LE BATTAGLIE PER IL PROGRESSO DEL SOCIALISMO ITALIANO

01 giugno 2006

Queste note sono state tratte dal sito del Gruppo consiliare dei Socialisti Democratici della Regione Veneto www.consiglio.regione.veneto.it


Premessa
Il volontariato e le prime associazioni
La nascita del sindacato
Il movimento cooperativo
La conquista del voto
La campagna per i diritti politici delle donne
La lotta all'analfabetismo
I comuni come strumento di progresso sociale
Per la libertà' contro il fascismo
La repubblica
I patti agrari
L'Europa unita con l'internazionale socialista
La nazionalizzazione dell'energia elettrica
La scuola media unica
Le pensioni e lo stato sociale
Lo statuto dei lavoratori per i diritti nelle fabbriche
Un altro pezzo di welfare:la sanita' per tutti
Le regioni
Più' garanzie e liberta'
Il divorzio
La parita' sostanziale tra uomo e donna
L'aborto e il rinnovamento del costume
Contro l'inflazione, la riforma della scala mobile
Un ecologismo pragmatico
Le nuove frontiere della giustizia sociale: il terzo mondo
Per la ricerca scientifica
Conclusioni



Premessa

Il socialismo ha contribuito in modo decisivo a produrre, nell'Europa , il massimo di benessere, di libertà, di democrazia, di tolleranza, di sicurezza sociale, d'uguaglianza mai raggiunto nella storia dell'umanità.

Questi risultati, che certo sono percettibili, che costituiscono un punto non d'arrivo, ma di partenza, sono stati ottenuti, prima e meglio, nelle grandi democrazie europee, dove più antica è la storia dello Stato unitario, dove la rivoluzione liberale inglese o quella francese hanno lasciato un'impronta profonda e dove, non a caso, la civiltà industriale e il socialismo democratico si sono affermati prima. Ma si sono alfine faticosamente e lacunosamente conseguiti anche in Italia, per una sorta di "miracolo riformista": un "miracolo" perché la forza del socialismo riformista, a differenza che in Gran Bretagna, in Francia, o in Germania, è sempre stata assolutamente insufficiente, schiacciata dagli opposti conservatorismi, quello tradizionale a destra e quello del massimalismo estremista a sinistra. Anche questo è il "miracolo italiano".
E' la storia di tutte le lotte di giustizia sociale, di libertà e di modernizzazione sviluppate da oltre un secolo, per ciascuna delle quali il movimento socialista è stato il principale motore.

Il volontariato e le prime associazioni

Il partito socialista non nasce dall'alto, per una scelta burocratica o ideologica, ma dal basso, dallo spontaneo coagulo di forze di progresso diverse, generose e talvolta confuse. Anche di qui deriva il mix di pragmatismo e di valori morali che ha sempre caratterizzato il socialismo: che oggi, crollate le ideologie, appare moderno, mentre appariva debole allorché nella sinistra italiana prevalevano il marxismo leninismo e l'organizzazione centralizzata. Intorno al mito libertario di Garibaldi e di Mazzini, nella seconda metà dell'Ottocento, i lavoratori si associano per contrastare la povertà, la vecchiaia, la malattia, l'ignoranza, spesso cause l'una dell'altra. Per combatterla nel proprio futuro, in quello degli associati e anche, con un volontariato generoso, nei confronti del prossimo sofferente. Sorgono così le società di mutuo soccorso, casse mutue, "croci" per l'assistenza ai malati.
In Liguria, Lombardia, Piemonte e nelle zone più avanzate del Paese, con il volontariato e l'associazionismo si pongono le basi per la costruzione futura di un forte movimento democratico e socialista. Il seme della solidarietà e dell'associazionismo, con l'emigrazione, è condotto di là dall'Atlantico, dove nel Sud e nell'America settentrionale darà luogo alle migliaia di organizzazioni che portano, come da noi, i nomi di Garibaldi e di Mazzini, i motti di fraternità, libertà, italianità, e che si radica sino alla prima guerra mondiale, in modo più capillare di quello cattolico.
Maestri, medici, filantropi diventano protagonisti di un'avventura solidaristica alla qual è legata la nascita del movimento socialista. Essa sembrava un pezzo di archeologia quando si riteneva che la burocrazia statale potesse e dovesse badare a tutto; ritorna attuale di fronte alla complessità delle nuove povertà e dei nuovi bisogni - spirituali oltre che materiali - caratteristici del nostro tempo.

La nascita del sindacato

E' oggi inimmaginabile la durezza delle condizioni di lavoro prima che il movimento sindacale dispiegasse le sue lotte. Appare un progresso, nel 1886, il divieto di impiegare "in opifici, cave e miniere" i fanciulli con meno di nove anni, e occorreranno lunghe lotte per evitare la violazione generalizzata della legge. Appare un progresso, nel 1902, la limitazione della giornata lavorativa a 11 ore per i minorenni e a 12 per le donne. Soltanto nel 1889 i lavoratori ottengono il diritto di associarsi liberamente e di scioperare ma, ciò nondimeno, magistrati ed esercito continuano, con cavilli giuridici, o con la semplice brutalità, le repressioni. Dalle cannonate del generale Bava Beccaris, nel 1898, a Milano, che lasciano sul terreno, massacrati, ottanta lavoratori, una lunga teoria di morti segna tutte le lotte del lavoro, nelle piazze e nelle campagne.
In questo contesto, se le associazioni volontarie sono l'Humus del movimento socialista, il sindacato è la più importante delle associazioni, quella che si compenetra totalmente con il partito stesso. I dirigenti socialisti sono spesso anche dirigenti sindacali, i militanti più appassionati e capaci provengono dalle categorie operaie più avanzate, a cominciare dai ferrovieri e dai tipografi. Sicurezza contro gli infortuni, garanzie contro l'arbitrio della proprietà, salari e orari più umani sono, giorno dopo giorno, anno dopo anno, le pazienti conquiste del sindacato, che nasce come organizzazione unitaria - la Confederazione generale del lavoro (Cgdl) - il primo ottobre 1906 al congresso di Milano. E che non a caso, sin dalla sua origine, vede una larga maggioranza riformista prevalere sulla corrente anarchica-rivoluzionaria, intesa più ad un'azione politica di sovversione che al raggiungimento di risultati pratici e graduali.
La modernità del riformismo socialista imprime al movimento sindacale una tradizione che resta valida tuttora e non è mai stata cancellata completamente, neppure negli anni bui dell'egemonia stalinista. E' una modernità che può fornire qualche spunto anche al dibattito attuale.
Il sindacato lotta innanzi tutto per la dignità del lavoratore, perché sia soggetto e non oggetto sul luogo di lavoro e trasforma cosi l'impegno sindacale in impegno per la democrazia. "Una gran luce morale illumina la lotta - scrive "l'Avanti!" nel 1898 in occasione dello sciopero nelle risaie di Molinella. - Non è più la lotta per qualche soldo in più, per qualche ora di meno: è la lotta per la personalità civile del lavoratore". E, infatti, il sindacato riformista, già prima dell'avvento del fascismo, imposta il tema della democrazia e della compartecipazione nelle decisioni aziendali.
Lo sciopero non è una protesta incurante delle esigenze e della collettività, degli altri cittadini e lavoratori. Alla vigilia del primo, grandioso sciopero generale, nel 1904, Turati scrive: "Lo sciopero deve rispettare i servizi pubblici essenziali. La soppressione di questi servizi offende le ragioni supreme della civiltà schierando contro di esso quasi tutta la popolazione, non esclusa la maggioranza degli stessi operai".
Una riflessione - questa - da consegnare ai cobas dei trasporti o della sanità.
Il sindacato non deve puntare a obiettivi prevalentemente politici, né a demolire la competitività delle aziende sul libero mercato. Anzi, proprio la pressione sindacale può spingere a puntare sull'ammodernamento tecnologico e organizzativo anziché sul semplice sfruttamento della manodopera. Scrive, infatti, Bruno Buozzi nel 1926: "Non è senza significazione il fatto che le migliori industrie italiane e la più progredita agricoltura si trovino proprio nelle zone dove le organizzazioni classiste hanno agito di più"

