22.06.2001 - ROMA - TESTO INTEGRALE DELL'INTERVENTO DI GIULIANO AMATO AL CONVEGNO L'ULIVO E LE SUE COMPONENTI ORGANIZZATO DA RESET RAGIONI DEL SOCIALISMO E MONDOPERAIO
22 giugno 2001
A che cosa serve una sinistra di fronte ai problemi che la politica deve fronteggiare nel XXI secolo? lo credo che sia questo il punto dal quale partire per trovare una risposta positiva. Se guardiamo al dibattito sulla globalizzazione, possiamo individuare un problema di fondo vero, cioè la sensazione che vi sono dei fatti importantissimi, che ricadono sulla vita degli uomini e delle donne, fatti che accadono ad un livello irraggiungibile, dalla gestione dei quali i cittadini comuni si sentono estranei, esclusi. Il problema climatico, ad esempio, non è più una questione che riguarda soltanto l’ambientalista profetico, ma è un problema di tutti di cui ciascuno avverte gli effetti potenzialmente negativi.
Allo stesso tempo, però, per governarlo e contrastarlo, occorre una politica che non può più essere soltanto locale, di una città o di una regione, né di uno stato: come minimo è necessaria la politica europea. (clima, i cibi transgenici, i flussi di immigrazione, sono tutti problemi che riguardano la vita di ciascuno e la cui gestione sembra necessitare di quello che si chiama governo mondiale e che appare a volte del tutto carente, a volte parziale e partigiano.
Alcune organizzazioni, come le Ngo, si fanno portatrici di una pretesa che sembra assurda ed eppure ha un fondamento. “Noi rappresentiamo più di voi che siete eletti”, dicono agli organi della politica, forti della consapevolezza che la voce dei più non riesce a penetrare nei canali decisionali delle istituzioni, nei quali invece entrano gli interessi cosiddetti forti; le Organizzazioni Non Governative si fanno rappresentative delle genti negli spazi ai quali queste non hanno accesso.
Questo della rappresentatività è un bisogno che la politica delle istituzioni elettive può soddisfare se riesce, da una parte, ad imprimere la sua impronta di governo sui processi che accadono, dall’altra, se riesce a tener conto di milioni di esseri umani che sentono il bisogno di essere coinvolti nella realtà e nelle decisioni che li riguardano ma ne rimangono esclusi.
Da una parte quindi la politica deve riuscire a governare a livelli sovranazionali, e quindi deve essere in grado di dare vita a grandi aggregazioni; dall’altra alla politica si chiede di essere impercepibile contatto, non con la massa, ma con ciascuno dl coloro che aggrega.
Se la nostra epoca ha saputo unificare realtà diverse fino a sollevare problemi di governo sovranazionale, allo stesso tempo ha fatto emergere da società prima compatte, anonime, aggregate in grandi insiemi collettivi, milioni e milioni di persone che pretendono ciascuna di essere partecipe e garantita nei suoi spazi di libertà. Noi viviamo in un mondo dove l’estensione delle libertà, il mutamento delle tecnologie dei processi produttivi che hanno sostituito mansioni esecutive con mansioni di controllo, la diffusione della cultura e dell’istruzione, ci mettono davanti a persone che chiedono e vogliono esistere nel presente, essere libere di scegliere; come ha detto qualcuno non appartenente alla tradizione liberal-socialista ma piuttosto all’eredità comunista, gli individui sentono il bisogno di trasformare le “libertà da” in “libertà di”, cioè non vogliono più essere sottoposti ad angeli custodi per essere liberi, ma scegliere la propria strada verso il soddisfacimento dei bisogni essenziali.
Questo è il mondo con il quale abbiamo a che fare, un mondo nel quale la scorciatoia del populismo rischia di essere motivata perché è la strada più semplice per aggregare ad ampi livelli dando la sensazione di parlare a ciascuno. I leader populisti hanno davanti milioni di persone che non vedono, nascosti in genere dietro la telecamera, e danno la sensazione di parlare a ciascuno; così nasce il successo dei cantanti rock le cui canzoni sono ascoltate da numerosissimi giovani che hanno la sensazione che ogni brano si rivolga a ciascuno di loro; ma se in musica è una splendida cosa, in politica diventa populismo.
