte concrete e fare oggi, in condizioni più difficili che non qualche anno fa, con questo governo di centrodestra e amico della parte più vecchia del mondo imprenditoriale, ciò che per la verità andava già fatto con il governo di centrosinistra, se non fosse stato impedito, questa volta sì, dalla CGIL di Cofferati e dalla vecchia sinistra conservatrice.

Ma al di là dell’articolo 18 bisogna unirsi contro le deleghe che il governo chiede in materia di lavoro.
Esse contengono progetti pericolosi che tirano a colpire in modo preoccupante il sistema previdenziale, pensionistico e fiscale, aprendo ulteriormente la frattura fra nord e sud e discriminando tra lavoratori comunitari e non comunitari.
Bisogna reagire con un pacchetto di proposte alternative da sostenere nel Parlamento e nel paese, concentrando l’attenzione sulla necessità di ricostruire un rapporto organico tra un nuovo statuto dei lavori, che dovrà riguardare tutti, per estendere le tutele anche ai contratti atipici, con un sistema previdenziale che dia a questi lavoratori le naturali garanzie durante e dopo la vita lavorativa.
Noi proponiamo che da subito lo SDI a livello parlamentare si faccia promotore di un progetto di legge per eliminare una macroscopica anomalia per garantire almeno ai CoCoCo la possibilità del ricongiungimento da subito dei versamenti versati all’INPS con quelli versati in altri periodi in qualità di lavoratori dipendenti, oggi cosa stranamente impossibile.
Bisogna quindi concentrare la nostra attenzione sulle politiche del lavoro guardando ai giovani, con particolare riguardo alla loro formazione.
Abbiamo un sistema universitario che non è ancora in grado di soddisfare la domanda di lavoro fortemente qualificato, abbiamo esuberanza di laureati in scienze umanistiche e carenza di laureati in discipline scientifiche. Così ci troviamo nella strana condizione di dover chiamare dall’India o dal Pakistan laureati extracomunitari fino a quando non saremo riusciti ad avere prodotto i nostri.
Gli stessi problemi, aggravati, riguardano il lavoro femminile. Nelle settimane scorse abbiamo visto le statistiche delle basse natalità sia in Italia che in Lombardia. Questo non è un indice di sviluppo né di ricchezza, significa che il nostro paese è molto arretrato nelle politiche di sostegno della donna e della famiglia e significa, in altre parole, che con un solo reddito familiare non si fanno figli e se lavori in due non ne fai perché il sistema dei servizi non è così efficace.
Ormai le statistiche sono chiare, il tasso di natalità è più alto dove più alto è il tasso di occupazione femminile e non l’inverso. Non a caso in Europa i tassi di natalità più bassi si verificano in Italia e in Spagna, contrariamente a quanto avveniva una volta, perché in questi paesi l’occupazione femminile è più bassa. Anche su un tema come questo si distingue ciò che è di destra e ciò che è di sinistra.
Dopo tanta demagogia cattolica si scopre che le politiche per la famiglia più avanzate in Europa sono state realizzate dalla laicissima Francia che in Europa ha il primato delle natalità perché ha il primato dell’occupazione femminile.
Ciò è stato possibile per merito del governo socialista di Lionel Jospen che ha consentito un largo sistema di garanzie sociali, ha sostenuto la maternità attraverso asili nido aperti sino alle otto di sera, sgravi fiscali, assegni familiari, congedi, permessi retribuiti in caso di malattia dei figli e per le famiglie numerose e persino il rimborso delle spese di trasporto, contributi per il doposcuola, per l’affitto, per le bollette dell’elettricità e sconti sulla rete ferroviaria, per il cinema e per i musei.
E ciò avviene nel paese che per primo ha riconosciuto i patti civili di solidarietà estendendo il diritto di famiglia alle unioni di fatto anche per le persone dello stesso sesso. Meglio imitare la Francia socialista piuttosto che rimanere senza tutele per le madri e le giovani coppie e senza la legge sulle coppie di fatto.

