Ragusa Andrea, I comunisti e la società italiana. Innovazione e crisi di una cultura politica (1956-1973), Introduzione di Giovanni Scirocco, Lacaita, Manduria-Bari-Roma 2003
Il testo, elaborazione di una tesi di dottorato, ha, tra gli scopi dichiarati, quello di ricercare le radici della crisi di identità della sinistra italiana (in realtà, esclusivamente del PCI) di fronte alle trasformazioni del mondo contemporaneo, crisi che, non casualmente, nasce in un periodo di grandi cambiamenti (politici, sociali, internazionali), quello degli anni 1956-1968. La scelta di utilizzare come categorie di analisi ideologia e modernizzazione, rinnovamento e continuità non evita però quel rischio di autoreferenzialità che peraltro l’autore sembra avere ben presente (p. 11). E’ un rischio che corrono tutti coloro che si occupano di storia politica e a cui si può parzialmente ovviare ampliando le fonti studiate, nella ricostruzione del contesto storico e del dibattito culturale che si analizza: non è purtroppo il caso di questo volume, nel quale le fonti utilizzate, sia pure intelligentemente, si limitano, di fatto, allo spoglio di “Rinascita” e anche le testimonianze di autorevoli dirigenti del PCI non vengono sfruttate come avrebbero potuto. Risulta inoltre abbastanza misteriosa la mancata utilizzazione del materiale archivistico della direzione del PCI “per problemi legati a vincoli di riservatezza posti dal Partito dei Democratici di Sinistra che ne detiene la proprietà” (p. 13). In ogni caso, dalla ricerca di Ragusa emerge, una volta di più, una storia di “occasioni mancate” da parte del gruppo dirigente del PCI, ancora fortemente vincolato dal legame internazionale con l’URSS e dalla necessità di mantenere “l’equilibrio tra i due rischi estremi del ‘settarismo massimalistico’ e dell’ ‘opportunismo riformistico’” (p. 16). Vincoli che incidono direttamente, dopo il ’56, nell’interpretazione del rapporto esistente tra socialismo e democrazia, messo alla prova dalla nascita del centro-sinistra, di fronte al quale, secondo l’autore, “almeno fino a tutto il 1962, nel quadro di una scelta di morbida opposizione, la radice riformista emerse in una parte importante del gruppo dirigente” anche se “nascosta sotto le raffinatezze involute di un linguaggio assai criptico” (p. 101). Una radice riformistica (ma sempre in guardia contro ogni possibile pericolo di “deviazione socialdemocratica”) che trovò in Giorgio Amendola il proprio principale rappresentante: le sue critiche si concentrarono “contro lo schematismo settario e massimalistico” rinvenuto nelle “posizioni di ‘alternativa operaia’ (che) non potevano essere quelle del PCI perché esse isolavano la classe operaia, distruggendo il suo sistema di alleanze ed impedendole di svolgere una funzione nazionale di classe dirigente” (p. 109). In definitiva, come nota lo stesso Ragusa, nel tentativo impossibile di quadrare al cerchio, tra l’adeguarsi al nuovo e il “rispetto della continuità storica”, si preferì quest’ultima (p. 136), anche tenendo in considerazione il dibattito che animava il movimento comunista internazionale dopo la rottura tra sovietici e cinesi. Una strategia sostanzialmente ribadita dall’XI congresso, tenutosi all’EUR nel 1966, che vide la sconfitta di Ingrao e della sua linea pre-movimentista, e che Ragusa legge, non a torto, strettamente collegata con quella successiva del “compromesso storico”. Non sorprende, quindi, che il gruppo dirigente comunista uscito dall’XI congresso rimanesse stupito dalla contestazione giovanile, con la sua carica antiistituzionale e assembleare, cui il PCI tentò di contrapporre il “partito nuovo” (anche se risaliva a vent’anni prima…) con i suoi corollari, centralismo democratico compreso, come dimostrò la radiazione del gruppo del “Manifesto”. E, in fondo, il “compromesso storico”, proprio per la sua natura di “tentativo di aggiornare il tema togliattiano delle alleanze, di fronte alla disgregazione degli interessi e dei blocchi sociali messa in moto dal biennio movimentista” (p. 227) assumerà un carattere difensivo, destinato a protrarsi sino alla “solidarietà nazionale” ed oltre, nell’ipotesi, destinata al fallimento, di riuscire a saldare rivendicazioni e riforme, mantenimento del legame internazionalistico e partecipazione al governo.
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