30 guigno 2006 - Documento di Biagio De Giovanni sulla crisi e sulle prospettive della Rosa nel Pugno

30 giugno 2006

Ai compagni della segreteria della Rosa nel Pugno

1. Il paradosso che sta attraversando la Rosa nel Pugno si può esprimere così: gravi difficoltà complessive e incomprensioni interne nel portare avanti il progetto politico che la ha ispirata; potenzialità effettive di questo progetto e sua necessità nel quadro del dibattito italiano: due elementi che contrastano fra loro e che fanno “paradosso”. Perché, dunque? Come lavorare per vincere il suo aspetto distruttivo?

2. Del paradosso indicato si possono elencare diverse ragioni, fra le quali vanno privilegiate le seguenti: delusione per un risultato elettorale politico piuttosto modesto che ha fatto nascere scetticismi e ha dato più forza a chi del progetto non è mai stato veramente convinto; difficoltà obbiettiva per mettere insieme le diverse anime della “Rosa” che scaturiscono da storie diverse e hanno trovato raccordi talvolta urgenti e provvisori ma anche fragili, spesso; pressione esterna di molte forze (dai ds a componenti socialiste ostili al progetto) che spingono a portare (meccanicamente, direi) pezzi della “Rosa” nell’operazione “partito democratico” e vedono dunque come un gran rischio il rafforzamento del progetto che la concerne; debolezze tutte interne a forze che pur si sono finora impegnate con lealtà nel progetto politico, ma che stentano a convincersene veramente, e non mostrano piglio e capacità di decisione politica che può mettere a rischio qualche posizione tranquilla e acquisita.

3. Il sostanziale silenzio della “Rosa” in questi ultimi tempi, scontando naturalmente molti elementi che scaturiscono obbiettivamente dalla situazione (formazione del governo, elezioni amministrative, referendum etc.) è di estrema gravità, e qui intendiamo lanciare un grido di allarme sulla situazione di stallo e di incertezza che si comunica anche all’esterno e che crea stati di sfiducia all’interno. Abbiamo perso del tempo prezioso, ed è responsabilità di tutto il gruppo dirigente evitare che questo tempo perduto si traduca definitivamente in stanchezza, sfiducia, astenia, pigrizia, fatalistica convinzione che il momento magico è trascorso. Non ci vuol molto nelle fasi aurorali di una iniziativa politica, e tante recenti manifestazioni di “pensiero”, e tanti spocchiosi “l’avevo detto io” lo dimostrano. E’ necessario dunque darsi un calendario politico, e rispettarlo. E’ necessario immaginare che da un documento-base scaturisca un momento costituente all’inizio dell’autunno che si ponga per obbiettivo di “fare” il partito, di eleggere il suo gruppo dirigente, di lanciare un messaggio forte e definito al paese per smuovere le coscienze e tornare a cogliere l’interesse e la capacità di aggregazione dell’inizio.

4. Ma proprio da questo compito che ci si vuol dare, e da una diagnosi di almeno parziale inversione di tendenza rispetto alla forza del momento originario, si deve approfondire, almeno per un momento, il senso della difficoltà in cui sentiamo di stare. E’ convinzione documentata (impressionanti certe differenze fra risultato politico e amministrativo, a Napoli per esempio) , per muovere da un dato obbiettivo, che il risultato elettorale relativamente modesto sia il prodotto di un fenomeno di questo tipo: afflusso di voti nuovi di assai diversa provenienza, e diaspora e perplessità in zone consistenti dell’elettorato socialista e radicale che non sempre ha compreso il senso e la direzione del progetto politico, alcuni socialisti immaginando che si mandava in soffitta l’unità socialista e ci si piegava alla politica e all’antropologia radicale, e alcuni radicali sia preoccupati di elettoralismi locali sia, forse, perplessi su dichiarazioni di “prodismo” ortodosso che non hanno giovato all’insieme del progetto, fermo restando, ben s’intende, la giustezza della scelta essenziale di schieramento politico. Insomma, radicali contrari a una impressione di “normalizzazione” della loro esperienza politica. E bisogna fermarsi, infine, su un ultimo elemento: l’idea generosa di “teste di lista” radicali dove più forte era l’elettorato socialista e viceversa, si è dimostrata, appunto, un’idea troppo generosa rispetto allo stato delle cose reali che va anche compreso per quel che è, e che infine ha anche delle ragioni dalla sua parte: non veder completamente sradicato, oltre gli stessi effetti perversi della legge elettorale, quel minimo rapporto fra eletti e territorio che è in quanto tale elemento democratico.

