19 gennaio 2002 - CRAXI E GLI ITALIANI BRAVA GENTE - di Adriano SOFRI da il Foglio
19 gennaio 2002
Non mi colpisce il tempo trascorso da quando Bettino Craxi è morto -già due anni! Ma il contrario: appena due anni? Dev’essere per quel limbo tunisino che diventò anch’esso schermaglia di nomi — esilio o latitanza — e fu, rivisto dal traguardo finale, una lunga morte civile, prima dl togliere il disturbo. Mi guarderei dal calco retorico del discorso di Antonio in Senato, su Cesare e tutti gli altri, tutti uomini d’onore: Craxi uscì dal Parlamento vivo, e dopo averlo tenuto lui il discorso, e aver chiamato gli altri, tutti uomini più o meno d’onore, e comunque onorevoli. La tentazione cui devo resistere è quella della frase di Michelet: “Je suis tendre avec tous les morts”, e Craxi è morto, e gli altri, più o meno, vivi. Del resto, i due anni che sono passati, o i dieci dall’arresto del mariuolo Chiesa (e lui, come sta? Come prende l’eventualità che si festeggi il suo arresto? Ne è solleticato?) gli anni, dunque, non bastano affatto a riconciliazioni o traslochi al giudizio degli storici e così via. Questi morti così diversi ? Craxi qualcosa pure ebbero da spartire, e stanno ancora di traverso al nostro sicuro progresso. Funerali provvisori, metà a Torrita Tiberina metà a San Giovanni, metà a Hammamet metà niente. La cerimonia vera resta rinviata a data da destinarsi.Si deve discutere ancora dei soldi e della corruzione? Questione assodata, direi. Sembrano affidabili i calcoli secondo cui le cifre dichiarate coprivano circa un decimo dell’effettivo finanziamento dei partiti (con differenze dall’uno all’altro, certo); il quale aveva raggiunto alla fine una quantità enorme, tra i 1.000 e i 1.500 miliardi all’anno, se non sbaglio.Voglio dire una cosa sui soldi. Finché io e altri facemmo politica mirando alla rivoluzione (una trentina di anni fa), avremmo preso soldi anche dal diavolo, secondo tradizione: eravamo garantiti dalla bontà della causa, e dal nostro disinteresse personale. Il diavolo, con noi, non si fece vivo: non si fidava. In compenso avvenne che qualcuno di noi (non certo i peggiori) fece anche delle rapine: innocue, per fortuna, con minimo ricavo, e presto messe al bando. Il nostro finanziamento essenziale veniva da sottoscrizioni ininterrotte e capillari e da spoliazioni volontarie di proprietà dei militanti: abnegazione religiosa. Sta di fatto che l’idea che il denaro non comprometta chi è puro nel cuore, tradizionale appunto (fra i comunisti addetti all’incasso degli sporchissimi soldi del Pcus ci furono probabilmente sia le persone più ciniche che le più credenti), è una delle fonti possibili della spregiudicatezza nei confronti del denaro, anche dopo che la rivoluzione è passata. Quando altri e io ci impegnammo in riedizioni delle nostre iniziative giornalistiche, o nel sostegno a cause care (resistenti cileni, o polacchi ecc.) e cercammo e ottenemmo, per esempio dallo stesso Craxi, del denaro, non pensavamo affatto che quel (poco, eh!) denaro venisse messo a bilancio, né da chi lo dava né da chi lo riceveva: sentendoci ancora, noi, al riparo del nostro disinteresse personale, e dell’indipendenza delle nostre idee. La nostra spregiudicatezza (piccola, eh!) discendeva da una più o meno pigra prosecuzione della convinzione di essere estranei a ogni affarismo, e che la politica ufficiale, parastatale, non potesse che essere disonesta per definizione. Che lo Stato fosse cosa loro.Alla spregiudicatezza verso i soldi si poteva arrivare per altre vie, più o meno ipocrite. Un socialista, per esempio, poteva arrivarci con un accanimento peculiare in nome del desiderio di far finalmente largo alla propria antica e nobile parte nella morsa fra Dc e Pci. Machiavellismo, se volete. Ottimo