30 Giugno 2004. Sintesi del congresso di Italiani Europei:"I progressisti e il futuro delle relazioni transatlantiche"

30 giugno 2004

Il 30 giugno 2004 la Fondazione Italianieuropei ha promosso, in collaborazione con Policy Network, un colloquio tra alcune personalità della sinistra italiana ed europea e un gruppo di intelllettuali progressisti statunitensi e di consiglieri del candidato democratico John F. Kerry.

Vi hanno partecipato: Ronald Asmus (del German Marshall Fund of the United States), Antony Blinken (Direttore dello staff democratico al comitato per gli affari internazionali del Senato), Gregg Craig (Consigliere di politica estera di John Kerry), John Ikenberry (docente di politica internazionale all’università di Princeton), Will Marshall (presidente del Progressive Policy Institute di Washington), Nicole Mlade (analista di politica internazionale del Center for American Progress di Washington), John Podesta (presidente del Center for American Progress), Urban Ahlin (presidente della commissione affari internazionali del parlamento svedese), Giuliano Amato, Matt Browne (direttore di Policy Network), Massimo D’Alema, Patrick Diamond (consigliere del primo ministro britannico), Piero Fassino, Olivier Ferrand (direttore di A gauche en Europe), Antonio Guterres (presidente dell’Internazionale socialista), Eric Joyce (sottosegretario agli affari esteri britannico), Roger Liddle (consigliere di politica internazionale del primo ministro britannico), Pierre Moscovici (segretario internazionale dei socialisti francesi), Andrea Romano, Francesco Rutelli e Dominique Strauss-Kahn (presidente di A gauche en Europe).

L’obiettivo del seminario è stato l’avvio di una riflessione comune ai progressisti di entrambe le sponde dell’Atlantico sulle conseguenze che una vittoria democratica alle elezioni di novembre potrebbe avere sulle relazioni tra Europa e Stati Uniti. Quello che segue è un breve documento di sintesi della discussione predisposto dalla Fondazione Italianieuropei.


Gli anni dell’amministrazione Bush hanno visto consumarsi un autentico falò degli strumenti istituzionali e politici del multilateralismo ereditati dagli anni Novanta. Alleanze e trattati sono stati logorati o travolti dall’approccio unilateralistico scelto dalla Casa Bianca, dalla sua profonda sfiducia verso la possibilità di affrontare le nuove emergenze attraverso la costruzione di ampie reti di consenso internazionali. Lo stesso capitale di solidarietà raccolto dagli Stati Uniti all’indomani dell’11 settembre, e tradottosi poi nella disponibilità di un ampio numero di paesi a co-gestire la missione in Afghanistan, è stato dilapidato dalle scelte compiute dall’amministrazione Bush. Oggi l’impressione prevalente è che non solo la comunità internazionale sia molto più divisa di tre anni fa, ma che la stessa sicurezza degli Stati Uniti sia indebolita da una minaccia terroristica che sembra essersi accentuata anche in conseguenza dell’unilateralismo neoconservatore. Ritrovare le forme di un multilateralismo efficace, capace di impegnare Stati Uniti ed Europa nella ricerca comune di soluzioni alla nuova agenda internazionale, costituisce la priorità politica dei progressisti di entrambe le sponde dell’Atlantico. In questo senso occorre “tornare al 12 settembre”, ad una condizione in cui la comunità internazionale sappia assumersi collettivamente la responsabilità di fronteggiare la minaccia terroristica e le emergenze internazionali che a questa sono connesse.

Da parte dei progressisti statunitensi, l’agenda di politica internazionale che sarebbe perseguita dopo una vittoria elettorale è definita dagli obiettivi della sconfitta del terrorismo, del contenimento del fondamentalismo islamico, della ricerca di una effettiva soluzione al conflitto mediorientale, della stabilizzazione politica e sociale in Afghanistan, della gestione delle minacce connesse alla proliferazione nucleare. Obiettivi che i democratici intendono realizzare facendo ricorso a strumenti radicalmente diversi da quelli utilizzati dall’amministrazione repubblicana. E innanzitutto attraverso la ricostruzione degli spazi del multilateralismo indeboliti dall’amministrazione Bush. Ma se un semplice ritorno al passato appare velleitario e irrealistico, dinanzi ad un’agenda internazionale dominata da minacce inedite sino a pochi anni fa, è indispensabile guardare con realismo agli obiettivi che Europa e Stati Uniti possono porsi su questa strada. Da parte degli Stati Uniti un’amministrazione democratica si produrrebbe in un nuovo impegno verso l’integrazione comunitaria e verso l’ulteriore ampliamento dello spazio istituzionale euroatlantico. Così come sarebbe necessario porsi congiuntamente – tra Europa e Stati Uniti – l’obiettivo di rendere efficaci e vincolanti quelle regole e quelle istituzioni che la comunità internazionale ha ereditato dall’era del bipolarismo ma che non hanno retto alla fine della guerra fredda. Al di là di una visione talvolta formalistica della legittimità dell’intervento internazionale, la comunità euroatlantica deve assumersi la responsabilità di dotare le istituzioni sovranazionali di meccanismi efficaci per la condivisione delle decisioni più impegnative e per la loro più efficace realizzazione.

