20 giugno 2006, ed. Ponte – Articolo di Gaetano Arfè su Giorgio Napolitano

20 giugno 2006

Nella storia del socialismo è esistito un “austro-marxismo” che ebbe in Vienna il suo centro e influenzò originalmente gli sviluppi del pensiero socialista europeo. A Napoli Gaetano Macchiaroli, intellettuale comunista di alta qualità e di fine ironia, scoprì l’esistenza del “napoletano-marxismo” che aveva in Giorgio Amendola il suo maestro. Intorno a lui c’erano -ne ricordo solo qualcuno- lo stesso Macchiaroli, inesauribile fondatore di riviste tutte passate alla storia e che andavano dalla politica alla filologia classica, infine alla poesia, Giorgio Napolitano, Gerardo Chiaromonte, Mario Palermo, Pietro Valenza. Io, socialista, fui informalmente cooptato. A farmi tornare in mente quei tempi lontani è stato il libro autobiografico di Giorgio Napolitano che ho letto non soltanto con grande interesse, ma anche con un senso di profonda nostalgia e con qualche punta di commozione.
In realtà, il gruppo rimase sempre allo stadio della clandestinità e non incorse mai in eresie. L’impresa più audace, a mia memoria, negli anni bui dello stalinismo imperante, fu la soppressione, per decisione di Amendola, che ne menava vanto in segreto, degli applausi ritmati alla maniera sovietica, nelle assemblee “unitarie” e anche in quelle di partito. E’ un fatto però che tutti avevano maggiore dimestichezza con Vico, con De Sanctis, con gli Spaventa, con Croce che non con Lenin, Stalin e Zdanov. Alla “base”, nelle feste dell’”Unità” si faceva comparire anche la figura del “pazzariello” immortalata da Totò nell’”oro di Napoli”. Anche l’autoritarismo di cui Amendola era temuto campione non era intriso del fanatismo ideologico che promanava da Mosca e dintorni, era indigeno. Nella memoria di molti vecchi comunisti Amendola è ricordato come un “destro” ma stalinista nei metodi. In un articolo apparso sul Giorno in occasione dei suoi settant’anni scrissi che egli non aveva avuto bisogno di Stalin per essere autoritario, lo era di suo, ed egli mi ringraziò: finalmente uno che mi ha capito.
Il gruppo che intorno ad Amendola si raccolse ebbe assai forte il senso del patriottismo di partito, non ne violò mai la disciplina, non praticò manovre frazionistiche. Ma nelle regioni meridionali, le sole dove il Fronte democratico popolare, battuto ovunque, non aveva indietreggiato, esso potè godere, grazie anche all’apporto dei socialisti, di una larga autonomia tattica, radicandosi nelle campagne e nel mondo della scuola e delle professioni e dando vita alla prima grande organizzazione democratica di massa che il Mezzogiorno abbia conosciuto nella sua storia, il Movimento per la rinascita del Mezzogiorno.
La storia di quel movimento non è ancora stata scritta e chi lo facesse si accorgerebbe, a mio avviso, che il napoletano-marxismo non fu solo una felice battuta di Macchiaroli. I tratti che hanno caratterizzato quanti ne fecero parte furono tutti visibili e coerenti: molti di loro non attesero la caduta del fascismo per diventare comunista, tutti ebbero una profonda avversione per l’estremismo intellettuale e politico, tutti considerarono una virtù la disciplina ed ebbero un alto senso dello Stato, mutuato dalla cultura che avevano respirata, a cominciar da Amendola, Napolitano e Macchiaroli. Finanche Gerardo Marotta, fondatore dell’Istituto di Studi Filosofici, espulso per deviazionismo di sinistra, ancora mi ringrazia per avergli messo in mano L’Etica di Spaventa che lo convinse della possibilità di teorizzare uno Stato la cui etica fosse quella della libertà.
Nessuno di loro si rinchiuse nel dottrinarismo. Furono loro i costruttori di un meridionalismo che usciva dalle secche in cui si erano arenati gli studiosi e gli agitatori che ne erano stati i pionieri. Mi sarebbero bastati venti uomini per risolvere la Questione Meridionale, mi mancò sempre il ventesimo lamentava Salvemini, Guido Dorso ne chiedeva duecento. Questa volta era un esercito, presente in tutto il Mezzogiorno e nelle isole, pronto a sfidare la mafia, i padroni e la polizia di Scelba, anche a prezzo di sangue. In questo ambiente Napolitano fece le sue prime esperienze di dirigente, che furono di seri studi, di impegno politico, di lavoro organizzativo alla severa scuola di Amendola. I circoli culturali che fiorirono vivaci e numerosi nella scia del movimento erano intitolati a De Sanctis, a Adolfo Omodeo, a Guido Dorso, uno se la memoria non mi inganna finanche a Cavour.