alibi, comunque. Craxi stesso lo mostrò bene quando, con la ispida spavalderia che gli era propria, prese il nomignolo di Ghino di Tacco che Scalfari gli aveva affibbiato e se lo calcò sulla testa come un cimiero: e si appostò sulla rocca di Radicofani a taglieggiare il passo. Fu la fortuna turistica di Radicofani, del resto.Nel partito di Craxi, l’autorizzazione ad arricchirsi in nome della storia instillò un effetto euforico stupefacente. La corruzione non sta nella prima volta, sta nell’abitudine. Quando ci si abitua, non si torna più indietro. A quel punto, il movente (o l’alibi) iniziale è bello e dimenticato: il moralismo rivoluzionario, il cinismo comunista, il quieto vivere democristiano, la debolezza della carne dei partiti minori, e anche il disegno autonomista del socialismo. A quel punto i soldi non chiedono più perché, e servono a pagare l’assuefazione. Probabilmente la versione socialista della cosa ebbe una sua speciale virulenza, per una serie di circostanze. Una voracità da nuovi ricchi gente nova e sùbiti guadagni; un’idea di modernizzazione che faceva disprezzare la saccente austerità comunista e ammirare le grosse cilindrate; una gran confusione teorica e pratica fra finanze pubbliche e private.Di questo eccesso di zelo Craxi fu insieme fautore — da quel capitano di ventura che era: spartizione del bottino compresa e ostaggio. Giocava al rialzo, come nessun altro nel suo mestiere, cioè fra i giocatori di professione. Spaventosamente odiato da concorrenti e croupier. Era al tempo stesso l’odio per l’uomo nuovo e per il professionista provetto. Sembrava non immaginare altra esistenza fuori della politica, cioè della gara per il potere, e però temeva la politica come il luogo degli agguati. Quanto al potere, succede come coi soldi, e peraltro tendono a coincidere: che all’inizio servono per perseguire un’altra cosa, e poi se la ingoiano e se ne dimenticano. A differenza di tanti gregari, Craxi non dimenticò mai a che scopo cercare tanto il potere. La politica gli piaceva di più dei soldi e anche del resto. Gli piaceva al punto che era fra i pochissimi che si proponessero di prenderlo tutto, il potere: cioè, siccome era senz’altro democratico, di governare. Non di amministrare il governo - come nella tradizione democristiana, così consapevole di quanto sia nutriente il sottopotere, così abile nell’alternanza degli uomini alla guida, e nella inalterabilità della macchina, In Italia, a parte il nostro sogno rivoluzionario, il potere, la potenza, lo desiderarono davvero solo i comunisti, e lo venerarono: e proprio perché pensavano a quello, a “tutto il potere”, si rassegnarono nel frattempo - un frattempo sine die alla compartecipazione flessibile al potere democristiano, e a quell’altra forma che è così tipica delle democrazie complicate e invecchiate e dell’italiana specialmente: il potere di veto. La politica italiana pullula di fazioni e capi che non si sognano nemmeno di mirare al potere, e neanche al governo: paghi di guadagnarsi una quota, sufficiente all’interdizione, e gestirla. Lo stesso potere delle procure non è stato tanto un’appendice né uno strumento dello schieramento partitico, quanto un autonomo e trasversale esercizio del potere di veto. Volere il governo è un’anomalia della tempra politica italiana ufficiale o ufficiosa. L’ha voluto forse D’Alema, ma confidando troppo in un azzardo craxiano. L’ha voluto Berlusconi, un po’ per inesperienza (la qualità opposta a quella di Craxi) un po’ per megalomania. Si è preso per Berlusconi.Craxi aveva speso un’intera vita da interdittore, da guastatore da scorbutico vaso di coccio. Quando arrivò al governo sapeva di che cosa si trattasse: il primo socialista a capo del governo italiano, dopo cent’anni di storia (Mussolini a parte: che