Il movimento cooperativo

Quando nel 1892, a Genova, nella sala dei Carabinieri genovesi, nasce formalmente il partito, la simbiosi tra socialismo e cooperazione è indicata dal fatto che, essendo l'adesione aperta non soltanto ai singoli, ma alle libere associazioni, proprio le cooperative sono le più largamente presenti tra i soci fondatori.
Prampolini e Turati stessi sono in quel congresso di fondazione delegati di cooperative. La radice del movimento cooperativo è garibaldina e mazziniana, la stessa dell'associazionismo e del volontariato socialista. Dal primo "magazzino di previdenza", sorto a Torino nel 1854, alla prima cooperativa di lavoro, quella dei vetrai di Altare (Savona) nel 1856, la cooperazione si diffonde con rapidità e successo nelle aree più civili e democraticamente mature del Paese, soprattutto nell'Emilia di Andrea Costa e Camillo Prampolini; rende le sue "case del popolo", come in Germania e in Gran Bretagna, il nerbo della forza organizzativa ed economica del socialismo.
La cooperazione è il prodotto di uno spirito pragmatico. "Noi gettiamo codeste forti società di operai - scrive "l'Avanti.!" di Cesena - in faccia a coloro che gridano i socialisti vagar nelle nuvole, incapaci di atti pratici". Ed è il prodotto di un'impostazione politica non rivoluzionaria, ma riformista: "il suo risultato - afferma Turati - sarà indubbiamente anche quello di involvere in un terreno pratico, pacifico e legale molti moti che altrimenti si esplicherebbero sotto forma di convulsioni e di epilessia sociale".
Il movimento regge e riprende il cammino, molto più forte, dopo le repressioni autoritarie del 1898. Regge anche al fascismo. Ma quando risorge, nel dopoguerra, l'egemonia comunista (raggiunta talvolta con l'intimidazione proprio nell'Emilia, che è il suo cuore organizzativo) tenta di trasformare la cooperazione, come d'altronde il sindacato, in una cinghia di trasmissione della volontà rivoluzionaria del partito.
In qualcosa cioè di antitetico allo spirito originario delle libere associazioni riformiste. "Noi - scrive Togliatti nel 1947 - dobbiamo togliere di mano a questo vecchio riformismo maneggione i centri decisionali e non c'è dubbio che uno degli organismi più grandi e importanti è la Lega delle Cooperative". Ma la lega regge anche alla parentesi stalinista. E' oggi il quarto o quinto gruppo economico del Paese. Forse non nell'etichetta politica della dirigenza, ma nella conduzione pratica, continua la tradizione del riformismo padano.

La conquista del voto

Il valore liberale di decidere sul proprio futuro e di quello della comunità attraverso i diritti democratici era nell'800 un valore di élite, riservato ai ricchi.
Trasformare i valori liberali, a cominciare dal voto, in valori di massa è, sin dalla nascita del partito socialista, un obiettivo centrale. Soltanto con il voto i poveri potranno ottenere, nel Parlamento, le riforme sociali per il loro progresso. E proprio per questo, con l'argomento che l'ignoranza e l'impreparazione impedirebbero una scelta elettorale ragionata, le oligarchie dominanti si oppongono. Una battaglia di libertà diventa anche una battaglia sociale.
Soltanto nel 1882, in un'Italia nel cui Mezzogiorno ancora il 75 per cento dei cittadini è analfabeta, conquistano il voto quanti hanno frequentato le scuole elementari. Soltanto nel 1912, il diritto è esteso praticamente a tutti i cittadini: a quelli che hanno 21 anni, se hanno compiuto il servizio militare; a quelli di oltre 30 anni indipendentemente da ogni altro requisito. Inizia, con il suffragio universale, la storia democratica dell'Italia. Nel 1914, quei giovani che soltanto due anni prima, grazie al servizio militare, avevano conquistato, con il voto, i pieni diritti di cittadinanza, saranno chiamati sulle trincee del Carso e del Piave.

La campagna per i diritti politici delle donne

Se nel 1912 gli uomini hanno conquistato il diritto di voto, per le donne la conquista sarà riconosciuta soltanto nel 1919, ma sulla carta degli atti parlamentari: la nuova legge non troverà, infatti, applicazione a causa di successive difficoltà pratiche e del fascismo e bisognerà attendere il 1946 perché per la prima volta le donne si rechino alle urne.
Anche questa battaglia porta la firma innanzi tutto del partito socialista. "Non potrà mai esservi nel mondo libertà e giustizia sino a che una metà del genere umano sarà schiava dell'altra metà, sino a che i doveri individuali non saranno in perfetta armonia coi diritti", scriveva Garibaldi nel 1879 per argomentare la richiesta del voto alle donne. "Il voto - dice Anna Kuliscioff nel 1910 - è la difesa del lavoro, e il lavoro non ha sesso". E soltanto in quell'anno, nel suo XI congresso, il partito socialista, primo fra tutti, viene pienamente e unanimemente conquistato alla causa del voto alle donne.
Il timore della influenza clericale sul voto femminile e anche il pregiudizio sulla priorità della lotta per i diritti di classe rispetto a quella per i pari diritti tra i sessi hanno frenato il movimento socialista. Queste remore riaffioreranno in una parte della sinistra all'atto delle battaglie per il divorzio e l'aborto e, in particolare per quanto riguarda le preoccupazioni elettorali, si dimostreranno clamorosamente infondate. Il partito socialista si pone, storicamente, come quello che più di ogni altro ha agito per i pari diritti e le pari opportunità.

La lotta all'analfabetismo

Se il voto è lo strumento formale per raggiungere le conquiste sociali, l'istruzione è lo strumento sostanziale, che trasforma le plebi in cittadini coscienti. E d'altronde, nel 1894, 900 mila lavoratori che avrebbero voluto votare sono respinti dal seggio elettorale perché non dimostrano un livello sufficiente di alfabetizzazione. Gli sforzi del movimento socialista, a cavallo del secolo, sono puntati all'elevazione dell'obbligo scolastico, che nel 1904 raggiunge i 12 anni di età, e soprattutto al suo effettivo adempimento. Ma non soltanto.
Nella scuola si formano, a contatto con le miserie del tempo, generazioni di maestri socialisti, come il personaggio de "Il cuore" di De Amicis. Si sviluppa un'opera di insegnamento per gli adulti e di educazione civica basata sul volontariato. L'Avanti! stesso, che nella prima decade del '900, è l'unico quotidiano nazionale e popolare, è letto collettivamente nei circoli e sui luoghi di lavoro, diventa una "bibbia" laica dei poveri, lancia campagne martellanti e apparentemente ingenue che, con linguaggio moderno, potrebbero essere oggi definite "pubblicità progresso": contro l'alcolismo, come oggi contro la droga; contro la bestemmia e il maltrattamento degli animali; per l'emancipazione della donna e per il controllo delle nascite; per il rispetto delle regole igieniche.
Sulle prime pagine del suo quotidiano, come nella vasta attività editoriale del movimento socialista, il presupposto di ogni campagna di progresso, di un saldo legame nazionale tra i militanti, di un'unificazione a livello popolare dell'Italia, attraverso una cultura e un linguaggio comune, che superi i dialetti regionali, è proprio l'alfabetizzazione. Anche questa opera concreta è tra i meriti storici dell'umanesimo socialista.

