Gaetano Arfé, Scritti di storia e politica, a cura di Giuseppe Aragno, La Città del sole, Napoli 2005
Gaetano Arfé è tra i pochi storici italiani che hanno ancora il privilegio di essere, oltre che studioso ed interprete, anche testimone e protagonista del tempo che ha vissuto. Appartiene quindi ad una categoria (ed è, per certi versi, uno degli ultimi esponenti di una generazione) che ha accomunato personaggi come Garosci, Valiani, Venturi: partigiani e contemporaneamente storici, godendo così di quell'ottica di visuale "leggermente angolata rispetto all'universo" così ben descritta da Eric Hobsbawm nella sua autobiografia. Ne è una prova questa raccolta di scritti recenti dello storico napoletano, pubblicata, in occasione dei suoi 80 anni, a cura di Giuseppe Aragno, che ha scritto anche la bella, ampia e partecipe prefazione, nella quale emergono tutte le caratteristiche del “fare storia” di Arfé, le sua capacità narrative (“tu non sei uno storico, tu sei un cantastorie”, lo apostrofa ammirato un vecchio compagno dopo averne sentito la commemorazione di Andrea Costa), il rapporto tra il giornalista, il militante e lo studioso, la lunga fedeltà alla storiografia etico-politica (tra Croce, incontrato nel 1942, che gli regala una copia del suo libro sul materialismo storico, e Gramsci, letto avidamente alla fine della guerra), il senso della responsabilità connesso al mestiere di storico. Una concezione della storia (e della politica) affermata peraltro dallo stesso Arfé: “La spinta a occuparmi di storia mi venne non dall’accademia ma dagli eventi dei quali ero partecipe e dal bisogno che avvertivo di intenderne le genesi e le ragioni e di qui il dovere che sentivo di lavorare e scrivere non soltanto per le corporazioni degli storici, ma anche, e principalmente, per le persone tra le quali vivevo e operavo” (p. 61). Inutile nasconderlo: è una visione delle cose che sembra entrata in crisi in questi ultimi quindici anni e gli scritti qui raccolti sono infatti pervasi dal senso della sconfitta, dell’appartenenza al “mondo di ieri”, ma anche, contemporaneamente, dal desiderio di non arrendersi. In quest’ambito si collocano i problemi affrontati da uno storico dichiaratamente non “neutrale” (e critico di quello che, a buon diritto, definisce “nichilismo storiografico”) come Arfé: il socialismo come “regola di vita” e l’unità europea come obiettivo (scoperti contemporaneamente in quell’esperienza di “Internazionale della montagna” che fu la resistenza combattuta in Valtellina); la difesa delle ragioni della Resistenza e della Costituzione (non come esercitazione retorica, ma come problema storico) e la critica serrata nei confronti del revisionismo storiografico e dei suoi caratteri di “offensiva ideologica non più contro un’interpretazione della Resistenza indubbiamente segnata dagli anni, ma contro la Resistenza in sé, per la demolizione del suo ethos politico” (p. 171), che è in fondo tutt’uno con quella che Arfé definisce (riprendendo un’espressione di Bruno Kreisky) la “sovraideologia” che caratterizza, in tutto l’Occidente, gli ultimi anni del secolo appena trascorso, un misto di liberismo acritico, di culto del progresso tecnologico e del “nuovismo”, di disprezzo nei confronti della politica. Non sono però semplicemente scritti di occasione, quelli presenti in questa raccolta, ma toccano anche alcuni nodi del dibattito storiografico, ad esempio la motivata critica dell’utilizzo della categoria di “guerra civile” per quanto riguardo il periodo 1943-45, in quanto essa “sfuma l’importanza di due fatti tra loro connessi: che la Resistenza fu manifestazione nazionale di un fenomeno di dimensione europea; che il governo di Salò sorse per volontà di Hitler e visse col sostegno determinante delle truppe di occupazione” (p. 209). Oppure la polemica verso i cultori della “morte della patria”, verso i quali ha parole di indignazione, ma anche di rara efficacia: “A ferirla, colpevole Mussolini, complice necessario Vittorio Emanuele III, erano stati gli assassinii impuniti di Giacomo Matteotti e di Giovanni Amendola, a violentarla erano state le leggi fascistissime che sopprimevano ogni libertà, a scempiarla le guerre d’Etiopia e di Spagna, a infamarla le leggi razziali, a decretarne la definitiva condanna la dichiarazione di guerra a fianco della Germania nazista. A darle l’ultima mortale ferita era stato il colpo di stato del 25 luglio. Quel giorno morirono insieme la patria di Mussolini e quella del re” (p. 352). Sembrerebbero le parole e i toni di un nostalgico passatista, di un pessimista ad oltranza. Ma nell’umanesimo storico di Arfé rimane comunque sempre una nota di speranza (“non sempre l’aprile porta la primavera, ma è certo che essa tornerà”, p. 405), di chi, conscio di aver combattuto una buona battaglia, può, senza eccessivo orgoglio, ma anche senza timore, dichiarare: “Et s’il éetait à refaire, je referai ce chemin”. E allora auguri, Gaetano, e ancora un lungo cammino!
Giovanni Scirocco