Craxi tenne sempre d’occhio). Il suo governo fu subito di un altro genere, e perciò si inventò parole nuove, governabilità, decisionismo. Figurarsi la soggezione e la frustrazione in cui cacciò la vecchia classe politica anche nel suo partito. Non ci fu bisogno delle monetine del Raphael, triste parodia di un piazzale Loreto, per misurare quanto morboso fosse, nell’ammirazione come nell’avversione, il sentimento di tanti italiani nei confronti di Craxi. Sospettoso e ombroso, Craxi dava l’impressione di saperlo domare: ma a condizione che la partita continuasse a giocarsi sotto il tendone del circo. Quando arrivarono altri, uomini nuovi davvero, alieni Bossi e la sua Lega, poi magistrati inamidati fino a cinque minuti prima - Craxi perse il controllo. Porse per superbia, perché non accettava di temere gente simile; forse perché a quella nuova partita non era preparato. Lo si capisce, nel discorso del luglio ‘92, dalla rivendicazione della democrazia dei partiti, degenerati bensì “al punto tale che vengono indicati come il male di tutti i mali, soprattutto da chi immagina o progetta di poterli sostituire con simboli e poteri taumaturgici che di tutto sarebbero dotati salvo che di legittimità e natura democratica. Sono immagini e progetti che contengono il germe demagogico e violento di inconfondibile natura antidemocratica”.Pensavo allora che Craxi avesse perso quando ancora la partita si giocava con le vecchie carte: quando, malfamato per la sfida temeraria e vittoriosa dei punti di contingenza, si era presentato alla tribuna di un congresso della Cgil come il nemico aborrito, e ne era uscito fra le ovazioni. (Troppo gregari, s’intende, fischi premeditati e applausi estatici). Craxi, mi sembrava allora, avrebbe potuto far saltare il banco:prendere un Pci inebetito e rimescolare l’intera sinistra. Non so perché non ne fu neanche tentato: forse era dominato dall’anticomunismo più che non lo padroneggiasse, forse credette di poter bastonare il Pci che affogava e aspettarlo in eredità gratuita dal centro dello schieramento politico. Forse, semplicemente, le cose non stavano così.Nel 1993 le vedevo così. “Si vedrà un giorno che Bettino Craxi è stato il politico italiano più determinato così a vincere come a perdere la sua partita; e c che volle intera la sua vittoria finché c ebbe il vento alle spalle, e andò dietro alla propria disfatta fino in fondo quando l’ebbe contro. Dio infatti accieca chi vuol mandare in rovina, e Craxi che gratuitamente invitava ad andare al mare piuttosto che votare al referendum lo riprova. Ma quella cecità ha una radice più remota, oltre che nel carattere dell’uomo lo stesso che lo aveva fatto esporre, altrettanto gratuitamente, nella sfida referendaria sulla scala mobile, portandosi via quella volta l’intero banco in una sua formazione politica, mi pare incapace e indisposta ad ammettere che gli italiani potessero crearsi una rappresentanza fuori dal novero dei partiti ereditati dalla Costituente. Per quanto azzardate, e spesso deplorevoli, suonino le sue frasi su Mussolini, Craxi è stato davvero l’ultimo politico della Repubblica antifascista, dell’arco costituzionale e in questo senso della partitocrazia. Dentro quei confini Craxi si era ripromesso di modificare a suo vantaggio i rapporti di forza e di vendicare la morsa in cui i due partiti più grossi e prepotenti avevano stretto e mortificato Pietro Nenni. Ci riuscì; fin troppo, a stare alle notizie postume sulle quote con cui i finanziamenti neri andavano ai partiti. Ci riuscì politicamente, e quando avrebbe dovuto presentare il conto del successo ottenuto, dividere ed espugnare un Pci battuto e avvilito, rimescolare le carte di una sinistra varia e ‘moderna’, si tirò indietro, e preferì il cabotaggio delle frazioni