Per quanto riguarda la sanità, l’assistenza e la scuola stiamo assistendo allo smantellamento del tradizionale sistema pubblico dei servizi sostituiti da un modello che tende a ridurre tutto alla logica del mercato, cosicché chi ha i soldi comprerà la sanità, l’istruzione e l’assistenza ridotte a merce, chi non li ha rimarrà senza. La teoria del vaucher e dei buoni per ogni cosa, introdotta in via sperimentale in Lombardia con il buono scuola e il buono anziani e forse presto con il buono casa, rischia di essere estesa a livello nazionale modificando il tradizionale sistema universalistico dei servizi.
Innovare, modernizzare, adeguare, cose del tutto necessarie anche per la sinistra, non significa privatizzare tutto, predisponendo, come ormai è evidente, un nuovo spazio di mercato per settori nuovi: le assicurazioni private per la sanità e l’assistenza, le scuole private a pagamento in sostituzione di quelle pubbliche e gratuite nell’istruzione.
Sulla sanità abbiamo condotto una durissima battaglia in questi mesi in Consiglio regionale.
Penso che la stessa battaglia toccherà fra non molto ai socialisti delle altre Regioni governate dal centrodestra ed in Parlamento.
Attraverso questa battaglia abbiamo dimostrato che la nostra proposta non è né vecchia né conservatrice ma è ispirata al principio fondamentale che la sanità è un servizio essenziale che lo Stato deve garantire a tutti indipendentemente dai redditi e dalle singole possibilità economiche.
Il servizio sanitario rimane per noi un pezzo importante di ciò che una volta chiamavamo salario reale e in quanto tale va difeso.
Nessuno di noi ha mai pensato che il privato no profit solidaristico o persino certo privato convenzionato, non possa svolgere, così come è accaduto in passato, un ruolo integrativo del sistema sanitario pubblico, ma non è accettabile in alcun modo un sistema sanitario che obbliga medici e ospedali a farsi reciproca concorrenza. Ciò toglierebbe ai medici la loro funzione fondamentale e chi ne andrebbe di mezzo sarebbero la salute dei cittadini.
Dopo i recenti provvedimenti del governo e quelli regionali i guasti sono già sotto gli occhi di tutti.
C’è stato un taglio delle prestazioni che fino a qualche mese fa erano gratuite.
La prevenzione e la riabilitazione sono i settori più penalizzati, l’apertura ai privati e l’allargamento dell’offerta mediante accreditamenti ha accresciuto disavanzi del sistema pubblico e questi disavanzi saranno coperti a partire da quest’anno dai cittadini lombardi con nuove tasse, ed oltre alle tasse molti di noi saranno obbligati presto al pagamento diretto delle prestazioni e dei farmaci.
La politica del centrodestra ha ridotto quel tipo di sicurezze che ciascuno di noi desidera avere e che il servizio sanitario nazionale, introdotto 30 anni fa dai governi di centrosinistra, aveva finora garantito.
Formigoni, circa due anni fa, con un’abile propaganda sulla sanità, con la balla del “si può andare ovunque e le liste di attesa si ridurranno”, ha ottenuto consensi da moltissimi anziani e anche da cittadini economicamente deboli che sono coloro che più saranno colpiti dalla nuova riforma.
L’unica cosa che possiamo augurarci è che così come sulla sanità Formigoni ha vinto le elezioni del 2000, le possa perdere nel 2005.

