15 settembre 2002 - Il grande ritardo della politica comune - di Giuliano Amato

15 settembre 2002

Giuliano Amato, vice-presidente della Convenzione europea, inizia con questo intervento la sua collaborazione al Sole-24 Ore.

Sono grato a «Il Sole-24 Ore» per l’opportunità che mi offre di raccontare ai suoi lettori ciò di cui mi occupo in Europa. Lo farò ogni due settimane e, se non parlerò soltanto della Convenzione (anche l’Italia vista da lontano è un bel soggetto), certo sarà la Convenzione il fuoco principale di queste mie lettere. La inevitabile complessità dei suoi lavori e la tecnicità di molti argomenti scoraggiano per ora l’attenzione dei mezzi di informazione. Ma quando l’attenzione si accenderà sui documenti finali, sarà importante che risultino chiare le opzioni, le ragioni che le giustifi-cano e le ragioni dei dissensi che potranno suscitare.
E allora vorrei, con il massimo di semplicità di cui sono capace, soffermarmi di volta in volta sulle questioni principali che stiamo setacciando. Serve rimpiazzare l'attuale Presidenza semestrale dell’Unione (un semestre all’Italia, uno alla Grecia, uno alla Francia) con una Presidenza più lunga? Oppure si crea un pericoloso doppione della Presidenza della Commissione?
E' vero che l’Europa è troppo intrusiva perché è troppo "comunitaria” e non lascia abbastanza spazio agli Stati? Ma che cos’è esattamente il metodo comunitario, che alcuni difendono e altri criticano?
In ogni caso, se è vero che l’Europa è troppo complicata e ha bisogno di parecchie semplificazioni, ove e come si può intervenire? E la famosa Carta dei diritti? Si chiede che sia “incorporata” nella futura Costituzione: che benefici ne avranno i cittadini se questo accadrà?
E ancora: di sicuro c’è una domanda di meno Europa per gli ambiti nei quali non tanto gli Stati, quanto Regioni ed Enti locali chiedono più spazi per far valere le loro diversità nella cornice comune. Ma c’è anche, e forse in primo luogo, una domanda di più Europa davanti ai fatti del mondo; su cui si vorrebbe che l’Europa avesse il peso che nessuno dei nostri Paesi può avere da solo e che le nostre frequenti discordie addirittura vanificano. Riusciremo a costruire una lotta comune alla criminalità organizzata e all’immigrazione clandestina, un impegno comune contro la povertà, una politica estera e di difesa davvero affidata a un’unica voce? E' proprio quest’ultimo il tema che, mentre scrivo, è al centro dell’attenzione di tutti. Se ne occupa estesamente la Convenzione (ben due gruppi di lavoro si stanno passando la staffetta su di esso, uno presieduto da me, l’altro, che sta per iniziare, presieduto da Jean-Luc Dehaene), mentre la vicenda dell’Irak lo rende drammaticamente attuale, minacciando fulmini e grandine sui virgulti che stiamo appena piantando.
E inutile nasconderlo. E vero che in queste settimane l’Europa è riuscita a trovare una apprezzabile unità nel chiedere all’alleato americano di non precipitare le cose in via unilaterale e di affidare alle Nazioni Unite le forme e i termini dell’ultimatum (tutt’altro che immotivato) a Saddam Hussein. Ma è altrettanto vero — e lo sappiamo benissimo — che fra noi ci sono valutazioni diverse e che queste diversità potrebbero cancellare la nostra unità davanti agli scenari possibili dopo l’attesa risoluzione dell’Onu, ammesso che a una tale risoluzione si arrivi. Primo: non è detto che la Germania partecipi mai a una forza militare, anche se autorizzata dall’Onu nel caso di rifiuto iracheno delle ispezioni. Secondo: è ben possibile che ci separiamo in due tronconi davanti a un intervento militare dei soli Stati Uniti, nel caso che non ci sia consenso su una risoluzione comune o in quello di violazione di una risoluzione non accompagnata da autorizzazione Onu all’intervento. Terzo: è infine possibile che Francia e Regno Unito, membri permanenti del Consiglio di Sicurezza (più forse l’Irlanda, che ne è membro temporaneo), si trovino partecipi di intrecci che li distanziano comunque dagli altri. C’è un filo esile che ci lega tutti in questi casi ed è l’obbligo, previsto dal Trattato dell’Unione, di concertazione reciproca fra i Paesi europei membri del Consiglio di Sicurezza, di informazione dei Paesi non membri e di difesa comunque dell’interesse della stessa Unione. Ma reggerà questo filo davanti a pressioni diverse e più forti? Quello iracheno, insomma, può essere per il mondo un punto di svolta dalle conseguenze incalcolabili (e forse non da tutti abbastanza calcolate). Ma può essere un tremendo momento della verità per la stessa Europa.
Sarebbero diverse le cose se già avessimo una politica estera unificata, con la conseguenza, fra le altre, di una rappresentanza diretta dell’Unione nel Consiglio di Sicurezza? Per un tempo non breve di sicuro non ne sarebbero cancellate le diversità che ci sono non solo fra i Governi, ma anche fra le nostre opinioni pubbliche nazionali. Tuttavia, gli incentivi a trovare un accordo nel Consiglio europeo sarebbero di gran lunga maggiori: intanto perché saremmo indotti a elaborarla una politica estera europea e non a fingere che sia tale il gioco di rimessa a più voci che oggi facciamo; e poi perché alla fine dovrebbe essere quel Consiglio. e non ciascun primo ministro per conto suo, a esprimere una posizione da affidare a chi ci dovrebbe rappresentare tutti. La materia commerciale è certo meno drammatica della lotta militare al terrorismo. Ma anche lì ci sono fra di noi diversità non piccole: Eppure, nei confronti dei Paesi terzi, c’è sempre una posizione unica di cui è portatore un unico negoziatore. C’è voluto del tempo ad abituarci, ma ci siamo abituati. Le istituzioni, piano piano, questa forza ce l’hanno. Mi amareggia perciò l’oggettivo ritardo con cui procediamo rispetto all’incalzare degli eventi. E seguo gli eventi con vera trepidazione, perché non vorrei che il verificarsi degli scenari peggiori nell’evoluzione della vicenda irachena uccidesse prima ancora che nasca il bambino che sta concependo la Convenzione a Bruxelles. Mi auguro che ne siano consapevoli sino in fondo i nostri Governi. Dopo tutto, se non sono miopi, è davvero nel loro stesso interesse.

Da Il Sole 24 ore

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