La prima fase di questa storia finisce qui con lo sfaldamento e lo scioglimento della loro creatura.
Le ragioni prime della crisi vanno cercate lontano, nel XX congresso di Mosca che fu un fatto liberatorio, ma strepitosamente e rovinosamente contraddetto dalla sanguinosa repressione della violenta e massiccia protesta popolare ungherese contro i crimini del regime stalinista, condotta dall’Armata Rossa e conclusa con l’impiccagione dei capi comunisti della rivolta.
Per il partito comunista italiano fu l’”occasione storica” mancata. Lo riconosce anche Napolitano nelle sue riflessioni e le spiegazioni che ne fornisce non sono storicamente contestabili e sono tutte rispettabili. Il mito sovietico era ancora il cemento ideologico delle masse comuniste e demolirlo comportava, lì e subito, rischi politici incalcolabili e nella stretta delle cose si rinunciò anche alle possibili riserve e alle opportune cautele con risultati in questo caso incalcolati. E’ un fatto comunque che la chiusura nei confronti delle dissidenze fu compatta. La condotta di Antonio Giolitti motivata in maniera esemplare sul piano dottrinale politico e etico ebbe la solidarietà di pochi, Giuseppe Di Vittorio, figura mitica nell’intero movimento operaio, fu ridotto all’autocritica, Paolo Spriano, l’autore della classica monumentale storia del comunismo italiano, firmò con cento intellettuali un manifesto del dissenso ma il risultato che ne conseguì fu quello di conservare il diritto di cittadinanza nel partito e di poterne, senza censure, scriverne la storia.
Togliatti riuscì, con la genialità politica che gli era propria, a controllare la crisi, ma il marchio impressogli dalla lunga, ferrea milizia nelle gerarchie del Komintern gl’impedì di intenderne la natura e di intuirne la lacerante e insuperabile profondità, di rendersi conto che il problema dell’ autonomia da Mosca, dello “strappo” come si è poi detto, era diventato ineludibile. La soluzione che egli scelse fu quella di un gradualismo affidato ai tempi lunghi della storia, ma quando poi l’ora è scoccata il suo partito non aveva ancora toccato la sponda e ne è uscito spezzato, scompaginato, sconvolto, incapace di esprimere un gruppo dirigente all’altezza dei suoi compiti.
Il “napoletano-marxismo” si distinse perchè la storicizzazione dell’accaduto non portò alla stasi dell’originario timido spirito critico ma fu stimolo, anche se troppo cauto e lento rispetto agli hegeliani “bisogni dei tempi”, a un ripensamento dei problemi di fondo che al partito comunista si presentavano e che erano le trasformazioni avvenute nella società italiana a un ritmo più rapido del previsto e del prevedibile, la fine della formula dell’unità della sinistra sotto la guida del partito comunista, la collocazione dell’Italia nel quadro internazionale: tutti fenomeni divenuti irreversibili. Scrissi su questo tema un articolo per la rivista ufficiale del Partito socialista, Mondo Operaio, della quale ero condirettore con De Martino e Giolitti e Togliatti mi rispose con un corsivo nel quale mi diagnosticava un’arteriosclerosi precoce.
Napolitano levò il volo da Napoli nel 1953, eletto alla Camera dei Deputati.
Raggiunti i vertici del partito, investito di alte responsabilità in più settori, dette sempre prove brillanti delle sue capacità, fu tra Berlinguer e Natta candidato alla segreteria del partito, divenne presidente del gruppo parlamentare comunista e chiuse la sua lunghissima presenza a Montecitorio da presidente della Camera, apprezzato da tutti per lo stile, l’equilibrio, l’assiduità.
Il tema del rapporto tra i due “partititi della classe operaia” riemerse dopo la morte di Togliatti. Amendola ne fu l’iniziatore. Il partito comunista secondo un fantasiosa immagine di Togliatti era una originale e irripetibile creazione della natura, una elegante giraffa che guardava dall’alto gli animali a collo corto, Amendola sapeva che i tempi delle giraffe erano passati.
