14.06.2000 - REGIONI, LEGGI ELETTORALI E RIFORMA COSTITUZIONALE. Tre nodi ancora da sciogliere - Roberto BISCARDINI, Avanti della Domenica

14 giugno 2000

La legge di riforma costituzionale, approvata forse fin troppo rapidamente dal Parlamento nel novembre scorso, ha aperto il nuovo corso delle Regioni italiane, ma la sua gestione non sarà semplice né dal punto di vista politico né da quello istituzionale.
La questione è molto più complessa di quanto non appaia.
I Consigli regionali dovranno approvare prima di tutto (a maggioranza assoluta dei loro componenti!) i nuovi statuti con lo scopo di determinare la forma di governo delle loro Regioni (cosa di non poco conto) oltre ai principi fondamentali di organizzazione e funzionamento. I Consigli regionali eletti il 16 aprile avranno inoltre il compito di decidere il sistema elettorale dei futuri Presidenti, delle Giunte e degli interi Consigli in assoluta libertà anche sovvertendo, se lo riterranno opportuno, il modello parapresidenziale introdotto dal Parlamento con l’elezione diretta dei Presidenti.
Tutto, come si vede, è ancora aperto. Ma una cosa sembra certa: il Parlamento nazionale piuttosto che disegnare un modello regionalista definito (così come vorrebbero far credere gli attuali Presidenti eletti) ha preferito puntare sull’autonomia e l’autodeterminazione delle singole Regioni, facendo in qualche modo l’esatto contrario di ciò che oggi appare come irreversibile.
Mi riferisco in primo luogo all’elezione diretta dei Presidenti (impropriamente chiamati dalla stampa “governatori”) che potrebbe essere spazzata via sia dai nuovi statuti sia dalle nuove leggi elettorali. E’ necessario aver chiaro che il modello presidenzialista regionale non è per nulla irreversibile e sarebbe bene confutare la tendenza a credere che tutto sia già stato deciso. La stessa legge di riforma costituzionale, pur avendo tolto agli attuali Consigli il potere di fiducia al Presidente e alla sua Giunta, non gli ha tolto quello straordinario della sfiducia (pur reso difficile dal contestuale suicidio al quale andrebbe incontro il Consiglio regionale che decidesse di avvalersi di questo potere).
Infine c’è sul campo la durata degli attuali Consigli o Parlamenti regionali, che a detta dei più, dovrebbero terminare il loro compito proprio immediatamente dopo l’approvazione degli statuti e delle nuove leggi elettorali.
Sul piano più prettamente politico, bisognerà mettere un freno a tutti quei Presidenti regionali che intendono usare la forza, che gli deriva dall’essere eletti direttamente, come un’arma di lotta politica a tutto campo, fuori dalle regole che comunque le nuove norme non hanno cancellato.
Gli attuali statuti regionali e le prerogative degli attuali Consigli non sono qualcosa di già superato. Per questo se non vogliamo consentire che la nuova fase comporti (extra legem) un rafforzamento ingiustificato dei poteri esecutivi dei Presidenti e delle Giunte, a scapito dell’autonomia e del ruolo legislativo dei Consigli, è necessario gestire con grande attenzione la lunga fase di transizione che va da oggi all’approvazione dei futuri statuti e non escluderei a priori un’interlocuzione istituzionale con tutti i Gruppi politici, fuori da una logica bipolare, per evitare che il protagonismo dei Presidenti soffochi il potere politico dei Parlamenti regionali.
Sarà una fase importante che ci vedrà impegnati sugli aspetti fondanti il nuovo Regionalismo. Da preferire al termine ancora incerto di Federalismo. Di Federalismo d’altra parte si potrà parlare solo quando avremo riformato l’attuale Costituzione nazionale. Perché è chiaro: solo una nuova Costituzione potrà dar vita ad un sistema federale dello Stato. Meglio parlare quindi di Regionalismo per non consentire, inoltre, che si rafforzi l’errata convinzione che il Federalismo possibile si sia già realizzato con l’elezione diretta dei Presidenti regionali o si realizzi attraverso il loro attivismo.
Per questa ragione occorre non dimenticare che l’esigenza di una riforma costituzionale è questione aperta ed urgente, irrisolta dal fallimento della Bicamerale.
Per coerenza con le cose che abbiamo sempre sostenuto e per evitare che prenda corpo un centralismo regionale strisciante bisogna riproporre questo obiettivo, come il solo strumento necessario per evitare un sistema istituzionale a diverse velocità. In fondo perché non votare insieme nel 2001 per il nuovo Parlamento e per una Assemblea costituente eletta direttamente dai cittadini?
Se sul sistema per l’elezione dell’Assemblea costituente non ci sono mai stati dubbi, dopo il voto del 21 maggio la cosa è ancora più chiara. Assemblea costituente eletta con sistema proporzionale e Parlamento eletto secondo il modello tedesco: proporzionale senza pasticci e senza premi.
50% uninominale e 50% per lista con quota di sbarramento, rivedendo la tesi dell’elezione diretta del premier e riproponendo come in Germania il cancellierato eletto dal Parlamento.
Persino Sartori dopo tanti anni di giudizi non condivisibili, una cosa l’ha detta: non esiste un modello tedesco con premio di maggioranza e non esiste un modello tedesco che possa a priori essere di supporto ad un sistema bipolare.
E’ talmente convincente questa posizione che si potrebbe riesaminare la proposta del partito a favore di un modello elettorale nazionale simile a quello che ha portato all’elezione dei Sindaci e dei Presidenti delle Regioni.
Perché? Perché gli errori commessi in materia elettorale dal 1993 non stanno nella giusta ricerca della governabilità, ma nell’idea che la governabilità delle istituzioni sia solo nelle mani di un modello bipolare forzoso. Alla luce del risultato referendario si può giungere alla conclusione opposta e cioè: invece di imitare il modello dei Comuni e delle Regioni per l’elezione del Parlamento nazionale, è consigliabile rimettere in discussione i modelli elettorali oggi vigenti per l’elezione dei Comuni, della Province e delle Regioni che buoni risultati non li hanno proprio dati.



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