5. Mi sono fermato su dati appartenenti ormai, temporalmente, al passato, per la semplice ragione che la maggior parte di essi ancora pesa sul presente, e pone compiti di analisi e di prognosi. Vediamo meglio. Che si sia dato un afflusso di voti e sensibilità nuove, mai schierate né con i radicali né con i socialisti (che qualcuno vuol rinchiudere, ma forse non conduce lontano, in una terza componente), e una diaspora almeno parziale di quelle “originarie”, pone problemi di rilevante portata che toccano la difficoltà di giungere a una sintesi, non di frigida mediazione fra “anime” e sensibilità e storie diverse e talvolta contrastanti. Ma il compito è proprio raggiungere quella sintesi, la quale, come insegna la filosofia moderna da Kant in poi (qualche volta la filosofia può essere utile alla politica, almeno al momento della sua voglia di riflessione!), o è all’inizio o non è. Che ci debba essere anche un faticoso lavoro di raccordo, molto empirico e molto capace di umani (troppo umani, talvolta) compromessi, è certo necessario. Ma quando si dice che la sintesi o è all’inizio o non sarà mai dopo, si vuol dare valore decisivo all’idea centrale, al progetto accomunante, alla sua capacità di costituire, appunto, sintesi originaria di esperienze che provengono da punti diversi e talvolta lontani o addirittura conflittuali. La sintesi originaria deve esser tale da comprendere tutte le diverse esperienze, e riportarle dentro la politica. O è questa sintesi originaria ad avere capacità accomunante, o essa non verrà mai raggiunta dopo, tanto meno attraverso l’opera di mediazione affidata alla “componente” più esterna e dunque meno “compromessa” con le due storie che hanno trovato essenzialmente le ragioni di una nuova convergenza. Che ci sia stato un afflusso di energie fresche e “nuove” che devono far sentire la loro voce, non è cosa da poco, ma ciò, se può dimostrare la forza del principio fondativo della “Rosa”, la sua almeno iniziale capacità aggregante, non può in nessun modo costituire il luogo dell’unione, il quale deve misurarsi con la forza originaria e unitaria del progetto e soprattutto con le forze storiche che vi hanno dato vita. E’ su questo, dunque, che bisogna tornare a riflettere e a decidere, con uno spirito nuovo anche rispetto a quello usato nel passato (penso al saggio firmato con Luciano Pellicani sull’ultimo numero di Mondoperaio che rimane valido, secondo me, nella ricerca delle essenziali ragioni ideali e politiche della “Rosa”). Oggi, dobbiamo misurarci con le nuove difficoltà indicate, non ignorarle, non sottovalutarle.

6. Torniamo sul paradosso proposto all’inizio: difficoltà, ma necessità del progetto della “Rosa”. Perché necessità? Voglio ricavare questa necessità -che non avendo alcun carattere (come dire?) ontologico, può rapidamente esaurire la propria forza- anzitutto da concrete ragioni attinenti alla congiuntura politica italiana. Mi limito a individuare ed elencare temi.