Chiediamoci allora se la sinistra serve a governare una società del genere e se ne è capace. La mia risposta è positiva e ritengo che le tradizioni riformiste affidino le potenzialità che la accreditano meglio di altre forze a poter governare questi processi.
Molti critici sostengono che la sinistra è per definizione tagliata fuori da questa situazione perché la sua storia è storia della progettazione del futuro, la sua qualità organizzativa e quella di aggregare nel presente in nome di una promessa millenaria dell’avvenire.
E vero, c’è molto di questo nella storia della sinistra e, se lo si assume come il suo unico assetto, se ne desume che ormai il suo cammino è finito perché quello che oggi deve fare è non promettere futuro, ma concorrere a realizzare il presente, non tenere legati in una disciplina del presente in nome di una liberazione futura, ma consentire e promuovere la realizzazione di libertà presenti, avere a che fare con quei milioni di persone che queste libertà vogliono esercitarle, quindi organizzarli come esseri liberi e non come un gregge da liberare per il futuro.
Non c’è dubbio che molte cose debbano cambiare. È indiscutibile, ad esempio, che oggi noi siamo in difficoltà di fronte ad un mondo del lavoro del quale sappiamo ripetere che non è più nell’era del fordismo, non è più caratterizzato da una organizzazione tayloristica del lavoro, ma non siamo ancora riusciti a capire come rivolgersi al nuovo mondo del lavoro post-fordista e post-taylorista. I lavoratori, professionalizzati ed individualizzati, chiedono di avere spazi di autonomia ed avvertono come autoritario il sistema del lavoro taylorista perché la loro mansione non è più spezzettata ma è affidata al loro cervello, alla loro autorganizzazione. Queste persone ci sono sfuggite, non abbiamo saputo rappresentarle.
Di questa nuova società non siamo stati sufficienti interpreti, tutta la sinistra - nessuno si può chiamare fuori - non ha saputo inserirsi nel cambiamento. Il bisogno di una grande forza politica, allora, è tanto maggiore quanto più siamo consapevoli del fatto che, una volta che abbiamo trovato la :risposta a queste domande, dobbiamo portarla à livelli di governo che vanno al di là del paese, che arrivano come minimo a livello europeo, il che vuol dire aggiornare il nostro patrimonio e adeguano a questo tempo.
Lì grande discrimine tra la destra e la sinistra non è mai stato quello dell’esistenza o meno della libertà, ma quello della libertà dei pochi o dei tanti. La differenza non è mai stata nell’idea che gli esseri umani debbano essere messi in condizioni di scegliere e di realizzarsi, ma nel preoccuparsi o meno del creare i presupposti per coloro che in assenza di queste condizioni sono soggetti al potere altrui, lì vizio della sinistra, tanto socialista che comunista, è di aver pensato e realizzato soluzioni che guardassero più al potere pubblico come modo per tarpare il potere privato che non alla interazione delle libertà, come se noi, per tutelare i diritti di coloro che vogliamo rappresentare, dovessimo apparire come i portatori dei limiti alle libertà, quasi che le libertà fossero un bene di altri.
E questo ci ha fortemente danneggiato. Indiscutibilmente il centrodestra ha giocato verso di noi una carta vincente perché siamo apparsi come quelli che, in un tempo di libertà, si sono preoccupati di porre dei limiti senza essere capaci di far capire che non si trattava di arginare la libertà, ma di limitare il potere: non siamo stati in grado di affermare una cultura che è alla base della tradizione socialdemocratica, secondo cui il limite al potere privato è la libertà, non lo Stato.
È questa un’ipoteca che pesa sulla nostra tradizione dal XX secolo, dalla strada statalista e pubblicista che assunsero i valori e gli impegni del movimento socialista, comunista, riformista in quel secolo. Ma la sostanza delle cose è diversa perché altrimenti dovrebbe esistere soltanto la destra. La parola libertà e tutto ciò che ha dentro di se’, tutti programmi politici che su di essa si possono costruire, possono essere di destra o di sinistra e la differenza è enorme. La libertà di sinistra è quella dei milioni di individui, mentre la libertà di destra è quella che diventa potere di pochi.