di percentuali elettorali, le lenticchie dell’accoglienza nel Psi di qualche transfuga del Psdi, e altri spiccioli. Qualcuno rileggerà quella paralizzata mediocrità (del tempo immediatamente successivo agli applausi di Sigonella e alle acclamazioni riscosse al congresso della Cgil) come un effetto della consociazione d’affari costruita sul sistematico taglieggiamento delle tangenti, che vincolava in solido i suoi contraenti. Può darsi. Io credo che contasse di più quel limite di prospettiva politica, quella insensibilità alle cose che corrono nel mondo dei più e che un po’ deriva dall’arroganza un po’ la provoca, quel rifiuto di immaginare che potere relativo dei partiti e consensi elettorali si giocassero anche fuori e contro la redistribuzione delle quote fra gli azionisti di sempre. Craxi non ha immaginato in tempo l’avvento della Lega, perché esso era troppo contrario ai suoi criteri e ai suoi desideri. Poi, troppo tardi, ne è stato giocato, con le sue stesse armi di un tempo, da novellini più arroganti e più spregiudicati. Craxi ha perso Milano non da milanese, ma da romano.(Ma perché fermarsi tanto su Craxi? E gli altri? In realtà ci sono stati pochi uomini politici conservo di proposito questa dizione, perché continua a trattarsi di uomini, e mai di donne potenti nei partiti di governo italiani che abbiano perseguito negli scorsi anni un progetto di qualche ambizione e interesse. Quanto all’opposizione, a parte il ruolo eccentrico di Pannella, il Pci è riuscito in extremis a trasformarsi in Pds, e a costituire un argine fortunoso alla deriva. La naturalezza distratta con cui la vecchia classe dirigente dei partiti di governo, dello Stato, dell’industria e della finanza, rubava e si faceva derubare per convenienza, era parente stretta della naturalezza con cui si portava addosso il potere, incapace di interrogarsi sul suo senso e sulla sua possibile fine, come non ci si interroga su ciò cui si è irresponsabilmente abituati. Dei due movimenti che rendono appassionante la politica, l’impegno e il distacco, la lotta e la dimissione, i politici di professione italiani hanno finito per dimenticare del tutto il secondo)”.Seguii malamente la decadenza. Nel 1988 ero diventato un caso giudiziario. Sorrido a ripensare a come sia servito, il mio caso, ad allenare l’imminente auge del palazzo di giustizia milanese. Ora questo giornale mi ha mandato il testo del discorso di Craxi alla Camera che oggi ripubblica, e mi è sembrato di non averlo mai letto.Chi si ricordava delle parti sull’europeismo e sull’America? Quando iCraxi appoggiava l’installazione dei Cruise, Alex Langer comprava a mio -nome qualche metro di terra a Comiso.Poi Gorbaciov diede atto ai Cruise di ) aver dissuaso dagli SS 20. Io devo essere ancora titolare di qualche metro di terra a Comiso e nella foresta dell’Amazzonia, se non me li hanno portati via col resto.Da quel discorso, ricavo soprattutto questa impressione: che, qualunque reazione la Camera avesse avuto, la rovina della Prima repubblica non si sarebbe fermata. “Un minuto prima che una situazione degeneri, bisogna saper prendere una decisione’’: così aveva esordito Craxi il 3 luglio del 1992. Era già dopo. Era troppo tardi. Ma questo non riduce l’interesse di quel discorso. Penso infatti che sia sempre ‘‘troppo tardi”. Non ci sono conversioni profonde che non siano imposte da precipitazioni esterne: raramente negli individui, mai nelle comunità. Né il Psi, né il sistema dei partiti avrebbero avuto la forza di riformarsi, come Craxi invitava a fare in quel discorso: ‘‘Revisione degli statuti, riforma delle regole, ricambio degli uomini...”