I comuni socialisti come strumento di progresso sociale

Il diritto di voto, l'alfabetizzazione, la presa di coscienza politica sono i . presupposti per i primi successi concreti. Dove esiste un più ricco terreno culturale e dove la rivoluzione industriale ha formato una classe operaia matura insieme a una classe media innovativa, i socialisti ottengono la guida delle prime amministrazioni comunali.
La Milano del sindaco Caldara, conquistata nel 1910, entra nel mito del riformismo socialista. Tutte le concrete politiche sociali che oggi appaiono consuete sono concepite e realizzate dai socialisti in quegli anni, tra mille resistenze e difficoltà. Nascono le mense popolari; i ricoveri per i vecchi bisognosi; le aziende municipalizzate per fornire il latte, il pane e i trasporti a prezzi accessibili, la refezione scolastica; le case popolari; gli ospizi per i poveri; le campagne di vaccinazione e di prevenzione sanitaria contro la pellagra, la tubercolosi, la sifilide. Ciò che oggi è diventato talvolta assistenzialismo parassitario, allora era assistenza vitale, modernizzazione, eseguita con un'onestà e un'efficienza proverbiali. I comuni a guida socialista diventano un modello di buona amministrazione e un concreto saggio di ciò che un governo socialista del Paese potrebbe significare.
Lenin rimprovererà con disprezzo ai dirigenti socialisti di esitare nel lanciare la rivoluzione per il timore di perdere i loro municipi. Ma questi municipi sono rimasti nella storia come isole di progresso, esempi insuperati per decenni, seme di una tradizione duratura. Un assessore socialista, Lionello Beltramini, non a caso a Milano, realizzerà per la prima volta una campagna di vaccinazione gratuita e obbligatoria contro la poliomielite, precedendo dì molti anni il piano nazionale.
Nel 1964, a Milano, dove prima della guerra '15-'18 fu attuato dai socialisti il più vasto programma di case popolari, ancora i socialisti costruiranno 120 mila vani di edilizia pubblica: la realizzazione più grande a tutt'oggi compiuta nel settore.

Per la libertà contro il fascismo

I socialisti non sono certo i soli a combattere il fascismo nelle piazze d'Italia sino al 1922; nella terra di Spagna, con le brigate internazionali, dal 1936 al '38; nelle nostre montagne, con la resistenza partigiana, dal 1943 al '45; in una ininterrotta, ventennale azione politica nell'esilio e nella clandestinità. Forse, i socialisti forniscono un apporto militare inferiore a quello comunista, per le minori capacità organizzative del loro partito. Ma nessuna forza è altrettanto moralmente e politicamente coerente in questa lotta. Non il mondo cattolico, perché la Chiesa alfine si adatta alla pacifica convivenza con il regime. Non il mondo liberale, perché la sua classe dirigente, la grande borghesia italiana, nella stragrande maggioranza, finisce per accettare il regime. Neppure il mondo comunista, anche se questa verità risulta ancora oggi appannata dalle nebbie della propaganda.
I comunisti hanno infatti delle cadute di impegno per due vizi strutturali: il legame di ferro con Mosca; l'abitudine a considerare il valore della libertà meno significativo degli assetti economici. Per quest'ultima ragione, Umberto Terracini non percepisce nemmeno il tragico significato della marcia su Roma e scrive: "Si tratta di una crisi ministeriale un po' mossa. Possano i proletari italiani capire finalmente che le classi conservatrici , che si sono servite del terrore bianco, e lo Stato democratico, che si pone al loro servizio, sono alla stessa stregua i loro mortali nemici". Per la medesima ragione, dalla equiparazione tra democrazia e fascismo, i comunisti passano, nel 1929, addirittura a quella tra socialismo democratico e fascismo, adottando la famosa formula staliniana del "socialfascismo".
Dal legame con Mosca, e dalla prevalenza delle sue ragioni di potenza, deriva invece, nel 1939, dopo l'accordo Hitler- Stalin, un'altra rottura di coerenza. Quella che per oltre un anno porta i comunisti a inveire contro l'imperialismo occidentale e a predicare un approccio pacifista verso la Germania hitleriana. "I Tasca, i Modigliani, i Saragat, i Nenni, questi farabutti - scrive "Stato operaio" difendendo la politica comunista di non intervento contro il nazismo - fanno la stessa politica che fece Benito Mussolini nel 1914-15 per l'intervento in guerra a favore dell'imperialismo dell'Inghilterra e della Francia". Il fuoco del conflitto e l'immenso sacrificio compiuto nella Resistenza cancelleranno queste pagine nere della storia comunista. Ma il Partito dei martiri antifascisti, da Matteotti ai fratelli Rosselli, e degli eroi, come Pertini, può rivendicare, insieme alla lotta, l'unicità della sua assoluta coerenza politica anti

La repubblica "Grazie Nenni"

"Grazie Nenni": il 6 giugno 1946, Ignazio Silone, direttore dell'"Avanti!", titola in questo modo il fondo del quotidiano. Nel giorno della vittoria referendaria, al di là della retorica, i socialisti danno atto al loro segretario di essere stato, insieme al partito, il fattore decisivo per la sostituzione della Repubblica alla monarchia. Erano stati tiepidi, almeno in parte, i democristiani e i vecchi partiti liberaldemocratici. Avevano manifestato dei momenti di incertezza i comunisti, che nel 1944, improvvisamente, scontrandosi con il partito socialista, si erano adattati ad appoggiare il governo monarchico di Bonomi. La fermezza repubblicana dei socialisti, di un movimento nato nel nome di Garibaldi e Mazzini, il cui stesso segretario, Pietro Nenni, ha iniziato la sua militanza politica nel partito repubblicano, conta invece un secolo di storia ininterrotta. Sconfiggere la monarchia significa, per i socialisti, sconfiggere l'autoritarismo di una dinastia provinciale e militare, che ha alle sue spalle le repressioni anti operaie e la connivenza con il fascismo. E non è un caso che i socialisti siano l'elemento trainante in questa battaglia libertaria. In Italia infatti, sempre, sino ai giorni nostri, il partito socialista si è fatto carico della difesa di quei valori liberaldemocratici che, nel resto dell'Occidente, sono stati storicamente la bandiera, innanzi tutto, della borghesia. Da noi, la maggioranza della borghesia si è adattata, a cavallo del secolo, alle politiche forcaiole cresciute all'ombra della corona. Si è adattata al fascismo. Una parte di essa, negli anni '70, sperando in una parabola trasformista, di graduale assimilazione al sistema economico, come quella subita dal fascismo, stava per adattarsi al comunismo.
Al posto della borghesia, a più riprese, è toccato al movimento socialista persino di difendere il mercato dai monopoli e dal protezionismo doganale. Anche per questo, lo scontro storicamente decisivo tra democrazia e autoritarismo, e cioè la campagna referendaria per la Repubblica, è stata vinta "grazie a Nenni".

I patti agrari

E' difficilmente immaginabile l'arretratezza nelle campagne che l'Italia repubblicana eredita dai regimi autoritari. Specialmente nel Sud, dove i meridionalisti giustamente osservano che una agricoltura un tempo fiorente, e grande esportatrice, è stata distrutta con l'unità nazionale dal protezionismo imposto, nella seconda metà dell'800, per tutelare dalla concorrenza internazionale la nascente industria del Nord.
Tanto evidente è l'ingiustizia sociale, che la Costituzione stessa, all'art. 44, chiede espressamente "più equi rapporti sociali nelle campagne". Ma l'equità resta sulla carta e passano alla storia le lotte epiche, spesso sanguinose, dei contadini poveri, l'occupazione delle terre, gli scontri con la polizia, i latifondi nelle mani di blasonate famiglie assenteiste, la mafia come milizia privata di controllo sociale (guardania) agli ordini della proprietà, la strage di Portella delle Ginestre, quando, nel 1947, la banda di Salvatore Giuliano spara in Sicilia sui lavoratori riuniti per celebrare il Primo Maggio.
In particolare, lo scontro politico sui patti agrari, concluso con la nuova legge nel 1964, è durissimo, e vede i socialisti, ancora una volta, stretti tra l'ostruzionismo della destra conservatrice e l'opposizione del massimalismo comunista.
Nel frattempo, la modernizzazione ha provocato un enorme aumento della produzione agricola, con una contestuale riduzione della mano d'opera. Dal 1959 al 1968, 2 milioni e 600 mila lavoratori abbandonano i campi. Finisce un'epoca, dalla immigrazione dei meridionali nelle aree urbane del Nord, nasce l'Italia che conosciamo. Quella non più agricola, ma industriale, che oggi, con la terza rivoluzione, si avvia a diventare post-industriale.
I tempi sono immensamente cambiati. Per l'agricoltura, la preoccupazione non è più quella della penuria, ma della sovrapproduzione. E tuttavia resta un problema che già si era presentato negli anni 50: il conflitto tra protezionismo e competitività, nel quale i socialisti avevano contrastato il conservatorismo di destra e quello comunista.
Allora, i conservatori sostenevano il protezionismo agricolo nazionale contro la libera concorrenza nella Comunità europea, temendo che l'agricoltura italiana non reggesse la competizione; oggi, i conservatori difendono un protezionismo non più nazionale ma europeo. Incredibilmente, la parte prevalente del bilancio comunitario è impiegata non per grandi iniziative di ricerca scientifica o di progresso, ma per l'assistenzialismo agricolo, per tenere alti i prezzi, per comperare le eccedenze di produzione e distruggerle proprio mentre non soltanto il Terzo Mondo, ma anche l'Unione Sovietica sente i morsi della fame.