È evidente, inoltre, che nel caso di una vittoria democratica alle elezioni di novembre l’Europa si ritroverebbe nella condizione di condividere oneri e responsabilità in misura assai maggiore di quanto è accaduto nel recente passato. In questo senso il rischio di una chiusura isolazionistica degli Stati Uniti sarebbe più accentuato nel caso di una riconferma repubblicana, laddove la debacle già evidente dell’unilateralismo potrebbe indurre Washington a ritrarsi dai fronti di crisi secondo una delle tradizioni di politica estera presenti nel bagaglio del conservatorismo americano. È molto probabile, al contrario, che un presidente democratico chieda all’Europa molto di più di quanto non ha fatto Bush. Certamente nella prospettiva di uno scambio tra eguali e di una condivisione dei processi decisionali, ma è prevedibile che le responsabilità in capo all’Europa sarebbero destinate a crescere. L’interrogativo a cui i progressisti europei devono rispondere – anche nei confronti delle proprie opinioni pubbliche – è come rimediare ad uno dei guasti peggiori indotti dall’unilateralismo statunitense: la tentazione di ritrarsi dalla gestione delle emergenze, nella convinzione che il disimpegno possa essere una garanzia di sicurezza.

Da parte delle forze progressiste europee esiste la piena consapevolezza che le nuove minacce comportino una piena assunzione di responsabilità anche da parte dell’Europa. La critica all’unilateralismo dell’amministrazione Bush non può esaurire, di per sé, il compito di individuare una nuova agenda multilaterale che passi anche per un ruolo europeo più attivo da svolgere al di fuori dei confini dell’Unione. Così come è necessario prendere atto che il progetto dell’unilateralismo neoconservatore si è potuto giovare anche delle debolezze mostrate da una certa tendenza europea a difendere lo status quo, piuttosto che a individuare nuove e più efficaci regole per il governo della comunità internazionale Ma sarà fondamentale, nel caso di una vittoria democratica, inquadrare gli obiettivi della nuova politica estera statunitense nel quadro più ampio di un progetto globale che sia condiviso anche dall’Europa. Un progetto che guardi anche ad un’agenda più estesa di quella rappresentata dalla lotta al terrorismo, nella quale trovino posto la lotta contro le grandi sofferenze sociali che affliggono grandi parti del pianeta e la ricerca di nuovi strumenti politici e istituzionali per la gestione degli squilibri indotti dalla globalizzazione, così come l’obiettivo del contenimento del fondamentalismo non potrà essere disgiunto da uno sforzo comune per indurre le parti del conflitto mediorientale ad una soluzione stabile e definitiva. La solidarietà tra le democrazie occidentali non può sostituire la definizione di un nuovo equilibrio politico e istituzionale della comunità internazionale. Ma le nostre democrazie possono svolgere un ruolo fondamentale nel promuovere il processo consensuale che dovrà condurre a quel nuovo equilibrio. Un equilibrio che poggi sul rinnovamento delle istituzioni internazionali oggi esistenti – a partire dalle Nazioni Unite e dalla loro ritrovata centralità – e sul rispetto di regole comuni. Quel nuovo equilibrio dovrà poggiare su una relazione transatlantica ricostruita su basi rinnovate di fiducia e consenso, ma che dovrà necessariamente guardare al di là dei confini della comunità transatlantica: puntando a coinvolgere i grandi paesi dell’Asia e dell’Africa. Se la nuova amministrazione statunitense comprenderà l’esigenza di offrire all’Europa la condivisione di un progetto globale su queste linee, sarà molto più difficile che sul nostro continente prevalgano posizioni di diffidenza verso l’appello di Washington a fronteggiare insieme le nuove minacce alla pace e alla sicurezza.

La vittoria di Kerry alle elezioni di novembre potrebbe costituire una formidabile finestra di opportunità per rimettere sui giusti binari le relazioni transatlantiche. Ma sarà una finestra da cogliere tempestivamente, realizzando già nelle prime settimane della nuova amministrazione una successione di passaggi (anche di alto valore simbolico) che rendano pienamente l’idea di un cambio di passo. La riflessione comune tra i progressisti statunitensi e la sinistra europea può svolgere in questo senso una funzione fondamentale. Posti di fronte ad un’agenda largamente comune – che passa anche dalla ridefinizione di un programma di riforme delle nostre economie e delle nostre società che prenda atto delle novità intervenute dalla fine degli anni Novanta – i progressisti euroatlantici possono concordare già prima delle elezioni di novembre una serie di passi comuni. Che potranno essere effettivamente compiuti nel caso in cui si realizzasse a Washington quella svolta largamente auspicata.





Vai all'Archivio