. La dichiarazione di Craxi sulla gravità e universalità del finanziamento illecito della politica, per la parte in cui non suonava come una chiamata in correità, era una mera illusione se puntava a un’efficacia pratica. La posta non era già più la possibilità di arrestare la delega alla persecuzione penale e di riformare il costume dei partiti. La posta era dunque, in un senso, più importante: la dignità di una classe politica. Craxi la chiamò in correità, ma parlò anche in suo nome: e non fu smentito né in una veste né nell’altra. Benché Moro fosse, secondo Pasolini, “il più estraneo”, e Craxi il meno estraneo, trovo una affinità inquietante fra il suo discorso e quello, l’ultimo alla Camera, in cui Moro aveva ammonito con un tono non suo che la Dc non si sarebbe lasciata processare. Fu processato lui, di lì a poco e in quel modo. C’è un’altra ragione per accostare questi due uomini politici così dissimili: che i loro destini vietano ormai di ripetere il luogo comune sull’Italia, come il paese in cui le cose alla fine si aggiustano sempre. Le cose italiane rotolano fino in fondo alla loro rovina. Gli italiani non sono più brava gente.Ho un rimpianto speciale per la morte di Craxi, perché, grande e grosso e prepotente com’era, me lo ero figurato inetto alla galera. Tanti zelanti cittadini gliel’augurarono di cuore, la galera; e magistrati competenti desiderarono con tutto il cuore di mandarcelo. Li compiango. I bravi cittadini dovevano sciogliere l’assembramento e riguadagnare una riflessione appartata: ondeggiarono, e tutt’al più voltarono la scritta dei cartelli come si rivolta una giacchetta. La politica doveva trovare la forza per processarsi: non la trovò. Dei magistrati dovevano indagare e giudicare singoli reati — si sa: non il sistema — e condannare, se fossero bastate le prove. L’accusa e la condanna sono la pena. La galera è una disgustosa barbarie, che toglie la vergogna dal reo e la rovescia sul carceriere. Era specialmente vero per Craxi: c’è un’ignobiltà speciale nel gusto della detronizzazione. E’ specialmente vero per i disgraziati senza corona e senza scorta: c’è un’ignobiltà speciale nello schiacciare gli ultimi. Con l’uno e con gli altri io sono tenero. Craxi restò solo in quella classe politica di cui era stato fino a poco fa brusco padrone: e non una riflessione coraggiosa e solidale, ma un fuggi fuggi cannibalesco o piccino prevalse fra gli altri naufraghi. Leggo che Craxi ricevette 172 avvisi di garanzia: 81 per violazione della legge sul finanziamento pubblico, 67 per corruzione, 13 per ricettazione, 8 per concussione, 2 per diffamazione, i per bancarotta fraudolenta. Solo Severino Citaristi fece meglio: 175 avvisi. Tanto un brav’uomo, come dissero quelli che lo conoscevano.Ebbi rari rapporti con Craxi, e senza confidenza. Non eravamo i nostri tipi. Sarei andato volentieri a trovarlo ad Hammamet. (Che peccato aver deriso la sua malattia, per chi lo fece). Corressi, anonimamente, la riedizione dell' "Anonimo Napolitano" sui Mille che Craxi anonimamente aveva affidato a Elvira Sellerio. Questa è anche una commemorazione, dunque sceglierò un ricordo personale, il migliore. E’ di una notte del 1981, incontrai Craxi in piazza Navona. Tornava dalla visita alla camera mortuaria di Ferruccio Pari, sembrava commosso, mi raccontò la sua impressione. In quei giorni due detenuti per accuse politiche stavano facendo un severo sciopero della fame a Milano, e il nostro giornale si impegnava a evitare un esito tragico. Craxi me ne chiese notizie, e promise di fare qualcosa lo fece. Mi disse che era stanco, e che non aveva trovato il tempo per passare dalla camera ardente se non a tarda sera. Anch’io ero stanco, ma non avevo tanto da fare. Lui andò in albergo, io tornai a camminare a Roma c’era la luna. Je suis tendre avec tous les morts, e anche con me e al diavolo il resto.
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