7. Uno dei grandi problemi del riformismo italiano è stata la fine catastrofica del partito socialista, la diaspora che ha colpito i reduci di quella crisi, lo sforzo impietoso di gruppi e partiti esterni a quella storia, dai ds a Forza Italia, di raccoglierne l’eredità elettorale. La questione che si apre con la “Rosa” si può formulare così: se essa è in grado di rispondere positivamente a questa drammatica questione storica che ha toccato la sostanza della tradizione socialista, e le forme essenziali della sua cultura politica. Pongo questo problema come primo, non solo per le evidenti ragioni ora indicate, ma perchè è anzitutto nell’area socialista che si sono alzate voci assai dubbiose sul progetto della “Rosa”, voci che hanno immaginato una forma di “normalizzazione” della crisi socialista attraverso la forma dell’unità socialista. La carenza di voti socialisti affluiti alla “Rosa” sta a mostrare che in quell’area l’incertezza è ancora grande, il senso della prospettiva incerto, e si devono quindi comprendere le ragioni di questo persistente disagio. Con i compagni della diaspora il dialogo va dunque mantenuto aperto, ma da una posizione di intelligente fermezza che deve saper esprimere le ragioni di una convinzione diversa. Il progetto dell’unità socialista è intrinsecamente subalterno al predominio diessino, e su questo deve essere assai netta la persuasione di quella parte di socialisti che ha scelto la collocazione nella “Rosa”. Non si riesce a sfuggire all’impressione (che il tentativo di normalizzazione Bobo Craxi mostra a tutta evidenza) che il massimo risultato ottenibile in quella prospettiva sia di andare a formare l’ultimo anello di una aggregazione per ora, per di più, dai contorni assai indefiniti e ambigui, ma saldamente ancorata al predominio diessino che non si sa più da che salsa sia condito. Ma essere l’ultimo anello di un partito dai contorni sempre meno definiti, può essere scelto solo da chi immagina che, con la fine del vecchio partito, si sia dispersa l’autonomia e la capacità riflessiva di una cultura politica, la sua forza propositiva, la sua rappresentazione della modernità. Quella scelta sembra nascere da una rinuncia, da un fondamentale scetticismo sulla situazione esistente, per cui il sentirsi vicini e partecipi di una aggregazione consistente sembra distogliere dal senso di una radicale depressione politica. Non è il caso di infierire, in vista di un dialogo che deve riaprisi, ma è sintomatica, certo, l’incongruità di passaggi da sinistra a destra e poi da destra a sinistra che ha contraddistinto certe posizioni. La “Rosa” invita la diaspora socialista a una discussione intensa, nel paese, per ricollocare, sotto più larghe bandiere, l’autonomia di un progetto politico e ideale. La “Rosa” è il primo tentativo consistente, non più di mera resistenza, per ricollocare nella storia d’Italia le coordinate di una cultura politica distrutta da una crisi catastrofica che pesa ancora sul destino del paese.

