VITA E MORTE DELL’IRI. IL RUOLO DEL PCI/PDS di Alberto Benzoni del 4 dicembre 2019
04 dicembre 2019
Forse l’Iri meritava di
morire. O forse no. O forse, più probabilmente, poteva riprendere a vivere,
riscoprendo, in un universo politico-economico molto diverso, il ruolo che
aveva svolto a meraviglia nell’arco di decenni: “fare le cose che i privati non
possono o non vogliono fare”, per dirla come Keynes.
Fu invece liquidato alla chetichella, senza processo e senza dibattito.
Condannato a morte non per questioni di merito ma in base a pregiudiziali
ideologiche. Sull’onda della “rivoluzione di mani pulite”. Ed a opera delle
forze che ne erano state le immediate beneficiarie: il PCI/PDS e i “tecnici” al
governo del paese all’indomani della caduta della prima repubblica. Forze che,
in linea generale, avrebbero, nell’ultimo decennio del secolo, presieduto alla
distruzione di tutti i pilastri fondamentali del vecchio ordine (sostituiti,
successivamente, da un nuovo disordine; ma questo è un altro discorso).
Nei decenni successivi è ricomparso fugacemente all’orizzonte. Quasi sempre in
relazione a problemi specifici che né lo stato (leggi, uso della spesa
pubblica) né i privati erano in condizione non dico di risolvere ma nemmeno di
affrontare. “Qui ci vorrebbe l’Iri”, avrebbe detto qualcuno; ma per essere
subito zittito sotto il segno del “non si può”; che è poi il segno di quel
disfattismo intellettuale che caratterizza la sinistra italiana e che segnerà,
temo, la sua definitiva sconfitta.
E, allora, questa nota non intende parlare dei morti. Ma dei vivi. Del perché
il maggiore anzi l’unico partito della sinistra uscito indenne, anzi, in
apparenza, più potente che mai dalle macerie della prima repubblica abbia
sentito il dovere di liquidare una struttura pubblica che ne era stato l’asse
portante e, in un certo senso, il simbolo.
A mio modesto parere, lo ha fatto perché “era nelle sue corde”. In linea
generale perché era un partito ideologico. Nello specifico perché non aveva mai
amato l’Iri; e, diventato negli anni ottanta braccio armato di Scalfari e c.,
aveva imparato da loro a odiarlo.
L’essere un partito ideologico non ha giovato al Pci. Gli ha certo garantito un
ruolo assolutamente egemonico nella cultura politica della prima repubblica
(mentre il consenso era assicurato dalla sua funzione tribunizia e dalla
lezione togliattiana). Ha affinato anche la sua capacità di interpretare le
cose che erano successe; ma al prezzo di essere del tutto incapaci di prevedere
quello che stava per succedere.
In questa seconda veste, il Pci viene colto completamente di sorpresa dal crollo
dell’Urss, del campo socialista e dalla scomparsa del sole dell’avvenire. Ma
non ha problemi né soffre traumi nell’interpretarli; e nella tranquilla
consapevolezza di continuare a marciare nel senso della storia. Come stelle
polari: al posto dell’Urss, gli Stati Uniti; al posto dell’Onu, l’Europa; al
posto del pacifismo, l’interventismo democratico; al posto dello stato e dei
partiti, la società civile; al posto della questione meridionale, quella
settentrionale; al posto dell’onnipotenza della politica, il “non si può”; e,
infine, al posto dello stato imprenditore, i “capitani coraggiosi”. Un modo
semplice e insieme meraviglioso per continuare a sentirsi superiori agli altri;
pur avendo venduto l’anima al diavolo e senza neanche accorgersene.
Nel corso specifico dell’Iri, il cambiamento di casacca veniva però da lontano.
Perché, agli occhi del Pci di allora, aveva il difetto ineliminabile di essere
stato concepito dal fascismo e portato ai suoi massimi fasti dalla convergenza
sinergica della grande generazione di servitori dello stato, nata prima del
fascismo e sopravvissuta al medesimo, della Dc fanfaniana, dei grandi fautori
della programmazione e dell’economia mista (Saraceno, Vanoni, Glisenti) e,
infine, della sinistra sociale democristiana. Tutta gente che aveva
l’imperdonabile difetto di voler cambiare il nostro paese, senza chiedere il
concorso del Pci.
A partire dagli anni settanta tutto questo finì. Perché era esaurita la sua
spinta propulsiva: finita la generazione di servitori dello stato, esaurito il
ciclo dei grandi investimenti infrastrutturali, persa la capacità di progettare
il futuro. Fu allora che l’Iri diventò da collaboratore autonomo della politica
nazionale, servo passivo dei politici e degli interessi locali; in un processo
di degrado di cui il Pci fu non solo partecipe ma anche ispiratore. Al punto di
dire, nel corso di quello che fu forse l’ultimo dei grandi dibattiti
parlamentari dedicati alle partecipazioni statali, che la risposta alla crisi
del sistema era l’introduzione di maggiori controlli e di maggiori meccanismi
di partecipazione: leggi sindacati, leggi enti locali, leggi Pci. L’esatto
opposto di quanto proposto – nel senso del recupero dell’autonomia progettuale
- dal documento dei funzionari dell’Istituto, la cui divulgazione aveva portato
al dibattito.
Gira e rigira il peccato originale e quindi inespiabile del sistema rimaneva
quello di essere una creatura nata sotto il fascismo e cresciuta sotto la Dc.
Messo così l’argomento non era vendibile all’esterno. Ma, ricucinato in salsa
moralistica lungo tutto il corso degli anni ottanta (Iri, uguale Caf, boiari di
stato, casta, inefficienze, spreco di danaro pubblico, cattedrali nel deserto,
oscuri traffici, sfida alle direttive europee e così via), avrebbe avuto il
pregio di individuare i nemici da colpire e, al tempo stesso, di moltiplicare
le forze desiderose di colpirli.
Il resto è noto. Ed era scontato. Per la cronaca a scrivere la condanna furono
anche due vincitori del 1993: un cattolico democratico, Andreatta e
l’immancabile commissario socialista, Van Miert.
Ad assistere al tutto, Prodi, allora presidente dell’Iri. Poi presidente del
Consiglio . Poi Presidente della Commissione europea. Poi, di nuovo presidente
del Consiglio. Poi, Nume tutelare, a disposizione.
Allora non reagì. Poi, con l’andare del tempo, deplorò, sempre sommessamente,
l’accaduto.
Tutto secondo copione. E non c’è altro da aggiungere.