Per l'Europa unita, con l'Internazionale Socialista

Le radici dell'europeismo socialista risalgono addirittura al secolo scorso. Sono legate al sentimento pacifista e all'ideale di fraternità tra i lavoratori di ogni nazione. Nel 1896, Turati scrive: "noi vagheggiamo l'unità mondiale e in un domani più prossimo gli Stati Uniti d'Europa, i quali moltiplichino con provvido intreccio le varie potenzialità dei popoli senza cancellarne le singole fisionomia". Il gruppo dirigente socialista in esilio a Parigi durante il fascismo (da Nenni a Saragat) consolida una mentalità internazionale; persino nel pieno della guerra, l'obiettivo europeista è espresso con forza, a prefigurare il nuovo ordine del continente dopo la catastrofe. Nel 1943, dalla sperduta isola di Ventotene, un gruppo di socialisti al confino guarda lontano. Ernesto Rossi, Eugenio Colorni, Altiero Spinelli e altri lanciano un "Manifesto" per l'unità europea. Nel Nord ancora occupato dai nazifascisti, nel 1944, i socialisti "ritenendo che i popoli europei soltanto in una stretta solidarietà potranno risollevarsi dalle rovine", chiedono una Federazione europea "fondata sull'esigenza popolare di stabilire un'unità economica e politica".
Dopo la parentesi frontista, rotti i rapporti con il Pci nel 1956, quando socialisti e comunisti, di fronte ai carri armati sovietica Budapest si schierano su opposte barricate, il partito è pronto all'appuntamento del 1957, allorché approva in linea di principio la nascita del Mercato comune europeo sancita dai "Trattati di Roma".
Da allora, la posizione dei socialisti verso l'Europa, alla cui costruzione danno un impulso decisivo grandi dirigenti come il belga Henry Spaak, è costante. Sono a favore dell'unità economica ma anche, compiendo un passo avanti rispetto ai conservatori, dell'unità politica. Vogliono infatti non l'Europa dei mercanti, ma quella dei popoli, vedono nell'Europa l'occasione per stringere i rapporti tra i partiti socialisti e democratici fratelli, allargando i confini delle lotte sociali. L'europeismo riformista dell'Internazionale si scontra con le destre nazionaliste: con il gollismo in Francia e anche con il conservatorismo insulare della signora Thatcher. A sinistra, in Italia, si scontra un conservatorismo di segno opposto - quello comunista - poi superato. Pajetta alla Camera, nel 1957, motivando il voto contrario alla costruzione europea, la bolla come "alleanza scellerata fra i monopoli dissimulata, altro non c'è, dietro la pluridecennale ostilità comunista all'Europa unita, se non il timore che essa blocchi la penetrazione dell'URSS verso occidente e anzi, con la sua superiore prosperità, costituisca una irresistibile, pacifica forza di attrazione verso i Paesi dell'Est. Una prospettiva - questa - che con il crollo del muro di Berlino si è d'altronde puntualmente concretata.
L'antieuropeismo del Pci si stempererà con il tempo, ma ancora nel 1978, di fronte a un altro passo decisivo verso l'unità, l'adesione al sistema monetario europeo unico (SME), i comunisti dicono no.
La lunga marcia di avvicinamento verso l'integrazione europea fornisce, tra le altre, anche una lezione di ottimismo, perché indica come le previsioni catastrofiche e la sfiducia nell'Italia si siano costantemente dimostrate infondate. Nel 1957, quando si avvia l'abbattimento delle barriere doganali per l'industria, i conservatori di destra (in questo caso la Confindustria di Furio Cicogna) e i conservatori di sinistra (i comunisti) sostenevano che la debole industria italiana, senza le stampelle del protezionismo, sarebbe crollata, travolgendo operai e imprenditori: è avvenuto il contrario, si è aperta, stimolata dalla libera concorrenza internazionale, una fase senza precedenti di ammodernamento del nostro sistema industriale. Nel 1978, i conservatori giuravano che la fragile lira italiana sarebbe stata travolta dall'adesione al sistema monetario comune. E ancora una volta si sono sbagliati.
Con la assunzione, da parte socialista, delle maggiori responsabilità di governo, il contributo italiano all'unità e politica dell'Europa diventa decisivo. Nel 1985, essendo Craxi, come capo del Governo, presidente di turno della Comunità, la Cee compie un passo storico, con la revisione dei Trattati del 1957, verso più ampi poteri sovranazionali. Nel novembre 1990, il vertice Cee di Roma, piegando, come cinque anni prima, la resistenza conservatrice della signora Thatcher, che subito dopo contribuirà a costarle la carica di premier, avvia, la creazione di una moneta comune europea e la totale integrazione.
Certo, dagli anni '50, la spinta dei socialisti italiani verso l'unità europea significa anche spinta verso l'Internazionale Socialista, verso una comunità cioè di partiti riformisti che aiuti a cancellare il massimalismo e il provincialismo parzialmente assimilato negli anni del frontismo. Non è facile a causa dell'influenza dei comunisti che, per decenni, individuano i socialisti democratici europei come traditori. E contagiano anche il movimento sindacale. Si deve aspettare il 1973 perché la Cgil, abbandonata la Fsm (la Federazione Sindacale Mondiale governata dal sindacato sovietico di regime) aderisca alla Ces, di ispirazione socialdemocratica. Il primo sasso contro la Fsm, con coraggio poco ricordato, è lanciato dal segretario socialista della Camera del Lavoro di Milano, Bruno Di Poi, che nel 1961, a Mosca, solo, tra migliaia di delegati, vota no al congresso della federazione.