Sulla scuola l’attacco del centrodestra alla scuola pubblica non è minore, e come sempre la Lombardia ha fatto da battistrada, prima con i finanziamenti alle scuole materne private poi con il taglio delle risorse al diritto allo studio e poi con l’introduzione dei buoni scuola a favore di coloro che frequentano le scuole private elementari, medie e superiori.
Purtroppo, dietro un falso principio di libertà, l’attacco alla scuola pubblica viene dall’ideologia della famiglia, dentro quell’apartheid culturale a cui sostanzialmente si ispira da sempre la chiesa, affinché la scuola anziché educare secondo i principi dello stato laico educhi in ragione di una fede che deve essere tramandata di padre in figlio.
Respingendo questa logica ma con spirito propositivo, costruttivo, senza avversari precostituiti, la scuola pubblica si salverà se saremo in grado di proporre una riforma, non solo per difendere l’esistente che non è comunque adeguato alle attuali esigenze, ma di costruire un progetto di riforma che vada al cuore del problema, che è la qualità dell’istruzione, la preparazione degli insegnanti e che riguarda la produttività di questo straordinario investimento colletivo.
La sinistra non deve consentire che il divieto costituzionale del finanziamento pubblico alle scuole private venga aggirato con una lenta ed inesorabile privatizzazione del sistema formativo attraverso il riconoscimento delle scuole private.
Su questo argomento così come sulle recenti proposte di legge del governo è bene che si apra un confronto a tutto campo senza sotterfugi e senza furbizie.
La scuola pubblica è e deve rimanere la scuola di tutti, fondata sulla libertà di insegnamento e sul pluralismo culturale.
Nessuno di noi pensa che si debba limitare l’esistenza delle scuole private, anche paritarie, ma per queste loro caratteristiche non può essere parte integrante del sistema formativo di tutti.
La formazione libera non può essere data in concessione ad un privato che per definizione non è in condizione di garantire la libertà.

In perfetta sintonia con il modello di sviluppo della Confindustria che tende a rendere sempre più precari i rapporti di lavoro, il centrodestra si sta anche predisponendo a varare una riforma scolastica che ha come obiettivo la restaurazione di un modello selettivo: a 14 anni si separa il percorso liceale statale da quello formativo regionale. Una scelta che vorrebbe da subito distinguere il canale dell’eccellenza per chi è destinato agli studi universitari dal canale della preparazione al lavoro per l’area del disagio cui si prospetta da subito un destino formativo e lavorativo inferiore.
Perfettamente fuori dall’Europa e fuori dalla cultura dello sviluppo, questo governo non punta più ad un modello scolastico finalizzato a portare tutti al più alto livello possibile di istruzione e contro questa controriforma saremo in battaglia insieme agli altri.

3. C’è infine una terza grande questione, “una questione morale” strettamente connessa alla “questione democratica”.
Dieci anni fa la “questione morale” che i socialisti hanno forse per primi avuto il coraggio di ammettere chiamando la politica ad intervenire perché fossero tagliate le aree infette e il finanziamento dei partiti e della politica potesse rientrare nella legalità, si è risolta con la criminalizzazione del sistema politico, con la cancellazione degli allora partiti di governo, con la subordinazione del potere legislativo a quello giudiziario e con il contemporaneo fallimento della giustizia penale prodotto da tangentopoli.
Da una magistratura che si è arrogata il diritto di non guardare ai fatti ma di perseguire i fenomeni, è nata la repubblica di oggi.
“L’ondata antipolitica sostenuta dalla rivoluzione giustizialista – come ha scritto Luciano Cafagna nell’ultimo numero di Mondoperaio – ci ha dato Berlusconi”, che dal giustizialismo ha guadagnato più di altri, e aggiunge: “la sfiducia nella politica ha prodotto la popolarità e il successo di un non politico (fattosi ovviamente politico), percepito come “uno come noi, uno che si è fatto da sé, uno che non ha bisogno di rubare perché è ricco”.
In queste parole c’è già il tarlo della situazione che stiamo vivendo, cioè la vera questione morale, c’è la delegittimazione delle istituzioni e la delegittimazione delle regole democratiche.
Noi siamo tra coloro che non credono che l’antipolitica sfoci sempre in un regime o nel fascismo. Men che meno pensiamo che oggi in Italia ci sia un regime o il fascismo. Ma dobbiamo prendere coscienza che viviamo in una fase in cui la sfiducia nella democrazia è forte e quindi c’è una oggettiva emergenza democratica che potrebbe saldarsi con una emergenza di carattere sociale.
L’arroganza del governo, gli attacchi portati alla magistratura su un terreno sbagliato, quello che sembra ristretto alla tutela di posizioni individuali, l’attacco all’informazione, la legge sulle rogatorie, l’attacco al sindacato e il fastidio che il governo sembra dimostrare nei confronti del dialogo e persino verso le opposizioni sono tutti sintomi pericolosi.
Come dire non c’è un regime ma la situazione non è normale e solo il ritorno al primato della politica, la politica al primo posto per difendere il metodo democratico potrebbe raddrizzare le cose. Oggi la democrazia nelle istituzioni è in estrema difficoltà, nei comuni è praticamente inesistente, e ciò che è più grave è che molti di noi rischiano, dopo dieci anni di anomalie, di interpretare come democratico ciò che democratico non è più, ci stiamo abituando a vivere fuori dalle regole.
Dicevamo ad ottobre nella nostra assemblea regionale: “Difendere le autonomie da una deriva poco democratica in cui si sono infilate, difendere il principio della rappresentanza politica e popolare, salvare la democrazia nell’equilibrio di contrapposti poteri è una grande sfida che sentiamo di indicare tra le grandi cose che un grande partito socialista e riformista dovrà affrontare.
Purtroppo non c’è mai limite al peggio e non a caso sindaci e presidente regionali stanno chiedendo al governo sempre maggiori poteri speciali, nascondendo dietro la richiesta di essere commissari di ogni cosa una vecchia ambizione ad essere dei podestà.”

