2 agosto 2002 - Beni culturali Questione di Stato di Vittorio SGARBI dal Corriere della Sera
02 agosto 2002
Per una ragione misteriosa, in Italia non esiste una politica dei beni culturali. E, tolti alcuni tecnici appassionati (cui va il plauso anche quando dicono cose ovvie), chiunque parli dell’argomento incorre in sorprendenti inesattezze per eccesso di astrazione o per distrazione. È con un certo stupore infatti che ho letto l’articolo di Piero Ostellino «Il nuovo "mugnaio" dei beni culturali» (Corriere del 22/6). Partendo da alcune condivisibili osservazioni sulla distribuzione di miliardi per le sovvenzioni allo spettacolo, per lunghi anni incontrastato feudo della sinistra, Ostellino giunge rapidamente a parlare della «cosiddetta gestione privatistica del patrimonio artistico e ambientale nazionale». E qui inizia la confusione. Intanto la «gestione» è una cosa e la «cessione» è un’altra. Non è chiaro cosa siano i privilegi di «coloro i quali hanno goduto finora di concessioni demaniali a prezzo di affezione, che contavano di far restaurare la propria magione a vita a spese dello Stato»: le prime infatti non sono in discussione, così come non è possibile restaurare proprietà private con i soldi dello Stato. Ma entrambe le affermazioni non sono in alcun rapporto con l’ipotizzata vendita del Colosseo. Che è sì uno slogan, ma che non è concettualmente esclusa, per esempio, dall’economista di sinistra, Giacomo Vaciago. Sorprendente anche la confusione fra il «censimento dei beni alienabili e inalienabili» (che è operazione relativamente facile e circoscritta) e la catalogazione dei beni di particolare interesse storico-artistico, giudicata «operazione che prenderebbe un bel numero di anni», ignorando però che è già stata fatta, in più occasioni e con diversi metodi, avendo prodotto più di ottanta milioni di fotografie, un milione delle quali è stata trasferita in web.
La questione non è quindi il tempo o la difficoltà, ma la volontà politica di non indicare i confini dello Stato in maniera chiara e ineludibile. Soltanto partendo da quelle certezze si potrà stabilire cosa è alienabile. Si tratta, e mi meraviglia che Ostellino non lo capisca, di una questione etica. Lo Stato non può sottrarsi alla responsabilità della tutela. E lo Stato finisce proprio dove finisce la tutela. Intendo dire che lo Stato esiste in ciò che lo qualifica e di cui non si può sbarazzare, perché verrebbe meno alle ragioni stesse della sua esistenza. C’è una resistenza concettuale a dismettere ciò in cui lo Stato si specchia e si rappresenta. Ma esiste anche l’opposto, ciò in cui lo Stato si squalifica; e sono i beni per i quali nè a breve, nè a medio, nè a lungo termine sia stato previsto un qualunque uso o un restauro; e che, nell’abbandono, senza manutenzione, rischiano di essere perduti.
Per questa ragione non bisogna essere vittime nè di un pregiudizio statalista nè di un pregiudizio anti-statalista. La realtà è così varia e imprevedibile che ci offre modelli di pessima tutela dello Stato e di ottima del privato, senza che questo possa essere inteso come regola assoluta e in un continuo scambio delle parti. Così, per molti edifici privati in abbandono appaiono esemplari, a Napoli, la buona amministrazione e la perfetta manutenzione dei Musei di Capodimonte. Per converso, a Roma, le Gallerie di palazzo Colonna e di palazzo Doria Pamphjli, privatissime, sono dei modelli di perfezione rispetto all’allestimento e alla gestione del Museo nazionale di palazzo Barberini, da anni in attesa di una decorosa sistemazione.
La sinistra, in verità, non ha protestato contro l’affidamento della gestione dei musei pubblici a privati e anzi ha espresso modelli del cosiddetto «global-service» per i musei delle due più importanti città turistiche italiane amministrate dal centro sinistra, Roma e Venezia. Ecco, per questo non si può accusarla di «presunzione statalista di natura ideologica, per la convinzione che lo stato gestisca il patrimonio artistico e ambientale più correttamente e in modo più redditizio di quanto potrebbero fare i privati».
Tutto quello cui si riferisce Ostellino è già stato acquisito da una sinistra moderna, e riguarda la gestione, sulla quale occorre semplicemente stabilire delle garanzie. Ostellino continua a parlare di gestione, non di cessione, facendo una strana confusione. Ma è proprio per questo che ciò cui lo stato non può rinunciare non è la proprietà, ma la vigilanza, l’esercizio del controllo. Proprio perché non ho alcun pregiudizio contro il privato, vorrei dire a Ostellino che il tema della gestione è, nei fatti, superato, a sinistra come a destra, purché entrambe non vogliano rinunciare alla funzione di controllo, lontano e indifferente, dello Stato rispetto non ai privati, ma ai pubblici poteri locali, vicini e interessati.
Non si può consentire che affermazioni come: «Gli Uffizi non si possono vendere», «l’Archivio di Stato di Torino è dello Stato», «la Biblioteca Laurenziana è un bene inalienabile» siano slogan eversivi di ispirazione no-global, e prerogativa esclusiva della sinistra. D’altra parte l’esempio ci viene da uno Stato potente e vicino: il Vaticano. La gestione dei Musei Vaticani è assolutamente privatistica ma la proprietà resta indiscussa. Questo è quello che io chiedo come testimonianza di una politica forte dei beni culturali e non mi sembra un ostacolo alla «modernizzazione del paese, la negazione del buon governo, un oltraggio al buon senso», come scrive Ostellino. È importante definire il patrimonio artistico inalienabile e affermare lo Stato anche su quello alienato e alienabile. Più nessuno si oppone al progetto di gestione privatistica del patrimonio artistico-ambientale, ma sarebbe «culturalmente e politicamente perdente» negare lo Stato con la presunzione che non sia in grado, neppure per ciò che non può non appartenergli, di fare almeno quanto fa il privato. Non possiamo consentire a chi, retoricamente, parla di «imperativi etici» di poter dire che lo Stato vuole «liquidare» il suo patrimonio artistico.