13 luglio 2002 - Europa una clausola di divorzio per chi respinge i nuovi trattati - intervista con Giuliano Amato vice Presidente della Convenzione sul futuro dell'Unione Europea a cura di Andrea BONANNI

13 luglio 2002

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE a BRUXELLES
Una clausola di «divorzio europeo». A proporla è Giuliano Amato, vice presidente della Convenzione sul futuro dell’Europa.
Nei giorni scorsi, la sua proposta di un Europa «alla francese», retta da un dualismo tra un presidente del Consiglio europeo responsabile della politica estera e un presidente della Commissione che agisce come capo del governo, ha trovato parecchi consensi, non ultimo quello dei rappresentante del governo italiano, Gianfranco Fini. Ma ora, in questa intervista al Corriere in cui affronta anche i temi della crisi della sinistra in Europa, Amato lancia una nuova proposta che potrebbe avere effetti rivoluzionari sul futuro dell’Europa: la clausola di esclusione.
In pratica, spiega, un Paese che non ratificasse i nuovi Trattati, o che ripetutamente si ostinasse a bloccare una decisione cruciale su cui esiste un largo consenso degli altri, dovrebbe poter venir escluso dall’Unione. Le conseguenze di una simile «clausola di divorzio», potrebbero essere clamorose. Se l’Europa l’avesse avuta in passato, si sarebbero evitate le molte convulsioni provocate dai referendum danesi e, oggi, dalla bocciatura del Trattato di Nizza nel referendum irlandese.
Presidente Amato, come nasce questa proposta?
«Nasce dalla mia valutazione del senso che ha assunto oggi la costruzione dell’Europa. Se nella serie di passaggi successivi c’è qualcuno che continuamente si isola dagli altri e non condivide più lo spirito comune, può l’insieme fermarsi perché un singolo Paese si rifiuta di proseguire il cammino comune? Oggi davanti ai compiti dell’Unione non possiamo più permetterci il lusso che ci era consentito 20 o 30 anni fa, quando potevamo decidere se aggiungere o meno questo o quell'abbellimento alla cattedrale europea. Non siamo più sul terreno dei beni voluttuari, siamo ormai sul terreno dei beni essenziali perché ci sono funzioni essenziali di governo che possono essere svolte ormai solo a livello europeo. In questo quadro ciascuno deve essere messo davanti alle proprie responsabilità: non più la scelta tra accettare il punto di vista degli altri o bloccare tutti, tra seguire gli altri o restare solo. E’ possibile che, di fronte a questa decisione, le ragioni del no appaiano superabili. Io non lo vedo come uno strumento per perdere pezzi d’Europa lungo la strada ma, al contrario, per innalzare la responsabilità di ciascuno verso l’insieme. E la responsabilità è un bene di cui abbiamo assolutamente bisogno».
In che senso?
«Una cosa che deve finire in Europa è che gli Stati nazionali nascondano le proprie responsabilità dietro l’alibi europeo. Ci sono questioni che vanno chiarite. Il pareggio di bilancio, per esempio, lo riteniamo un bene in sé o è un’ubbia del signor Solbes? Queste cose vanno dette ai cittadini. In un sistema democratico è essenziale che l’elettore sappia chi è responsabile di che cosa. Invece spesso i governi, quando c’è una scelta difficile, si nascondono dietro l’Europa. Devo confessare che a volte l’ho fatto anch’io. E questo ha contribuito non poco a danneggiare l’immagine dell’Europa agli occhi delle nostre opinioni pubbliche».
Ma, secondo lei, nella Convenzione e nei governi c’è questa consapevolezza di dover dare credibilità all’Europa anche a costo di sacrificare gli egoismi nazionali?
«Nella Convenzione direi nettamente di sì. Può sembrare stupefacente, ma questa domanda di un’Europa che diventa affidabile rispetto a questi grandi temi trasnazionali viene dai membri più diversi, senza distinzione tra destra e sinistra, tra nord e sud, tra piccoli o grandi Paesi».
E i governi?
«Per quanto riguarda i governi, bisogna vedere. Ma cresce in me ed in altri la sensazione che in molti casi in cui i governi difendono proprie prerogative, ma, realtà non parlano a nome dei loro cittadini ma per conservare qualche fetta di potere. Sarà nel loro stesso interesse capire che c’è un limite al di là del quale non possono andare».
Siete pronti allo scontro. Ma con quali strumenti? Con un referendum?
«Penso che occorra fare il possibile per evitarlo, lo scontro. Bisogna mantenere un rapporto stretto con i governi, soprattutto nella fase finale, quella della discussione dei testi.».
E se non funziona? Referendum?
«Il referendum è sempre uno strumento difficile da usare. Ma penso che, al punto in cui siamo, un referendum bene organizzato sia l’unico modo di verificare se gli europei vogliono identificarsi nel nuovo modello di Europa e superare le vecchie incertezze. Comunque occorrerà decidere preventivamente quali sarebbero le conseguenze di una maggioranza di no in questo o quel Paese. Se, come io propongo, ciò comporta l’espulsione dall’Unione, la gente lo deve sapere prima di andare a votare».