8. Ma limiteremmo il nostro discorso a un solo aspetto, se non ci chiedessimo, con più stringenti domande, le ragioni del persistere di una diaspora, e di una difficoltà che non sembra attenuarsi e che torna continuamente a mettere in discussione il senso dell’intero progetto. Come affrontare questo tema? C’è una forma diretta per aprire la discussione: la difficoltà nel rapporto di molti socialisti con l’altra componente principale del progetto, quella dei radicali italiani. A ben guardare, è questo il problema che ha dominato le critiche di quei socialisti che non si riconoscono nella “Rosa”. Ha dominato, in breve, il tema di una pretesa subalternità alle tematiche dei radicali, al loro stile politico, e si potrebbe dire, in generale, alla loro visione del mondo. Non è stato sufficiente quello che si è provato a dire e a fare, nei mesi immediatamente successivi alla nascita del progetto (e qui richiamo di nuovo il saggio elaborato con Luciano Pellicani) per ricordare radici comuni, nomi della storia italiana che hanno sperimentato la politica come in una linea di confine tra le due tradizioni, richiamare il carattere variegato della cultura dei socialisti italiani, l’intreccio originario fra diritti di libertà e diritti sociali che ha contraddistinto certe zone della sua storia. Non è stato sufficiente ricordare battaglie comuni combattute in nome di quell’intreccio, in un mondo dove sempre meno la libertà è mero arbitrio individuale, e sempre meno la socialità è il mero riflesso della dura consistenza di classi sociali organizzate. Come sempre, la memoria storica e il richiamo a radici (peraltro problematicamente intrecciate e talvolta anche, inutile negarlo, aspramente conflittuali) cede (magari di schianto o lentamente corrosa) dinanzi alla diversità delle comunità umane che si disegnano entro linee che vengono da lontano, e alla compatta consistenza di gruppi dirigenti anche localmente diffusi che difendono un modo loro di essere, un modo di essere del loro rapporto con l’elettorato, uno stile politico, un rapporto con le logiche di potere e di governo. Non esemplifico, per evidenti ragioni di sintesi, ma non sarebbe difficile farlo anche con riferimento a recenti esperienze amministrative, e di governo locale, pur se (credo si possa dire) quella esperienza è andata meno peggio di come poteva andare. Dunque, le differenze e le distanze vanno comprese, non negate o esorcizzate. Si poteva negarle nell’emergenza di una campagna elettorale, non più adesso. Ed è peraltro comprensibile che gli “stili politici” ( le antropologie) che si sono consolidati nei moltissimi anni di lontananza reciproca tendono per loro natura a contrapporsi, in presenza soprattutto della forza di uno “stile radicale” che fa della politica uno stile di vita, facendo permanentemente coincidere politica e vita, con un atto sintetico che disegna un altro modo di intendere la “professionalità” politica. Queste due attitudini diverse non possono essere schiacciate l’una sull’altra, né mediate in un terzo tipo. Devono poter coesistere, trovare le ragioni per farlo e su questo punto farò qualche riflessione più avanti. Queste ragioni si potranno trovare, se nessune delle due “attitudini” venga schiacciata sulla sua immagine estrema (su questo punto, metterei qualche accento diverso da quello posto da Lanfranco Turci nel suo intervento sul “Riformista” del 24 giugno, pur da discutere con molta attenzione) e magari negativa, giacchè il problema non è, lo dicevo, sfrondare, potare in cerca di mediazioni e dimagrimenti. Ambedue le attitudini descritte hanno dalla loro parte delle ragioni consolidate. Se irrigidite nel contrasto fra movimentismo radicale e istituzionalismo socialista (eseguendo la sentenza di morte formulata tempo fa da Dino Cofrancesco), non verrà fuori niente di buono. Ma nemmeno si deve immaginare che basti che ciascuno smussi qualche angolo paticolarmente acuto della propria fisionomia, con il rischio di non esser più né carne nè pesce. Ovviamente, non esiste una soluzione generale, una chiave di risposta tranquillizzante, una formuletta per passar tranquilli l’estate, salvo, con i primi freddi, a ritrovarsi al punto di partenza. Prendere coscienza della dimensione politica del problema, facendolo uscire dalle secche polemiche in cui si trova, è certo il primo passo. Ma le vie da percorrere sono, sostanzialmente, due, oltre naturalmente al mescolamento pratico di esperienze e all’arricchimento della comunicazione, il che potrà avvenire se si mette mano alla costituzione effettiva di un partito, quando, insomma, ci saranno sezioni “Rosa nel Pugno”.

9. La prima via da percorrere riguarda le ragioni impellenti di una nuova sintesi –di quella sintesi originaria da cui sono partito- e su queste intendo riflettere fra un momento. La seconda via da percorrere riguarda le iniziative politiche da mettere in campo, la politica effettiva da perseguire, quella che non c’è stata, in questi ultimi tempi, quella che non si lascia ancora individuare pur giocando noi un ruolo di qualche rilievo nel governo e nella società. Quest’ultima via è responsabilità specifica del gruppo dirigente, di cui spesso si avvertono assenze e silenzi. E qui mi sarà permesso un richiamo critico che, rivolto a politici di professione (nel senso più nobile di Max Weber), può apparire un po’saccente: attenzione ai tempi, alle occasioni che vanno perdute quando non si sta in accordo con i tempi, occasioni che non tornano più. E’ un vecchio monito di Machiavelli che va sempre ascoltato. Secondo me, abbiamo già perduto più di una volta il raccordo con i tempi, come se la “Rosa” stesse in una posizione di stallo, con l’impressione, qualche volta, che ci si studi, punzecchiandosi a vicenda. E’ una via perdente, per tutti, salvo per chi voglia usare il prolungamento dello stallo per dichiarare che si è fatto di tutto, ma poi le cose sono andate male……e dunque ognuno se ne torni nella casa di origine. Io, in questa ipotesi, resterei senza casa. E così, credo, molti altri.