Questa è di per sé una grande questione morale che ne sottende e ne ha trascinate altre con sé ancora più gravi.
Lo strapotere della seconda repubblica, fortemente personalizzato ed accentrato, con pochi efficaci controlli democratici, destruttura le istituzioni secondo i propri interessi, commissaria enti e società senza giusta causa; vende, scioglie, costituisce, trasforma società faticosamente costituite nel passato, senza rispondere ad alcuno, senza una logica apparente oltre quella del poter controllare tutto, in una visione tutta privatistica del governo delle istituzioni. Nomina, assume, licenzia dipendenti pubblici, elimina la burocrazia indipendente e la sostituisce con una sostanzialmente asservita.
I controllati fanno i controllori e viceversa.
Non c’è più bisogno di prendere tangenti, ammesso che non si prendano anche tangenti.
Tutto è una tangente, in un perfetto sistema di dipendenza, di subordinazione e quindi di corruzione diffusa. Quindi la questione morale non è chiusa, spetta alla politica fare quello che non ha fatto dieci anni fa: assumersi tutte le responsabilità.

La questione regionale

La Regione Lombardia si trova per certi versi in una situazione ancora più grave.
Il modello attuale, dannoso sul piano sociale, lo è ancora di più su quello istituzionale e democratico.
Spinto oltre i confini delle normali regole democratiche, con un governo di tipo individuale e proprietario, con un uso strumentale di un federalismo spesso più propagandistico che reale, interpretando in modo improprio l’elezione diretta del Presidente e il suo successo elettorale, il governo della Regione tende ad una gestione di tipo presidenzialistico, pur in un sistema istituzionale ancora inequivocabilmente parlamentare.
Ciò è dipeso sostanzialmente dagli errori contenuti nella recente legge elettorale, anche per responsabilità della sinistra, e da una mal interpretata modifica costituzionale.
Questo stato di confusione e di conflitto tra poteri perdurerà finche non sarà definita una forma di governo certa e una conseguente riforma elettorale.
Per questo lo SDI si è già espresso, in sede di commissione statuto, a favore di un modello di tipo parlamentare con un sistema elettorale proporzionale con sbarramento di tipo tedesco, e non ancora chiare sono le posizioni degli altri.
L’accentramento dei poteri effettivi quasi esclusivamente nella mani della giunta, una giunta piegata a organo di consulenza del presidente e spesso subalterna persino ad una burocrazia che secondo la logica dello spool sistem non è più assolutamente indipendente e i tentativi di ridurre il peso del potere legislativo del consiglio, stanno creando una situazione istituzionale distorta e completamente anomala.
Noi e il centrosinistra possiamo esprimere in Regione un modello di governo radicalmente diverso da quello che oggi esprime il centrodestra.
Il nostro non è fondato su un sistema di potere oliogarchico, ma sull’equilibrio dei poteri, sul ruolo primario delle autonomie, dei cittadini, della cultura e delle imprese affinchè ciascuno possa partecipare direttamente in ragione della propria disponibilità e dei propri bisogni a realizzare un grande progetto collettivo.

