Giorgio Agosti, Dopo il tempo del furore. Diario 1946-1988, Einaudi, Torino 2005, pp. 762
I diari di Giorgio Agosti (commissario politico delle formazioni GL in Piemonte durante la Resistenza, questore di Torino fino al 1948, dirigente industriale e organizzatore culturale nel dopoguerra) rappresentano il naturale completamento di un bellissimo volume apparso ormai 15 anni fa, l’epistolario tra lo stesso Agosti e un altro esponente di spicco della resistenza piemontese, Dante Livio Bianco (Un’amicizia partigiana. Lettere 1943-45, Meynier, Torino 1990). Ritroviamo infatti in queste pagine (il cui nucleo più consistente, non casualmente, si sviluppa dopo il 1953, anno della morte prematura dell’amico Livio) tutta una serie di elementi, messi in risalto, con attenzione e passione, da Giovanni De Luna (prefatore di entrambi i volumi), che caratterizzano la vita e l’azione (politica solo in senso lato), di un uomo e dell’ambiente che lo circondava, numericamente ristretto, ma culturalmente significativo. Alla passione per la storia (ma anche ai dubbi sulla sua razionalità) si accosta così naturalmente la spinta ad operare (“non è necessario sperare per intraprendere, né riuscire per perseverare” è uno dei motti preferiti, sulle orme di Guglielmo il Taciturno, dell’Agosti combattente partigiano), il sano realismo di un certo spirito piemontese che, per sua stessa ammissione, accomuna laici al limite dell’anticlericalismo come Agosti (attentissimo però alle dinamiche interne della Chiesa) ai vari Don Bosco e Cottolengo. Riappare quindi con forza il tema (oggetto principale delle ricerche di Claudio Pavone) della Resistenza come scelta morale, non in base ad un astratto principio di giustizia, ma come una sorta di antifascismo esistenziale che si tradurrà, nel dopoguerra, di fronte all’impossibilità di operare sul terreno della politica, in un lavoro culturale, privo di ogni retorica, per il “dovere di non dimenticare” e che lo porterà a fondare il centro Gobetti (1961) e l’Istituto per la storia della resistenza piemontese, che oggi è dedicato al suo nome. Ma i diari di Agosti sono anche altro, mostrando innanzitutto un’attenzione continua, piuttosto anomala nel panorama italiano, per la politica internazionale, improntata, anche in questo caso, ad un realismo diffidente nei confronti di ogni forma di neutralismo e contrassegnata, di conseguenza, da una costante critica nei confronti della politica di potenza dell’URSS e dell’atteggiamento di fedeltà del PCI (un anticomunismo che sfata, se ce ne fosse stato bisogno, la mitologia di una certa vulgata sull’azionismo). Ad essa fa riscontro l’ammirazione (non esente da stupore per gli errori e le contraddizioni della sua diplomazia) per il “sincero rispetto per la libertà” che caratterizza la storia degli USA. Un rispetto per la libertà e la democrazia che sembra invece mancare, agli occhi di Agosti, in De Gaulle (nei confronti del quale sembra nutrire una vera e propria ossessione, non priva di qualche contraddizione) e, ancora di più, nei nazionalismi arabi: il sostegno alla politica israeliana nel Medio oriente rimane saldo alla fino alla guerra dei 6 giorni, per poi sfociare in aperta disincanto nel 1982, con l’occupazione del Libano: “L’Israele delle nostre speranze è veramente morta” (p. 703). Degna di attenzione è anche la capacità di scrittura di Agosti, soprattutto in alcuni passaggi che tendono alla riflessione di carattere aforismatico e (questa volta confermano la vulgata) ad una sorta di elitismo (“una minoranza che ragiona val più del gregge che osanna”, 27 maggio 1958, p. 128) che si traduce in una limitata attenzione nei confronti dei movimenti sociali del dopoguerra, con la parziale eccezione di quello studentesco. Contrariamente a quanto osservato da Alberto Arbasino, si tratta però di un moto dell’animo (e, forse, di un’inclinazione politica) ben diverso dal qualunquismo, soprattutto per la mancanza di qualsiasi tono di acrimonia, anche di fronte alle delusioni del centro-sinistra. Con alcuni dei protagonisti di quella stagione politica (Lombardi, La Malfa) Agosti era stato in stretto contatto, ma i pochi uomini che l’azionista piemontese elegge a proprio modello di vita e di comportamento sono Ernesto Rossi, Piero Calamandrei e Gaetano Salvemini. E’ proprio con la morte di quest’ultimo, avvenuta nel settembre 1957, che il diario assume la dimensione del rifugio interiore, che si accentua sempre più quando, di fronte all’avanzare della vecchiaia, “ ti resta come un rimpianto infastidito per quello che non hai saputo o voluto fare e che non potrai fare mai più, per le poche cose buone che hai saputo cogliere e per le molte occasioni che hai perduto” (15 marzo 1976).
Recensione di Giovanni Scirocco - Università di Bergamo