In questo noi abbiamo bisogno di una rifondazione, non per allontanarci da ciò che eravamo e da quella che era la nostra missione, ma per esercitarla in un secolo in cui di quella missione c’è ancora bisogno, proprio perché viviamo in un’epoca in cui i rischi dl esclusione sociale sono ingigantiti in misura direttamente proporzionale ai processi di globalizzazione, ed in cui quindi il compito primigenio del riformismo, che fu quello di garantire e costruire la coesione sociale attraverso la civilizzazione dei processi economici, è un compito che nel XXI secolo si fa ancora più impellente in un orizzonte che non è più nazionale ma globale.
La differenza tra destra e sinistra sta nell’atteggiamento di stomaco che uno ha davanti alla globalizzazione: è di sinistra chi avverte un’angoscia di rischio grave dentro di se’ se non si fa qualcosa; chi è soltanto ottimista verso il mondo che cambia è di destra, perché le tendenze naturali non sono di per se’ necessariamente espansive della libertà. Ma questo non significa sostenere che la soluzione è nello statalizzare il mondo e limitare le libertà. Vogliamo invece espanderle le libertà, creare interazione, ricostruire un tessuto di responsabilità verso se stessi e verso gli altri, vogliamo fidarci degli altri.
Un altro grande discrimine tra la destra e la sinistra è l’essere pessimisti o ottimisti sugli esseri umani. Gramsci, se fosse nato settanta anni dopo, non avrebbe fondato un partito affidato a filosofi destinati a pensare per gli analfabeti, ma avrebbe preso atto che gli analfabeti non ci sono più, e allora forse si sarebbe fidato delle persone e delle loro potenzialità.
lì bisogno che il mondo ha di noi, della sinistra, è quello di non scivolare nella frattura sociale, nella violenza e nel conservatorismo protezionistico.
Siamo attrezzati per giocare questo ruolo, ma è necessaria una riconversione culturale che ci riguardi tutti.
Unire la sinistra è un prerequisito alla soluzione del problema, non è la soluzione. Una forza politica che si presenta frammentata non può riuscire ad avere un impatto efficace su una realtà globalizzata. La sinistra è oggi formata da frammenti politici che hanno il merito di aver preservato una tradizione, la sua storia, il suo significato, ma ora queste storie, tradizioni e significati entrano nel XXI secolo e se vogliono concorrere a risolverne i problemi devono allontanarsi dalle discriminanti del secolo precedente, oppure sono condannate all’inutilità.
Non si tratta dl sradicare le tradizioni dei partiti ché fanno parte della sinistra, ma di ripulire sottobosco che ha aggrovigliato i loro rapporti reciproci, perché nel futuro quel sottobosco non ha più rilevanza.
Una grande sinistra non è fatta di teste donate ma di teste che riconoscono una missione comune, una massa critica minima necessaria ad avere un impatto sulla politica e che sono disposte a sedare e a comporre le loro differenze all’interno di un unico contenitore politico.
La molteplicità è un aspetto essenziale all’interno della coalizione di sinistra e della sua tradizione che non è fatta soltanto di valori e fini, ma anche di realtà organizzate essenziali per costituire una rete tra gli esseri umani senza abbracciare la scorciatoia del populismo. Sindacato, cooperazione e movimenti associativi sono un patrimonio vivissimo che da decenni costituisce una parte della sinistra, una parte che va tenuta in vita; coinvolta
Un altro motivo che mi fa rispondere in maniera affermativa alla domanda sulla nostra utilità, e sulla nostra necessità, nel mondo contemporaneo è rappresentato dal fatto che è socialista l’Europa di sinistra o di centrosinistra: milioni di persone votano per partiti socialisti ed esiste un partito socialista europeo che rappresenta questa larga maggioranza di cittadini. Se quindi la politica serve perché ci aiuta ad avere peso in Europa, più che nell’arena nazionale, un centrosinistra italiano che voglia avere consistenza europea deve passare attraverso il cordone ombelicale che c’è tra i partiti della sinistra e la grande famiglia del centrosinistra europeo, la famiglia cioè dei partiti socialisti.