Nel 1964 egli sbalordì il mondo politico italiano e lasciò “percosso e attonito” il suo partito proponendo il superamento in una sintesi nuova delle esperienze comunista e socialdemocratica. Era la rinuncia al principio del partito-guida, quello di Mosca, e della funzione di guida del partito comunista italiano sulla sinistra italiana. Ne fu colpito anche Nenni , che vide nella proposta l’espressione di una tendenza che rispondeva alla sua speranza ma la ritenne inattuale per più ragioni, comprese le opposizioni palesi e occulte degli apparati dei due partiti. Ripiegò poi sulla unificazione col partito socialdemocratico di Tanassi, ma l’impresa si rivelò laboriosa e precaria e si chiuse senza gloria. Alla vigilia della unificazione corse voce sulla stampa che Lombardi e Nenni volevano che io assumessi la direzione dell’Avanti! per la parte socialista e Amendola con la perentorietà accentuata dalla sua voce potente, Napolitano con la sua pacata gentilezza intervennero su di me perchè io superassi le mie riluttanze –non avevo alcuna esperienza giornalistica e insegnavo a Bari- perchè nella fase nuova e difficile che si apriva nel paese e in particolare nei rapporti tra i due partiti il quotidiano socialista , allora in due edizioni, Roma e Milano, non fomentasse la rissa ma rimanesse aperto al dialogo, anche polemico. Al giornale finii col rimanere dieci anni e il dialogo ci fu, con punte di asprezza ma aperto e civile.
Il dibattito non ebbe colpi d’ala, ma non si estinse. Risalgono ad allora- quarant’anni fa- le mie discussioni verbali e scritte con Amendola sul problema e sui problemi dell’unità tra socialisti e comunisti, che egli, in dissenso coi compagni arroccati nel culto della loro “diversità”, in realtà della loro presunta superiorità, vedeva come la via maestra per superare una crisi latente ma che egli intuiva, alla lunga, insanabile. Il superamento da lui ipotizzato delle esperienze che avevano lacerato il movimento operaio europeo si accompagnava al riconoscimento della grande tradizione del socialismo prefascista non era senza battute pungenti: i comunisti si erano inseriti nelle “regioni rosse” perchè avevano trovato il vuoto e avevano compiuto una operazione unitaria recuperando l’enorme eredità abbandonata dai socialisti i quali, peraltro, peraltro, non si erano neanche preoccupati di raccogliere e custodire le fonti della loro storia che era patrimonio comune di tutto il movimento operaio. Gli risposi con qualche difficoltà perchè in questo aveva delle buone ragioni e alla fine mi fece pervenire, con un ironico biglietto, un assegno quale contributo alla sottoscrizione aperta da Nenni per costituire un Istituto socialista di studi storici con relativo archivio.
Tra quelli che vollero e promossero la scelta europea, Amendola fu in prima fila, tra molte incomprensioni e altrettante comprensioni larvatamente ostili. Furono lui e Terracini a spalancare le porte all’ex-comunista –circa diciotto anni tra carcere confino- il patriarca del federalismo europeo Altiero Spinelli, che accettò la candidatura europea dicendo: alla fine siete voi che siete venuti a me. Tra i suoi compagni Amendola ebbe e conservò taccia di filo-sovietico. In realtà egli aveva subita, senza fideismi, l’ideologia staliniana, ma temeva che un collasso dell’URSS provocasse una brusca rottura dell’equilibrio mondiale dalle conseguenze imprevedibili: i russi in Afganistan, disse una volta, con un sorriso che valeva un discorso, difendono i valori della civiltà occidentale.
Ricordo poi nei suoi ultimi mesi di vita le appassionate conversazioni nei corridoi del Parlamento europeo. Lo spunto partiva dalla constatazione che a Strasburgo intorno a Spinelli e al suo progetto di unificazione europea si era realizzata senza sforzo l’unità di tutta la sinistra italiana dai comunisti ai socialdemocratici e di qui la suggestiva domanda se non fosse possibile, al di là delle divergenze sulla politica nazionale, proporre un programma unico sulla politica europea. Non c’erano ambiguità nella sua scelta.
Di lì a poco egli scomparve e mio solo interlocutore autorevole nel partito comunista, sugli stessi temi, rimase Giorgio Napolitano. A lui presentai, nel 1983, una raccolta di miei scritti, disseminati in giornali e riviste per oltre un ventennio sul problema dei rapporti tra socialisti e comunisti, per chiedergli una introduzione che prese la forma di uno scambio di lunghe lettere tra noi. Eravamo concordi nel ritenere necessaria una severa e spregiudicata revisione critica della storia dei nostri rispettivi partiti per costruire una tradizione dialetticamente unitaria della sinistra italiana che rivalutasse l’originalità ideale e politica del socialismo autonomistico italiano, faziosamente misconosciuta nella vulgata storiografica comunista e da Togliatti insultata e facesse anche emergere nitidamente l’esistenza di un filone autoctono del comunismo italiano , per più ragioni e in più casi succubo e a volte complice dello stalinismo, ma nel quadro di una Europa che aveva subito la lunga catastrofica aggressione del nazi-fascismo. Presentammo il libro, edito da Marsilio in più città con successo di pubblico, ma l’insuccesso politico fu totale. A parlarne, a mia memoria furono due giornali soli, Il Sole 24 ore e la Gazzetta di Parma. Il tema rimaneva decisamente inattuale.