La nazionalizzazione dell'energia elettrica

Nel 1962, mentre il Pci attacca frontalmente l'alleanza politica tra socialisti, laici e democristiani, accusando i primi di tradimento e di cedimento alle forze conservatrici, il centro sinistra realizza, con la nazionalizzazione dell'energia elettrica, la più incisiva e traumatica tra le sue riforme, reggendo una campagna di aggressione senza precedenti condotta dalla grande stampa, dalla Confindustria, dal mondo economico in genere.
L'obiettivo della nazionalizzazione non è avviare la demolizione del libero mercato. E' quello di cancellare le discriminazioni tariffarie, spesso presenti a danno del Mezzogiorno, per un bene, l'energia elettrica, che rappresenta la prima condizione dello sviluppo industriale. L'obiettivo è erogare l'energia non secondo la logica del profitto a vantaggio dell'erogatore, che potrebbe non coincidere con gli interessi generali del Paese e delle imprese, bensì secondo una logica di programmazione e di sviluppo.
L'unico danno all'economia nazionale, semmai, lo hanno causato le società ex elettriche, che hanno perso una grande occasione perché non hanno saputo né voluto investire con successo, in altri settori, l'enorme liquidità incassata con gli indennizzi. A riprova di quanto sia facile predicare la retorica della libera imprenditoria quando si realizzano profitti in posizione di oligopolio iperprotetto e sia invece più difficile misurarsi, senza rete, sul mercato. Gli ex monopoli elettrici infatti ottengono dallo Stato una somma colossale per i tempi: 1. 500 miliardi. Soltanto poco più della metà è investita in settori produttivi, e anche questa metà non dà buoni frutti. Un bel saggio di ciò che può accadere fornendo i capitali a propagandisti del vetero capitalismo, ma non a veri capitalisti.
Nel clima di oggi, l'aggressione contro il sistema dei partiti, la esaltazione di qualunque impresa privata e la demonizzazione di qualunque impresa pubblica, indipendentemente dai risultati, per principio, costituisce una manifestazione di conformismo. In questo clima, appare straordinaria la capacità, allora dimostrata dal centro sinistra, di scontrarsi su una cosi importante nazionalizzazione, con il potere economico. Eppure, mentre ingiustamente si carica di significati ideologici e pregiudiziali la presunta contrapposizione tra pubblico e privato, si dimentica che la statalizzazione dell'energia elettrica, avvenuta d'altronde in paesi non certo collettivisti, come la Gran Bretagna o la Francia, è stata in Italia l'unica determinata da una scelta politica. Tutte le aziende pubbliche sono tali perché i privati che precedentemente le controllavano sono falliti e lo Stato si è sobbarcato il compito di salvare l'occupazione e risanare i bilanci.
Così, ancora ai tempi del fascismo, è nato Iri. Mentre l'Eni si è sviluppato quasi dal nulla, dotando l'Italia di una industria petrolifera internazionale indispensabile al suo sviluppo. Naturalmente, si può valutare l'opportunità o meno di vendere aziende e beni pubblici ai privati. Ma ricordando un episodio significativo. Nel 1985, Craxi, nella sua qualità di presidente del Consiglio, bloccò la vendita del gruppo alimentare Sme a De Benedetti, già pattuita per 400 miliardi.

La scuola media unica

All'inizio del secolo, il movimento socialista aveva lottato per la scuola elementare obbligatoria di cinque anni, aveva posto l'alfabetizzazione come obiettivo prioritario. Dall'ultimo dopoguerra, si pretende un passo più in là, come i tempi impongono: altri tre anni di scuola media unica e obbligatoria.
Il primo ottobre 1963, con la legge Gui-Codignola (dal nome del ministro democristiano dell'Istruzione e del responsabile scuola del partito socialista), l'obiettivo è raggiunto. E' secondo l'espressione allora coniata dai socialisti una delle prime e più importanti "riforme di struttura" consentita dal nuovo clima del centro sinistra. Precedentemente, dopo la quinta elementare, si aprivano in pratica per gli alunni tre strade. I benestanti andavano alla scuola media, dove si insegnava il latino e si preparava l'accesso ai licei e all'università. I poveri prendevano qui, a 11 anni, una strada che mai più si sarebbe incrociata con quella della classe dirigente: andavano alle scuole professionali, di arti o mestieri. Le bambine povere, spesso, peggio ancora, specialmente nel Mezzogiorno, erano inghiottite dalle pareti di casa, destinate ai lavori domestici, nell'attesa del matrimonio. La scuola media unica ha dunque un profondo significato sociale e di uguaglianza. Lo spartiacque tra la futura classe dirigente e i futuri lavoratori a livello esecutivo è tracciato non più a 11 anni, quando l'unico criterio è il censo della famiglia d'origine, ma a 14 anni, quando si può meglio valutare anche il rendimento scolastico e le inclinazioni del ragazzo. Le bambine non sono più tanto precocemente avviate a una discriminazione su base classista. Il "plafond" di istruzione comune a tutti i cittadini, e anche il tratto di vita in comune, si allargano, introducendo una maggiore uguaglianza e coesione sociale.

Le pensioni e lo stato sociale

La data di nascita della sicurezza sociale risale al 30 aprile 1969, quando il ministro socialista del lavoro Brodolini, tra le molte proteste dell'opposizione comunista che si astiene nel voto alla Camera vara definitivamente la riforma del sistema. Da quel momento, gli anziani poveri non devono più chiedere assistenza , hanno il diritto alla pensione sociale, e 766 mila persone, per lo più donne, iniziano a percepire un pur esiguo assegno mensile
Alla svolta della riforma Brodolini, segue, negli anni, una serie di innovazioni. Non ultima per importanza il pagamento delle pensioni ai lavoratori italiani emigrati all'estero i quali, in alcuni Paesi ad altissima inflazione, ad esempio il America meridionale, vedono ricompensati da uno Stato italiano normalmente avaro i loro sacrifici: percepiscono infatti, acquistando improvvisamente un nuovo status sociale, in lire e cioè in una moneta forte, somme modeste per l'Italia, ma enormi, ad esempio, per gli standard retributivi argentini o brasiliani.
La riforma Brodolini, che pure non deve essere un punto di arrivo, ma di partenza, rappresenta il risultato di lunghe lotte, condotte seguendo una direttrice ideale coerente dalle prime associazioni volontarie di mutuo soccorso, dalla tutela degli ex lavoratori almeno negli impieghi statali (che ha fatto sognare a generazioni la tranquillità del pubblico impiego), alla conquista, nel 1920, della obbligatorietà, anche per le aziende private, di sistemi assicurativi.
Adesso, si intravedono le nuove frontiere del welfare state, mentre il problema degli anziani, a causa dell'invecchiamento della popolazione, tende a diventare l'impegno di solidarietà numero uno. Come, al tempo del baby boom, lo Stato ha saputo concentrare le sue energie nella costruzione di asili, scuole materne ed elementari, così oggi, in pieno boom dei capelli bianchi, occorre uno sforzo altrettanto mirato e imponente. Occorre una edilizia studiata con intelligenza per gli anziani, che eviti la forzata convivenza dell'ospizio o la altrettanto innaturale solitudine. Ad esempio, con edifici per abitazioni dai servizi centralizzati.
Occorre organizzare il volontariato "per" gli anziani, ma anche quello "degli" anziani fisicamente validi; prevedere lavori part time e corsi di insegnamento, aggiungere vita agli anni, aiutando chi ha dei bisogni, ma nel contempo utilizzando l'esperienza di chi invece ha la volontà e la capacità di fare. Occorre una moderna industria del tempo libero mirata sui gusti dell'anziano che quando, come spesso avviene, ha mezzi economici, può fornire grandi opportunità di sviluppo economico a intere regioni.