10. La prima via, dunque. Anche qui, vorrei dare per scontata la lettura del vecchio documento elaborato con Pellicani, per concentrare l’attenzione anzitutto su alcuni elementi di congiuntura, e tornare poi su qualche tratto generale del problema. Dicevo, all’inizio, del paradosso: difficoltà e insieme necessità della “Rosa”. Le ragioni di questa necessità sono chiare alla luce della congiuntura. Sullo sfondo, il tema della costituzione del partito democratico. Comunque si giudichi la potenzialità di questo processo, esso fa da sottofondo rumoroso di tutto l’orizzonte politico a sinistra, con intenzioni, di volta in volta dichiarate o solo accennate, di ricollocazioni, diaspore, nuove aggregazioni etc. Esso sta, comunque, a indicare che le attuali aggregazioni partitiche non sono più sufficienti a disegnare i confini reciproci e le caratteristiche del sistema politico, nel tentativo di sancire definitivamente la conclusione di un‘epoca – la fine delle ideologie novecentesche, come si dice- e l’avvio di una nuova. Noi abbiamo manifestato, in relazione al costituendo partito, una critica essenziale che può esprimersi così: insofferenza verso un tentativo che sembra rinnovare, in condizioni completamente mutate e dunque anche con nuovi significati, il vecchio compromesso storico fra post-cattolici e post-comunisti. Credo che (con la buona pace di Galli della Loggia, che dichiara finito il cattocomunismo all’italiana: tornerò su questo tema) il senso profondo di questa critica vada nella direzione giusta. Ebbene, per andare rapidamente al nucleo centrale del problema, la “Rosa” deve accelerare (e non rallentare) la propria costituzione, diventare un soggetto politico capace di rivendicare una propria consistente autonomia, movendo dalla quale essa può decidere se e come partecipare al dibattito sul costituendo partito. Se essa fosse colta, da quel dibattito, nell’attuale stato di debolezza e sofferenza, le diaspore interne sarebbero accelerate, l’illusione dell’unità socialista da fare dentro il nuovo partito sarebbe incoraggiata, tutto il disegno della “Rosa” conoscerebbe, forse, una crisi senza precedenti. Anche qui, essenzialità dei tempi politici. E anche, credo, realismo di questi tempi: la “Rosa” è assai più avanti del partito democratico, che per ora è un confuso e rissoso aggregato di opposti (noi, forse, un po’ meno: è così? Mi sbaglio?), e dovrebbe essere nelle condizioni di accelerare il proprio processo politico di unità, darsi l’autunno come scadenza per il proprio processo costituente. Bisogna dare, agli interlocutori del partito democratico, un segnale definitivo: sarà la “Rosa” a partecipare, se ce ne saranno le condizioni, a quel più largo confronto, a influenzarne possibilmente le linee di sviluppo, e a mantenere la sua piena autonomia, organizzativa e ideale, se quel confronto non produrrà (e sarà molto difficile) ancor più larghe aggregazioni. Bisogna mostrare di saper combattere una tentazione magari inconfessata e inconfessabile di alcuni: utilizzare il fatto che in qualche modo parte il progetto del partito democratico per andare in ordine sparso al confronto, come se quello fosse il sicuro approdo da perseguire, mentre è essenziale considerare –ecco il punto- il rafforzamento della “Rosa” ineludibile condizione per partecipare a un più largo confronto con qualche possibilità di influenzarne il percorso. Altrimenti, il risultato sarà subalternità, subalternità, o, per qualcuno, per reazione, mero rigetto. E il risultato sarà, con ogni probabilità, il rafforzamento del carattere oligarchico del sistema politico, l’omologazione delle tensioni costruttive in un contenitore unico dalle inevitabili tentazioni oligarchiche, già tutte presenti in un progetto che sembra voler mettere insieme gruppi dirigenti consolidati dell’area Margherita e dell’area Ds.