Avevamo contro la “boria di partito” dell’apparato comunista e la pretesa di Craxi di sgretolarlo e ridurlo alle corde prima di aprire la trattativa per l’”unità socialista” quale lui la intendeva. Essi avevano dalla loro parte le ragioni del realismo politico che spesso si rivelano, nelle piccole come nelle grandi cose, meschine, ingenerose, cieche e alla fine rovinose. Basti pensare alla prima guerra mondiale quando l’utopista socialista Jaurès fu assassinato per la sua opposizione e i maestri del realismo politico procedettero alla demolizione della civiltà europea, divennero i padri del bolscevismo, del fascismo e del nazismo. Anche a Yalta sull’utopia di Spinelli trionfò il realismo e fu la guerra fredda.
Ritentammo insieme con pazienza e tenacia la “via europea” pensata con Amendola. Eravamo convinti che la Comunità europea avrebbe conquistato vitalità e solidità alla condizione che si promuovesse la formazione di un vasto movimento di opinione che desse autorità e vigore al suo parlamento e che i socialisti dovessero avervi un ruolo trainante. Con la sua collaborazione redassi un appello che aveva per titolo “La Sinistra per l’Europa” col duplice ambizioso fine di dare unità alla sinistra italiana e di concorrere a consolidare e a stimolare la variegata sinistra europea unita nella sua stragrande maggioranza nel gruppo parlamentare socialista, ma su questo terreno tentennante e divisa.
Le adesioni furono numerose, altamente qualificate, rappresentative di un arco che andava dalla sinistra indipendente ai socialdemocratici, numerosi i socialisti. L’iniziativa fu presentata all’Associazione della stampa estera, potè godere della benedizione di Altiero Spinelli, ebbe una sede e carta intestata, gruppi ad essa intitolati si costituirono in alcuni centri, prendemmo contatti per creare un rete europea. Accadde l’imprevisto. Due fedelissimi di Craxi ritirarono l’adesione motivando la decisione col fatto che l’iniziativa era prematura. Il partito comunista ne prese atto tacendo, il gruppo dei nostri collaboratori si dette alla latitanza. Ne rimasi affranto e Giorgio nelle sue pagine lo ricorda. Vedevo dissolversi la speranza di tutta la mia vita di militante, quella di conciliare e comporre l’autonomia del socialismo con l’unità della sinistra in un quadro europeo.
Anche Napolitano ancora una volta restò solo. Il corpo gregario e conformista del partito lo aveva bollato come “migliorista”, filosocialista, capitolardo. La “svolta della Bolognina”, avvenuta in un clima di confusione ideale e politica non lo ebbe tra i protagonisti. Il “napoletano-marxismo” rimase emarginato, la sinistra scelse la via della scissione, il partito fu dei burocrati.
Alla causa europea Giorgio ha dato un contributo di straordinaria importanza a Strasburgo quale presidente della commissione preposta alla questione istituzionale, ma in una situazione già irrimediabilmente compromessa, distanti se non assenti le grandi “famiglie politiche” europee. L’Italia si fece sentire per la pretesa di evocare le radici cristiane della civiltà europea che innegabilmente esistono. Per lunghi secoli la Chiesa è stata la sola istituzione impegnata a mitigare le sofferenze dei poveri e incivilire i costumi, ma nella sua storia entrano anche le sante Crociate, la Santa Inquisizione, la Santa Alleanza, il Sillabo che condanna la “moderna civiltà”, l’anatema sull’Italia unita, la costante complicità col fascismo internazionale. Le più giovani radici, liberale e socialista non hanno nel loro passato crimini di cui scusarsi e molte benemerenze di cui vantarsi.
La verità è che gli “eurocrati” –burocrati e notabili- si erano sostituiti agli eletti dai popoli. Il grande disegno di Spinelli di fare del Parlamento europeo, della rappresentanza eletta a suffragio universale e diretto dei popoli d’Europa la sede dove si elaborasse si approvasse la costituzione europea era già passato tra le cose che potevano essere e non sono state. L’Europa unita, come Spinelli aveva pessimisticamente previsto, è rimasta “senza anima”.