Lo statuto dei lavoratori per i diritti nelle fabbriche

Una certa generazione di sindacalisti ricorda bene le fabbriche degli anni '50, a cominciare dalla Fiat dell'ingegner Valletta, dove tenere in tasca l'"Unità" o l'"Avanti!" già era una buona premessa per il licenziamento.
Il 15 maggio 1970, come scrive il titolo del quotidiano socialista, "La Costituzione entra in fabbrica", si realizzano quei principi di libertà e dignità che attribuiscono al dipendente, sul luogo di lavoro, il ruolo di soggetto di diritti, non di oggetto (spesso in modo umiliante) delle decisioni altrui. E' approvato lo Statuto del lavoratori, che porta formalmente la firma di un ministro democristiano del Lavoro, ma che costituisce il coronamento dello sforzo estremo di un ministro socialista, Giacomo Brodolini.
Proprio questo dirigente socialista infatti, che ha introdotto una svolta profonda nelle politiche del lavoro, dopo aver riformato il sistema delle pensioni, con la collaborazione di uno staff di esperti guidato da Gino Giugni, ha fatto della liberalizzazione e modernizzazione delle relazioni industriali il suo obiettivo. Lo ha perseguito in lotta contro il tempo sapendo di essere minato da un male incurabile, e ha consegnato la nuova legislazione, ormai definitiva in ogni aspetto, al suo successore.
Lo Statuto dei lavoratori, che pone le norme italiane all'avanguardia, era già stato delineato nel 1952 da un grande sindacalista comunista, di sentimenti autonomi e riformisti: il segretario della Cgil, Giuseppe Di Vittorio. Ma la proposta può essere ripresentata con probabilità di successo nel clima di apertura verso i problemi sociali creato dal centro sinistra e dalla crescita del movimento sindacale.
La battaglia è tuttavia dura, perché, come spesso avviene, bisogna superare, da una parte le comprensibili resistenze di una destra da "padrone delle ferriere", dall'altra il massimalismo dell'opposizione comunista, che è sempre pronto a chiedere qualcosa in più di quanto sia possibile realisticamente ottenere, e che infatti non vota a favore del nuovo Statuto.
Oggi, le relazioni industriali, come sperava Giacomo Brodolini, hanno un assetto libero e razionale quale negli anni '50 e '60 non era neppure immaginabile. Ma, soprattutto negli anni '70, non sono mancati poi gli eccessi in senso opposto a quelli, precedenti, dell'arbitrio padronale. Erano gli anni del tentativo comunista di occupare ideologicamente le professioni e la società civile. Gli anni di "Magistratura Democratica", "Medicina Democratica", "Psichiatria Democratica", "Genitori Democratici". Sigle nelle quali "democratico", come nei regimi dell'Est, significa comunista. Magistrati politicizzati si sono perciò concentrati nelle Preture del lavoro e hanno teorizzato la cosiddetta "interpretazione evolutiva" del diritto. Una interpretazione cioè non fedele della legge, ma finalizzata alla evoluzione verso obiettivi salvifici della società, rivolta a tutelare, nel "conflitto di classe", gli interessi degli oppressi contro quelli degli oppressori. Se una simile interpretazione del diritto - si teorizzava - avesse scassato le imprese determinandone la ingovernabilità, tanto meglio: si sarebbero in tal modo fatte esplodere le contraddizioni del "sistema capitalista". Così sono nate le riassunzioni imposte dai giudici di estremisti, e persino di brigatisti, in fabbrica. Così si è favorito il clima di intimidazione in tante grandi aziende di Milano, Torino e Genova. Ma questa e storia degli anni di piombo. Né si può attribuire a un difetto originario dello Statuto dei lavoratori l'applicazione forzata che ne è stata fatta. Oggi, si può affermare che l'antica aspirazione del movimento socialista e sindacale a una libertà sostanziale sui luoghi di lavoro è realtà consolidata, e accettata dalle parti; che dopo gli estremismi è prevalsa una giurisprudenza equilibrata.

Un altro pezzo di welfare: la sanità per tutti

Come il sistema pensionistico, anche l'assistenza sanitaria appare oggi carente. Giustamente, si lamentano gli sprechi, l'inefficienza, lo straripamento della presenza politica che, dal ruolo di indirizzo generale, è passato impropriamente a quello di gestione. Tuttavia, occorre guardare anche al passato, ricordando che, insieme alla sicurezza sociale, il servizio sanitario gratuito per tutti i cittadini è la pietra basilare di un welfare state che in Italia, pur criticabile, è da tempo garantito.
Come per le pensioni, non è da sempre così. Il timore della malattia, come quello della vecchiaia, hanno anzi inciso profondamente sulla psicologia e sui comportamenti economici degli italiani, radicando una propensione al risparmio tra le più alte del mondo, proprio in previsione di momenti difficili.
Non è cosi dappertutto. Infatti, in nessuna delle due grandi potenze sono assicurate le garanzie sanitarie costruite in Europa, e in Italia, dalla tradizione socialdemocratica. In Italia, le innovazioni e le tappe verso l'assistenza sanitaria generalizzata per tutti i cittadini in quanto tali, portano il segno dell'iniziativa socialista. Con il governo di centro-sinistra, nel 1963, si costituisce per la prima volta lo stesso ministero della Sanità e ministro è il socialista Giacomo Mancini. Nel 1968, gli ospedali sono organizzati, con la riforma del ministro socialista Mariotti, all'interno del sistema pubblico, e l'assistenza viene perciò garantita in essi gratuitamente e senza distinzioni a tutti i cittadini. Nel 1978 si compie, con la riforma sanitaria del ministro socialista Aniasi, il passo decisivo: la creazione del servizio sanitario nazionale e l'eliminazione del vecchio sistema mutualistico. Il riformismo e la modernizzazione della Sanità avanzano tra resistenze oggi inimmaginabili. Quando il ministro Mancini decide di ripartire le quote retributive fra i tre gradi gerarchici negli ospedali seguendo il rapporto quattro-due-uno (quattro al primario, due all'aiuto, uno all'assistente ospedaliero) i baroni delle cattedre gridano alla bolscevizzazione e pretendono di continuare ad assegnare all'assistente la piccola frazione di retribuzione che ciascun primario, arbitrariamente, ritiene opportuna.
Quando, sempre Mancini, seguendo la già precedentemente ricordata iniziativa pilota di un assessore socialista a Milano, lancia la vaccinazione di massa col metodo Sabin, che eliminerà la poliomielite (causa, ancora nel 1963, di 4500 giovani vittime) burocrati e gruppi di interesse invocano difficoltà insormontabili per la carenza di impianti di conservazione, e si devono rastrellare, adattandoli, migliaia di piccoli frigoriferi per i gelati Motta.
Le resistenze alle riforme sanitarie vengono dalle corporazioni, dagli istituti religiosi, che talvolta vedono nella Sanità uno strumento di presenza e di potere nella società, vengono dalle lobbies farmaceutiche. Ma infine le innovazioni, faticosamente, si realizzano.
Certo, anche il welfare state sanitario non rappresenta un punto di arrivo, ma di partenza. C'è stata demagogia e ingenuità nel pensare che un meccanismo di tipo scandinavo potesse funzionare bene trasferito nel nostro Mezzogiorno, ed è necessario ora superare il grande gap di efficienza tra Nord e Sud del Paese. Occorre sburocratizzare una struttura che rischia di essere al servizio non dei cittadini ma di se stessa; introdurre elementi di concorrenza; ripristinare gli incentivi al mercato e alla professionalità. Occorre anche ridurre l'influenza dei partiti. Ma senza correre il rischio di trasformare la macchina sanitaria in una gigantesca organizzazione mangiasoldi affidata esclusivamente agli addetti ai lavori.

Le Regioni

Sin dagli inizi del secolo, come è naturale per un movimento libertario e democratico, i socialisti puntano a spezzare le strutture burocratiche e autoritarie dello Stato centrale: lo Stato dei Prefetti, dei questori e dei funzionari dell'amministrazione militare anziché quello dei sindaci e del consiglieri eletti dal popolo. Dopo una lunga azione rivolta soprattutto alla autonomia dei comuni, nel 1919 l'istanza regionalista entra nel programma del partito. Chiusa la parentesi fascista, già all'indomani della Liberazione, nell'agosto 1945, Pietro Nenni scrive sull'"Avanti!": "è inevitabile che si torni a un insegnamento che appartenne a Cattaneo ed è nella necessità del nostro organismo statale. Una autonomia può correggere gli eccessi che si convengono nella nostra affrettata unità. La nostra unità comanda la libertà locale, promotrice di energie e non generatrice di inerzia".
E infatti, la carta costituzionale del 1947, finalmente, dispone l'ordinamento regionale. Che tuttavia per decenni resterà, appunto, sulla carta, per quella "inadempienza dolosa" di cui scrive Piero Calamandrei nel 1949, allorché afferma: "dalla Costituzione parlano a noi le voci familiari del Risorgimento. L'art. 115, che riconosce l'autonomia regionale, riecheggia, dopo un secolo, il monito di Carlo Cattaneo: bisogna che le regioni si sveglino alla vita pubblica".
Sarà necessario attendere il nuovo clima del centro sinistra perché la realizzazione delle Regioni diventi una prospettiva possibile. Con le altre "riforme di struttura", le Regioni diventano il prezzo da pagare, per la destra democristiana, all'alleanza con i socialisti. Ma la resistenza dei conservatori e della grande stampa, questa volta, è di lunga lena. Soltanto nel 1967, finalmente, si approva la legge elettorale regionale e soltanto alle elezioni amministrative del 1970 sono insediati i primi consigli regionali. Un'altra storica riforma è conquistata soprattutto attraverso l'impegno dei socialisti.
Ma l'esperienza delle regioni si dimostra oggi inferiore alle aspettative e il regionalismo socialista punta, con una più vasta autonomia, a nuovi passi avanti.