Recentemente sono stati pubblicati editoriali che dicevano che chi si propone di ricostruire una forza legata al socialismo, si propone una cosa vecchia. Ma i socialisti hanno fatto il trattato di Schengen per consentire a ciascuno di muoversi liberamente in Europa, la. modernizzazione europea sta avvenendo ad opera di partiti socialisti, la maggioranza dei cittadini europei si riconosce nei partiti socialisti; questi avranno pure qualcosa di vecchio, ma non spuntano dalla polvere dei libri di storia, bensì dalla politica di oggi e di domani.
A questo punto però si pone un problema con due dimensioni, una italiana l’altra europea, che coinvolge quei rappresentanti del centro dell’Ulivo i quali affermano: “lo non voglio morire socialista”.
Da un punto di vista che riguarda l’Europa, il Partito socialista europeo deve darsi una piattaforma ed una fisionomia che siano tali da accogliere senza stridore e tradizioni del riformismo democratico e popolare che noi abbiamo nella nostra coalizione.
Per quanto riguarda l’Italia, dobbiamo essere in grado di vivere questo rinvigorimento della sinistra come parte di un processo di integrazione ed di interazione con altre visioni riformiste che fanno parte dell’Ulivo e che sono storia e potenziale non minore al nostro. Non dobbiamo avere atteggiamenti preclusivi o. come si diceva una volta, egemoni. perché la storia del riformismo italiano è storia che mette insieme, collega. allea ed a volte intreccia tre filoni fondamentali: il filone socialista, in tutte le sue famiglie, I filone laico-democratico ed il filone cattolico-popolare.
Sono tre storie che fanno parte di una stessa storia: ciascuna ha avuto maggiore o minore spazio, ha avuto maggiori o minori devianze, ma poiché sono convinto che la storia debba assumersi nel futuro, se questa storia ha una sostanza, concorre alla realizzazione del futuro. La confusione, la mescolanza, l’unione, dei quattro partiti che formano l’Ulivo è una pregiudiziale per far politica e per compiere passi ulteriori verso una condizione europea.
lo ho provato a promuovere un processo di comitati nei quali si uniscano tra di loro giovani generazioni di dirigenti di partiti della sinistra e altre persone che sono interessate a questo progetto pur non facendo parte dei tradizionali partiti. I comitati dovrebbero funzionare da scuola di integrazione reciproca, da lobby per un processo unificante creandone le condizioni affinché, al di là del congresso dei Ds, e non all’interno di esso, si possa procedere verso
questo risultato che è una prima tappa per affrontare meglio le questioni che riguardano l’Ulivo nel suo insieme..
Affinché questo processo - che mi pare sia apprezzato laddove l’ho visto mettersi in moto vada avanti, il congresso dei Democratici di Sinistra non dovrebbe essere “contro" qualcuno, ma dovrebbe avanzare una prospettiva, in modo tale da non rappresentare un regolamento di conti tra persone ma la presa d’atto di una situazione politica.
La seconda caratteristica che dovrebbe avere il congresso è quella di chiudersi con una soluzione-ponte e non con una soluzione conclusiva. Se all’interno dei Ds si pensa che per una grande sinistra in un Ulivo più forte, più coordinabile e più unificabile, è necessario allargarsi ed unirsi a coloro che sono in parte diversi ma per il futuro partecipino allo stesso tipo di progetto, allora non si deve giungere alla definizione di un partito nel quale gli altri possano essere soltanto cooptati. Sento mille persone che dicono: basta con la politica verticistica, che rivendicano la realtà delle persone, degli individui, che non vogliono più essere considerate come greggi da guidare verso un futuro lontano.
Questo progetto non ha intenzioni eversive contro nessuno, ma vuole affermare una aspirazione verso un’integrazione della sinistra riformista, definirne la piattaforma, abituarsi a lavorare insieme ad altri ed indicare una strada.
È chiaro che io definisco il mio impegno politico in funzione del successo di questa operazione, perché, se non ha successo, l’alternativa è rappresentata soltanto dalla possibilità di essere cooptati in una delle botteghe esistenti ed io non sarei interessato a lavorare in questa situazione che così come è non serve a risolvere i problemi del domani. Se invece assume altre caratteristiche, io per primo sono pronto a mantenere e solidificare il mio impegno. Chi lo condivide, in qualunque partito o punto dell’Ulivo militi o lavori, ha tante ragioni per pensarci e per collaborare all’idea.