Mi hanno insegnato e ho insegnato che coi “se” non si fa la storia ma i “se” aiutano a capire la storia, a identificare le responsabilità di coloro che ne sono stati i protagonisti. In questo caso i tanti, i realisti, che hanno concorso alla sconfitta di Spinelli portano la responsabilità di una costruzione europea fragile, rachitica, percorsa da folate nazionalistiche, xenofobe e razziste, impari al ruolo che la storia le assegna.
Ora con Giorgio Napolitano arriva al Quirinale un uomo che è stato comunista con convinzione, con disciplina, con fede, che ha superato quella esperienza senza rinnegamenti, senza plateali abiure, ma storicizzandola con rigore intellettuale, culturale, morale, sapendo che questo è il solo modo per troncare ogni legame di continuità con un passato grandioso quanto spietato, indicando al suo partito la via maestra, quella che dà il titolo al suo libro, concepito e scritto prima della sua ascesa al Quirinale “Dal comunismo al socialismo europeo”. Sulla linearità e la limpidità di questo percorso nessuno ha avuto dubbi: come con Pertini, come con Ciampi la più vasta opinione pubblica del nostro paese lo ha identificato con l’istituzione che egli rappresenta.
Mi piacerebbe pensare, con una immaginazione alimentata dalla nostalgia, che questo episodio della nostra storia significasse una reviviscenza fuori dei suoi confini originari del “napoletano-marxismo”. Ma ci sono purtroppo fatti del recente passato che autorizzano lo scetticismo.
Vicina alla nostra memoria è una campagna elettorale asfittica, opaca, provinciale dove i temi internazionali, a cominciare da quelli europei, hanno avuto minor risalto che il cuneo fiscale e la tassa sulla spazzatura. Il programma, è da presumere, non è stato letto integralmente neanche dai suoi compilatori. Il problema di un coordinamento tra le forze di ispirazione socialista in un quadro di più vaste e organiche alleanze è stato totalmente ignorato: i colonnelli “diessini”, incapaci di storicizzare la loro esperienza, hanno preferito buttarla tra i rifiuti della storia e pur di non riconoscere che i socialisti avevano avuto ragione prima di loro hanno continuato a esibirsi in un antisocialismo non più settario ma becero; hanno gettato alle ortiche ogni dottrina critica del sistema economico dominante, capace di valutarne le drammatiche contraddizioni, hanno progettato un partito “democratico” –presidente onorario Clinton?- compagine eterogenea di beneficiari di una eredità che costò fatiche, lacrime e sangue, fatta oggi di onesti e ignari militanti, ma anche di “venturieri senza ventura”, di riformisti senza qualifica, di clerico-moderati in odore di ateismo, ma proni alle gerarchie ecclesiastiche, particolarmente insidiosi nel momento in cui non esiste più una forte e autonoma Democrazia cristiana dotata di senso dello Stato e aperta al dialogo con la laicità, quella che consentì senza traumi le conquiste del divorzio e dell’aborto, mentre i continuatori del Sant’Uffizio appaiono impegnati in una serrata offensiva ideologica e politica che fa ricordare l’era di Pio XII. Ne verrà sancita un’altra anomalia italiana, quella di essere il solo paese d’Europa dove manca un partito socialista e dove il cosiddetto pluralismo culturale della sinistra si esprime in un coro stridente e strumentalmente dissonante. I segni di un processo di maturazione si vedono, ma la strada è ardua, i tempi non sono lunghi e l’inciviltà della opposizione, variamente presente in tutte le sue componenti, non facilita il compito.
Quando Napolitano fu nominato senatore a vita gli scrissi per dirgli il mio compiacimento e per esprimergli il mio convincimento che la successiva tappa sarebbe stata la presidenza della Repubblica.Era una cosa che al di là delle cabale e delle alchimie mi sembrava nell’ordine delle cose.
Sono stato una volta tanto felice profeta.
Spero di esserlo ancora formulando l’ auspicio che egli contribuisca con la parola e con l’esempio a riportare nel mondo politico italiano lo stile, il rigore morale e intellettuale, la coerenza e la liberale tolleranza, l’amore per la patria unita e per le sue istituzioni. I suoi titoli sono quelli della migliore classe dirigente italiana, della quale è stato parte ed è rimasto erede, che portò, faticosamente e dignitosamente, l’Italia disfatta del 1945 ad avere un ruolo di protagonista nel processo di costruzione di una Europa libera e solidale.


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