Più garanzie e libertà

All'indomani del primo governo di centro sinistra, il 6 dicembre 1963, il direttore Franco Gerardi titola a tutta pagina 1"Avanti!": "Da oggi ognuno è più libero". Poteva allora apparire una ingenua esagerazione propagandistica. Eppure oggi chi ne ha l'età può valutare quanto in effetti siano cresciute le libertà e le garanzie collettive individuali, nelle leggi come nel costume. Tutte le battaglie libertarie e garantiste, rese possibili dal nuovo clima politico, vedono i socialisti in prima fila.
Lentamente sono smantellate le bardature autoritarie del vecchio stato monarchico e fascista. Si procede finalmente alla piena attuazione della Costituzione e il più importante tra gli istituti portati dalla carta alla realtà pratica è certamente il referendum popolare. Con esso l'Italia vera manifesta un volto ancora più moderno e avanzato di quella rappresentata in Parlamento, dicendo sì, con larghe maggioranze, al divorzio, all'aborto, alla responsabilità civile dei giudici, a risorse energetiche esenti dal rischio nucleare. Lo svuotamento del referendum attraverso un uso banalizzante e distorto costituisce oggi un pericolo. Ma le lotte referendarie sulla giustizia e sul nucleare la dicono lunga sulla resistenza, in Italia, di mentalità conservatrici ed elitarie. Ancora nel 1987, una coalizione di direttori di giornali, magistrati, professori universitari, scienziati nuclearisti, in modo neppure troppo dissimulato, avanza l'argomento che questi due referendum siano intollerabili, perché portano al voto su problemi troppo tecnicamente e giuridicamente complessi per essere valutabili da semplici e inesperti cittadini. Ai socialisti tocca contrapporre le stesse ragioni usate all'inizio del secolo verso coloro che, adducendo l'ignoranza delle masse, si opponevano al suffragio universale.
Se il sì nel referendum che stabilisce la responsabilità civile dei giudici costituisce una vittoria e se l'esperienza dimostra che le solite previsioni catastrofiste erano infondate, certo le condizioni della giustizia costituiscono tuttora la più bruciante sconfitta per il garantismo libertario. Scrive Leonardo Sciascia: "L'amministrazione della giustizia è pessima. E la colpa è di un ordinamento che ha dato ai giudici tanto potere e nessuna responsabilità. Poi la colpa è della lottizzazione politica, che c'è stata anche nel campo dell'amministrazione della giustizia e della magistratura. Questo stato di cose segna la morte del diritto in Italia". In effetti, nella magistratura degli anni '50 e '60, organica al potere democristiano e conservatore, si è prodotta col tempo una mutazione genetica per l'opera di penetrazione condotta dai comunisti negli anni '70 e '80. Si è aperta così la stagione di giudici prima protagonisti di inchieste tanto politicamente clamorose quanto inconcludenti e poi candidati del Pci alle elezioni. Dei sostituti procuratori tesi più a "difendere cause che a giudicare cause".
Oggi la magistratura dove, accanto a tanti ottimi giudici, pesa questo impasto di corporativismo e autoritarismo di origine conservatrice e comunista, ha in pratica un controllo quasi esclusivo della politica di repressione criminale, ma la sua organizzazione costituisce un caso unico al mondo. Il numero dei magistrati non può essere sollecitamente aumentato. Non possono essere spostati dove la lotta al crimine lo richieda. Non rispondono gerarchicamente neppure ai superiori. Avanzano nella carriera automaticamente, per anzianità, ma senza che al grado corrisponda la funzione: come in un esercito dove chi ha il grado di generale pretenda di fare il sergente. L'inefficienza della giustizia si legge in poche, semplici cifre. Mentre in Paesi simili al nostro, come la Gran Bretagna o la Francia, i carcerati sono 70.000, in Italia sono 30.000: altri 30.000, tanti quanti sono in carcere, si trovano in libertà non per una scelta ragionata, per un eccesso di tolleranza o di comprensione, ma semplicemente per decorrenza dei termini di carcerazione preventiva, perché il processo non è stato fatto in tempi ragionevoli.

Il divorzio

Argentina Altobelli, dirigente sindacale dei contadini, una delle fondatrici del movimento socialista, scrive nel 1902:"il divorzio è legge dello Stato in Francia e nel Belgio, Paesi cattolicissimi: or come va che la Chiesa in questi Paesi ha acconsentito al divorzio e vorrebbe negarlo in Italia?"
Passa molto più di mezzo secolo, si susseguono, soprattutto nel dopoguerra, proposte di legge socialiste, e soltanto nel 1970 l'anomalia italiana è cancellata, con l'approvazione della legge Fortuna-Baslini sul divorzio. Ma la parte conservatrice del mondo cattolico non si rassegna, la Chiesa continua a dare una risposta chiusa e irrazionale alla semplice domanda posta nel 1902 dall'Altobelli, nonostante che il divorzio sia diventato nel frattempo legittimo in tutto il mondo civile. Si pretende un referendum, sperando che il Paese reale sia più arretrato del Parlamento, ma non è così. Nel 1974, la vittoria è definitiva, il 59% dei votanti dice di no all'abrogazione del divorzio. Soprattutto il meridione, che si espresse nel 1946 a favore della monarchia, che è la riserva dei voti neri o della destra democristiana, svela un volto moderno del quale si dovrà tenere conto. Persino la Napoli allora missina e sottoproletaria sceglie il divorzio con 100 mila voti di scarto. E Eduardo De Filippo scrive: "I napoletani sanno che da chi nega una libertà civile come il divorzio non potranno aspettarsi giustizia sociale".
Ancora una volta, l'Italia raggiunge, prevalentemente per iniziativa dei socialisti, una conquista democratica che nel resto d'Europa è stata raggiunta dalle forze liberal-democratiche con decenni di anticipo. Ancora una volta le previsioni apocalittiche dei conservatori, che annunciavano il crollo dell'istituto familiare, saranno smentite dai fatti.
Il divorzio ha un significato di libertà individuale, diventa possibile grazie al clima di modernizzazione introdotto dal centro-sinistra, contribuisce a dimostrare non infondato il titolo dell"Avanti!" "Da oggi ognuno è più libero". Ma segna anche una svolta politica di fondo: l'Italia non è più una nazione a sovranità limitata sotto la tutela della Chiesa, nella quale i cattolici intransigenti possano imporre la loro volontà e i loro costumi al resto dei cittadini. "Ha vinto l'Italia del Risorgimento, della Resistenza, della Repubblica", dice Craxi all'indomani del referendum del 1974, e in effetti lo Stato clericale, e quindi antirisorgimentale, con la legalizzazione del divorzio, subisce un duro colpo.
Lo scontro sul divorzio vede il partito socialista, appoggiato dalle esigue forze dei partiti laici, e soprattutto dai liberali, guidare il fronte progressista. Ma vede anche parzialmente incerti o divisi i due maggiori partiti. Nella Dc infatti la linea clericale e conservatrice non è unanime. Forlani, ad esempio, nel fuoco della campagna referendaria, usa toni distensivi, e sollecita il rispetto verso i gruppi cattolici e i credenti "che in coscienza arrivano a conclusioni diverse dalle nostre". I comunisti temono a lungo gli aspetti per loro negativi della battaglia divorzista: sottovalutano un problema di libertà che qualcuno ritiene prevalentemente "borghese", sopravvalutano, con eccessivo pessimismo, l'influenza clericale sull'elettorato femminile popolare. E d'altronde, all'Assemblea costituente, era stato proprio il Pci di Togliatti, per gli stessi motivi, ad approvare, insieme a destra e Pci, contro socialisti e laici, I Patti Lateranensi tra Mussolini e la Chiesa, che accettavano, contraddicendo i principi risorgimentali, la clericalizzazione dello Stato. Non solo. In Commissione, all'Assemblea costituente, il segretario comunista si astenne su una proposta democristiana che intendeva introdurre quale principio costituzionale l'indissolubilità del matrimonio. E cambiò posizione soltanto in aula, votando contro, dopo le aspre reazioni, provocate all'interno dal suo stesso partito, dall'enormità del voltafaccia a favore delle impostazioni clericali.
La storia del divorzio è anche un esempio del ruolo che il coraggio individuale e il libero giornalismo possono assumere in una battaglia per i diritti civili. Il coraggio e quello manifestato da Loris Fortuna, che negli anni '60 è un dirigente socialista friulano quasi sconosciuto e concentra ogni sua energia nella campagna divorzista. Il giornalismo è quello di una scuola libertaria, socialista e milanese che potrebbe dare ancora oggi lezione ai retori dell'anticonformismo a buon mercato che mai hanno scalfito, con le loro invettive contro "il palazzo", i veri Potenti.
Nel 1956, come già si è ricordato, a Milano, nasce, con il Giorno, il primo quotidiano non controllato dalla Confindustria, ma dall'ENI di Enrico Mattei, il primo giornale popolare, aperto al mondo, anticolonialista e profondamente democratico. Lo dirige un grande innovatore, Gaetano Baldacci che, quando lascia la poltrona di direttore a Italo Pietra, un'altra straordinaria figura di giornalista socialista, passa a fondare, nell'Italietta dei rotocalchi sulle regine e i divi, il primo settimanale politico popolare: "Abc". Gli succede, come animatore di Abc, Attilio Pandini, ex redattore capo dell"Avanti!" di Milano. Proprio dall'incontro tra Loris Fortuna e il settimanale nasce, su questo terreno nuovo e fertile, per una libera scelta di giornalisti socialisti, la campagna per il divorzio. "Abc" martella con inchieste e testimonianze, arriva a vendere un milione di copie organizza, attraverso un tagliando che i lettori staccano e firmano, l'invio al Parlamento di milioni di petizioni per il divorzio.
La stampa, per la prima volta in Italia, assume una funzione di traino sulle forze politiche. E non è un caso che il giornalista animatore della battaglia provenga proprio dal quotidiano socialista.
Nella tipografia dell"Avanti!" di Milano, carica di storia, insieme a Bettino Craxi e agli operai socialisti, Loris Fortuna brinderà la sera del 12 maggio 1974 alla vittoria del divorzio. Fortuna è friulano ma a Milano è di casa. Nelle elezioni politiche del 1968 infatti, i socialisti milanesi vicini alla linea riformista e libertaria di Craxi, hanno votato per il futuro segretario socialista, per lui e per Eugenio Scalfari.