11. Ma qualcuno dice: che temete? Il cattocomunismo è finito, le istanze laiche e liberali, individualiste e magari libertarie sono già ampiamente rappresentate dentro quella sinistra una volta, insieme, bacchettona ed “eroica”, che si appoggiava ai valori della tradizione comunista. Si è, insomma, realizzata la previsione di Pasolini sui mutamenti della società italiana e la sinistra si va adeguando.Considero questa diagnosi sostanzialmente sbagliata, o, come spesso capita a Galli della Loggia, estremizzazione di una tesi che ha solo qualche lato di fondatezza, che non è certo quella della traduzione della sociologia in politica. La realtà pratica della classe politica italiana è diversa. In essa si annidano ancora tutti i residui di due culture politiche alla ricerca di un punto di mediazione che non si sa precisamente quale sarà, ma che rischia di unire gli aspetti più stantii delle culture di partenza, una volta sostenute da finalità strategiche che le inserivano, bene o male, nel corso vivo della storia. Oggi, il meglio che esse sono in grado di produrre sembra essere il “prodismo”, ovvero una modesta ideologia di compromessi con matrice dossettiana, segno di una inadeguatezza tutta italiana a rispondere ai grandi temi della politica contemporanea. La mediazione che si proverà a raggiungere, nel partito democratico, finirà, assai probabilmente, con smussare gli angoli, ridurre la chiarezza delle scelte, con il creare un territorio ambiguo sia per la collocazione mondiale dell’Italia, sia per le riforme necessarie allo Stato sociale, sia per l’intreccio fra Stato sociale e diritti di libertà, vero tema cruciale della storia d’Italia e d’Europa. Può anche darsi che io sia pessimista, che non sarà così, che il confronto sul partito democratico sarà più ricco e compiuto, ma spero di non sopravvalutare la “Rosa” se penso che ciò avverrà anche se ci sarà una pressione forte di uomini, di gruppi, di idee che dovrà provenire pure da noi, per affermare, sui temi indicati, tesi più limpide per una lettura adeguata della modernità. Qui, dirò assai poco sul merito di questi temi, dato il senso di questa “Lettera” che vuol esser soprattutto un grido di allarme che proviene da chi, per un insieme di ragioni, sta, più che partecipando, assistendo alle difficoltà del nostro dibattito interno. Ma se solo percorriamo con la memoria la nostra impostazione in campagna elettorale e nel dibattito che si avviò allora, ritroviamo molti ingredienti necessari per andare nella direzione ora indicata. Un riequilibrio fra i temi? E’ una delle richieste che proviene soprattutto dai socialisti della “Rosa”, per qualcuno dei quali ci sarebbe stata una sorta di prevaricazione dei temi radicali su tutti gli altri. Anche personaggi autorevoli come Ottaviano Del Turco hanno svolto osservazioni di questo tipo. Non entro su questo tema scivoloso se non per qualche veloce osservazione: la prima, richiama il tema degli stili politici sui cui ho già detto qualcosa. Ogni tema può esser trattato con un determinato stile. La battaglia sull’amnistia o sulla legalità può diventare ”sciopero della fame” o coinvolgere in modo stringente le strutture parlamentari e in generale un ampio dibattito nella società civile. Non credo che le due situazioni si escludano necessariamente e di fatto non sempre è stato così. Anche qui, si tratta di trovare un equilibrio, essendo invece assai importante che si condivida il senso di una lotta, e si escludano parzialità un po’settarie, che non si immagini che uno stile sia “superiore” all’altro, che non si taccia chi lo sceglie o di opportunismo o di estremismo. Bisogna abituarsi a una convivenza, che sarà possibile, ribadisco, se si trova l’intesa sui temi da sollevare, sulle loro connessioni, sulle priorità da mettere in agenda, e poi sarà naturale che uomini provenienti da consolidate storie diverse facciano valere i loro comportamenti che potranno ben restare diversi. L’importante è l’orizzonte sintetico entro il quale questi comportamenti vanno ad incastonarsi. E’ lì, sul progetto e sul suo senso generale, che bisogna trovare l’intesa.