Parlando di Stati membri, come valuta le posizioni espresse da Fini? Le sembrano in linea con la tradizionale linea europeista dell’Italia?
«All’ultima riunione della Convenzione, Fini ha detto cose importanti, per esempio sull’estensione del voto a maggioranza nella politica estera e di difesa e sulla riunificazione dei ruoli di commissario agli affari esteri e di alto rappresentante dell’Unione europea. In quel che dice c’è spesso un doppio binario: da una parte concessioni a chi, nella maggioranza, vuole la riaffermazione dell’esclusiva sovranità nazionale. Dall’altra, sulle questioni specifiche, mi sembra che porti posizioni coerenti con l'europeismo tradizionale dell’Italia. Sono fiducioso nel fatto che alla fine lo spirito europeista degli italiani avrà una parte della vicenda».
Lei, come anche Romano Prodi, sembra pensare che l’Europa sia intrinsecamente un patrimonio delle forze progressiste e riformiste. Ma a guardar bene l’Europa è stata più che altro il veicolo per imporre politiche di centrodestra, quali le riforme di mercato della signora Thatcher o il rigore di bilancio del cancelliere Kohl
E' vero. Ma certi assi portanti del pensiero europeo sono diventati ormai patrimonio culturale di una sinistra che ha accettato la logica del mercato Non considero certo che le privatizzazioni siano di destra, come non lo sono il rigore di bilancio o la tutela della concorrenza. Tuttavia bisogna constatare che questi valori si sono affermati a detrimento dell’attenzione di cui avevano bisogno le politiche sociali. Gli stessi governi socialisti sono rimasti impaniati considerando come nazionali le politiche sociali e rinunciando ad usare l’Europa come vincolo per stabilire un livello minimo di welfare. E ora si accorgono quale prezzo rischiano di pagare. Sul fronte opposto, invece, la destra può subire la tentazione di allontanarsi dall’Europa»;
Perché?
«Recentemente ho incontrato la European Round Table, che rappresenta la Business community europea. E loro mi hanno. espresso la preoccupazione che proprio i nuovi governi di destra tendano ad appropriarsi di poteri a danno della Commissione. E dicono: attenzione, noi il mercato integrato lo dobbiamo alla Commissione e non agli Stati nazionali, che semmai hanno resistito. Da Crispi a Bush, la storia lo insegna, i governi di destra sono interessati a proteggere i propri imprenditori piuttosto che a favorire l’apertura del mercato. E quindi c’è il rischio che in un momento di crescita debole ogni governo tenda a salvare le proprie imprese nazionali, che è un modo miope di concorrere allo sviluppo. Per cui assistiamo ad una specie di paradosso europeo, con una sinistra che rimane a difendere il mercato integrato e il rigore delle finanze pubbliche contro le propensioni protezionistiche e di deficit spending che emergono nei governi di centro destra».
Si, però sul fronte opposto la sinistra sconfitta torna a dividersi tra l’ala che ha Integrato i valori europei e l’ala più radicale e intransigente.
«Questo è un errore grave. Ma che ha una sua spiegazione. E’ tipico di tutte le sinistre, nella fase che segue una sconfitta elettorale, dividersi tra quanti pensano che il rimedio sia nell’essere “più di sinistra” e quanti invece vogliono mantenere la centralità. Questo sta succedendo in Italia come in Francia come in Olanda. L’errore dell’ala radicale è nel voler essere più simile a Bertinotti perché pensa che sia lui il rappresentante dei ceti deboli. Il caso francese dimostra che non è così. Si inventano le 35 ore in nome dei ceti deboli, e poi ci si accorge che l’innovazione favorisce i quadri tecnici e intermedi, mentre al ceti deboli costa il posto. E così perde il posto anche il minis Aubry, che delle 35 ore era l'artefice.
Sbaglia, allora, la Cgli?
«Le cose che dice la Cgil sono largamente condivisibili. Perché è vero che c’è una tendenza a portare la liberalizzazione nel mercato del lavoro in termini tali da considerare ogni diritto una rigidità. Pensiamo davvero che l’Europa debba competere nel mondo eliminando ogni protezione sociale per abbattere i suoi costi? La Cgil pone questa domanda. Ha diritto ad una risposta. Il torto di Cofferati è semmai quello di sollevare la questione in termini dirimenti: o con me o contro di me. E così un tema che dovrebbe essere fortemente unificante diventa un’altra questione su cui dividere la sinistra, proprio quando avrebbe più bisogno di restare unita».
Corriere della Sera 13 luglio 2002

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