La parità sostanziale tra uomo e donna

Passa quasi un secolo dal momento in cui il movimento socialista fa propria la battaglia per la non discriminazione tra donne e uomini sui luoghi di lavoro a quando, nel 1983, con un decreto del governo Craxi, è istituito il Comitato Nazionale per la parità. E ancora molto tempo purtroppo passerà perché la parità diventi concreta, le conquiste di costume infatti non possono essere decretate per legge.
E' nella Milano del 1890, al Circolo "Genio e lavoro", che Anna Kuliscioff lancia lo slogan " prima di tutto, a lavoro eguale, salari uguali". E aggiunge: "se l'operaio deve tutte fare le fatiche del mondo per sbarcare il suo lunario, la donna operaia è addirittura un martire: dopo aver lavorato per 12, 13, 14 ore con un salario irrisorio, tornando a casa deve pensare a preparare da mangiare, pensare ai figli, aggiustare i pochi miseri stracci".
La società dei consumi ha sostituito quella della penuria, ma alle donne lavoratrici è a tutt'oggi riservato quel quid di affanno e di sacrificio in più che contribuisce, insieme alla vera e propria discriminazione, a rendere difficile la conquista di pari opportunità di successo a parità di impegno e professionalità.
Per questo, mentre Papa Leone XIII, nella enciclica "Rerum Novarum" del 1891, pur aperta socialmente, considera le donne "fatte da natura per i lavori domestici", tutti gli sforzi del movimento socialista sono rivolti a creare non soltanto le condizioni contrattuali e giuridiche, ma anche pratiche, per il lavoro delle donne: dagli asili nido alla refezione scolastica. I passi avanti legislativi sono pochi e incerti sino alla Repubblica, che come si è già ricordato, per la prima volta dà il voto alle donne, e sino alla nuova Costituzione, che tuttavia troverà le prime significative applicazioni soltanto a partire dagli anni '60, nel clima di rinnovamento aperto dal centro- sinistra.
E' del 1963 la legge sull'accesso delle donne ai pubblici uffici e alle professioni. E del 1971 quella che regola il congedo delle lavoratrici madri dalle aziende prima e dopo il parto. E' del 1977 la normativa sulla parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro. Proprio questa legislazione trova uno strumento di applicazione pratico nel comitato per la parità istituito dal governo Craxi. Ma sono e saranno le lotte delle donne, in Italia come in tutto il mondo, a ottenere i risultati decisivi.
Infatti, ovunque è fortissima, ancora oggi, la discriminazione: nei Paesi dell'Est, l'accesso ai lavori pesanti e a professioni scientifiche, come la medicina (prevalentemente in mano alle donne) comporta, per la durezza estrema della vita quotidiana, cui le lavoratrici fanno fronte in modo quasi totale, un ritmo massacrante; nei Paesi occidentali, le donne sono ancora relegate in settori ritenuti femminili e, secondo uno slogan diffuso, potranno dire di aver conquistato la parità quando "una incapace siederà su una poltrona dirigenziale". Un capitolo a parte, lungo e doloroso, richiederebbe la situazione nel Terzo Mondo, dove le donne pagano il prezzo prevalente del sottosviluppo.

L'aborto e il rinnovamento del costume

La campagna per la liberalizzazione dell'aborto è, per molti aspetti, il replay di quella per il divorzio. Anche qui, l'integralismo cattolico non si rassegna all'approvazione della legge (avvenuta nel 1978), pretende la controprova del voto popolare, sperando che il Paese reale sia diverso da quello legale, ed è clamorosamente sconfitto, nel referendum del 1981. Anche qui, la modernizzazione legislativa, che allinea tardivamente l'Italia alle regole degli altri Paesi avanzati, matura lentamente, dopo molte proposte che non giungono in porto, dopo piccoli passi parziali, tutti sotto il segno della prevalente iniziativa socialista e di coraggiose battaglie radicali. Si parte da un costume ancora congelato dal patto di ferro fra fascismo e Chiesa cattolica e dal peso sproporzionato dell'Italia contadina e meridionale rispetto a quello dell'Italia urbana più vicina all'Europa. Non soltanto l'aborto è considerato un crimine ;è vietata persino la propaganda anticoncezionale, secondo una filosofia ben sintetizzata dal titolo stesso del capitolo del codice destinato alla materia: "Delitti contro l'integrità e la sanità della stirpe".
Infatti, due mesi dopo, arriva la prima proposta di legge sull'argomento, avanzata dal socialisti. Può sembrare incredibile, ma allora la battaglia abortista era criminalizzata. E d'altronde, una giustizia che libera sanguinari mafiosi perché non trova il tempo per processarli, ha ancora processato e, bontà sua, assolto, nel 1990, con decenni di ritardo, un gruppo di radicali rei di istigazione all'interruzione della maternità.
Loris Fortuna è tra gli animatori della propaganda liberalizzatrice, ma per costruire uno schieramento parlamentare sufficientemente ampio occorre il pieno impegno del Pci, che invece tarda. Anzi, ancora nel 1973, interpellato in una tribuna elettorale a proposito dell'aborto, Enrico Berlinguer dichiara: "E' una questione

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