12. Faccio un esempio più complessivo, su cui già mi è capitato di insistere nella relazione che svolsi in Direzione alla fine di aprile. Le prevaricazioni che forme degenerative dello Stato sociale operano sulle libertà civili e in generale sullo Stato di diritto rappresentano un gran tema (che solo la “Rosa” ha la possibilità, nell’orizzonte della sinistra, di sollevare a pieno titolo, per la forza che in essa ha la componente liberale) che può trovare mille specificazioni per lotte concrete: dal mondo del lavoro a quello della giustizia, dall’invadenza delle corporazioni ai temi che riguardano la nuova libertà dei moderni e le loro specificazioni ancorate ai temi della biopolitica. Credo che solo le componenti che stanno nella “Rosa” sono veramente capaci (e veramente legittimate) a portare questi temi nel dibattito pubblico, dalla società alle aule parlamentari. Ma, ripeto, questo testo non vuol avere un significato programmatico. Esempi del tipo di quelli indicati valgono qui solo per rafforzare il convincimento di quanto possa esser decisivo il contributo della “Rosa” al tema del riordinamento politico della sinistra italiana che sembrerebbe andarsi a dividere (così la cosa compare sui giornali e nei commenti) fra quel luogo di confusione che sembra aprirsi con il partito democratico -dove la sinistra storica sembra scomparire, regalando perfino argomenti che possono apparire validi alla posizione della sinistra antagonista- e, appunto, questa medesima sinistra antagonista, che tenderà sempre più a coltivare i propri orticelli e il proprio infantilismo politico che già va producendo danni esiziali all’immagine del governo. Come dubitare, in questo stato di cose, dell’essenzialità della “Rosa”?

13. Ora, dunque, il vero problema non sta nel fatto che i socialisti sono andati a rimorchio dei radicali. Non è vero in punto di fatto, se si pensa a quanto la componente Sdi abbia spinto, nella campagna elettorale, su temi che sono considerati classicamente radicali, con al centro la questione della laicità dello Stato, che si è convenuto, tutti, di considerare al cuore di nuove domande. Tuttavia, ciò che non è vero in punto di fatto, lo diventa attraverso le forme di manipolazione e falsificazione di ciò che avviene, che fa parte dello stile della comunicazione di oggi. Se poi a questa immagine partecipano esponenti – sia pur critici- della stessa “Rosa”, le conseguenze sono pessime. Dunque è pienamente e valido dire: bisogna estendere i campi di intervento, moltiplicare le iniziative politiche e di analisi politica (il Manifesto di Capezzone, che può certo esser discusso in qualche passaggio, mi pare vada con molta efficacia in questa direzione). Ma bisogna che questo ampliamento dello spettro delle analisi e delle proposte –nella direzione di una connessione più forte fra economia, diritti civili e visione strategica sull’Italia: un partito nascente deve rivendicare con gran forza il proprio ruolo nazionale- appaia subito come proposta e iniziativa di tutto il gruppo dirigente della “Rosa”. Altrimenti, tutto ciò che di buono si può dire, si disperde nei mille rivoli di un contenzioso sulle appartenenze e sugli stili politici che condurrà tutti in un vicolo cieco.

14. Così, siamo già nel problema della politica da fare, delle iniziative politiche visibili da prendere. Qui, ribadisco, non dico nulla nel merito: questo è compito del gruppo dirigente impegnato giorno per giorno nella politica attiva: Io mi limito a questioni di metodo, pur sapendo, come diceva Colletti, che il metodo è la scienza dei nullatenenti. Ma in questo caso, forse non è proprio così. Il mio grido di allarme, che si allunga per circa venticinquemila battute, e dunque è grido prolungato e rumoroso, esprime, di questo sono convinto, uno stato di malessere diffusissimo di cui le polemiche di queste settimane sono solo piccolo segno. Non chiudo con appelli. Tutto il mio intervento (che è quello che avrei svolto in segrerteria) è, in sostanza, tale. Ho già abusato troppo della vostra pazienza e vi ringrazio per l’eventuale attenzione.

Biagio de Giovanni

A fine stesura, apprendo le dimissioni di Villetti. La crisi è esplosa, se servirà a una vera discussione, forse è meglio così.



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