Intorno a questo modello di governo gestiremo al meglio il nostro ruolo di opposizione e intorno a questo modello occorrerà definire al più presto un programma affinché il centrosinistra possa costruire le condizioni per dare alla Lombardia un governo riformista e socialdemocratico alle elezioni del 2005.
Questa sarà per noi la seconda vera grande scadenza.

Infine Milano
Anche a Milano c’è una grande questione democratica e la logica del condominio ha penalizzato le grandi strategie e le straordinarie potenzialità di cui questa città dispone.
Manca a questa amministrazione una lungimirante politica per lo sviluppo e mancano a questa amministrazione le basi per garantire una efficace rete di servizi pubblici per affrontare con concretezza i problemi emergenti dei giovani, delle famiglie e soprattutto degli anziani che entro il 2020 potrebbero essere quattro volte i giovani.
Milano nell’ultimo decennio sembra essersi defilata dalla grande politica nazionale ma rimane un grande problema nazionale il modo in cui a Milano si gestisce questa città.
Spariti i socialisti non c’è stata più nessuna giunta che sia riuscita a conciliare la strategia dello sviluppo, dell’innovazione e della modernità con la tutela dei cittadini più deboli. Oggi prevalgono nel modo più deteriore solo le logiche degli affari.
I valori immobiliari, le rendite e le grandi proprietà fanno la politica e fanno le scelte come mai è successo in passato.
La grande opportunità, discussa quindici anni fa, per utilizzare negli interessi collettivi le cosiddette aree dismesse e le grandi trasformazioni in corso, è andata completamente perduta.
Le grandi aziende pubbliche stanno per essere svendute. A questo disegno contrapponiamo, come in Gran Bretagna, le pubblic company come l’unico modo serio per trasformare gli assetti societari lasciando ai lavoratori ed ai cittadini milanesi ciò che nel passato avevano contribuito a realizzare.
Ma a Milano, più che altrove, la debolezza dei socialisti ha inciso sulla debolezza di tutta la sinistra e qui più che altrove il centrosinistra, senza un colpo d’ala, sembra destinato ad un ruolo marginale e di opposizione.
Bisogna reagire, nulla è impossibile, dobbiamo tutti insieme costruire le condizioni affinché una giunta laica e riformista possa diventare realtà per le elezioni amministrative del 2006.

Conclusioni
La prossima settimana saremo a Genova al Congresso nazionale del partito, che, come si è capito anche da questa relazione, non sarà solo un Congresso celebrativo.
In gioco ci sono le sorti della questione socialista e del nostro ruolo per il rafforzamento di un’area politica, ideale e culturale che è tutto fuorché morta.
Nenni ci ha insegnato a non arrendersi mai e noi nel limite del possibile vorremmo seguire il suo insegnamento.
In gioco ci sono le nostre proposte perché la sinistra e il centrosinistra possano superare le difficoltà e lasciare alle spalle quegli errori che sono alla base del risultato elettorale dello scorso maggio.
Porteremo a Genova i risultati e le proposte che scaturiranno dal nostro Congresso e da questo dibattito. Porteremo a Genova una piattaforma chiara e un nostro documento.
Per questo chiediamo al partito, ai nostri militanti come ai nostri dirigenti, più coraggio, più costanza, più determinazione affinché anche da un piccolo partito come il nostro possa nascere un grande progetto, nuovo, NEW, come dice lo slogan di questo congresso.



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