VITA DURA PER LE CITTA’ METROPOLITANE, DOMENICA AL VOTO di Roberto Biscardini
05 ottobre 2016
Domenica prossima i consiglieri comunali dei comuni dei alcune Città Metropolitane, tra cui Roma, Milano e Torino, sono chiamati a votare per l’elezione del loro consiglio metropolitano in attuazione della legge Delrio, un’altra delle tante riforme nate male negli ultimi anni.
Quella che, in nome di una “straordinaria” novità, l’abolizione delle provincie, ha tolto ai cittadini delle vecchie province il diritto di voto, per trasferirlo in seconda istanza ai consiglieri comunali ed eleggere (salvo eccezioni) apparati di partito.
Queste Città Metropolitane, nate due anni fa, ritornano al voto per effetto del rinnovo dei consigli comunali dei comuni capoluogo. Mentre per la proprietà transitiva i Sindaci delle Città Metropolitane non li vota nessuno e saranno automaticamente, Raggi, Sala e Appendino, senza che i cittadini della intera città metropolitana abbia potuto esprimersi.
A questi sindaci, buona fortuna, sperando che facciano meglio dei loro predecessori che presi dal governo dei loro Comuni, non si sono spesi molto per dare corpo e sostanza a queste nuove istituzioni. Hanno amministrato i buchi di bilancio e i tagli del governo, proprio quel governo che a parole vorrebbe che queste istituzioni siano il luogo delle strategie di sviluppo economico delle grandi aree urbane e con l’altra le ammazza con i tagli di personale e di risorse. In coerenza con la logica che le città metropolitane sono per il governo un pezzo del programma più generale di spending review.
Dicevamo, sindaci, che non hanno preso a cuore il problema, che non si sono sentiti investiti dall’importanza di governare questa fase costituente, e che hanno vissuto questa esperienza più come una tegola che gli era capitata sulla testa piottosto che come una opportunità.
Non l’hanno fatto nel dibattito iniziale per l’approvazione degli statuti e non l’hanno fatto quando si trattava di delineare attraverso i piani strategici le funzioni e le ragioni fondanti di queste nuove istituzioni.
Dall’esperienza di alcuni di noi, che hanno avuto l’onore, senza privilegi, di partecipare alla cosiddetta fase costituente, si possono trarre delle conclusioni molto elementari.
Primo. Enti locali non eletti direttamente dai cittadini, sono un controsenso, non hanno peso politico, e i loro governanti non si sentono in dovere di rispondere a nessuno. Questi enti si trasformano presto in strutture tecnocratiche, sostenute esclusivamente dalle logiche degli apparati di partito, quei partiti che designano gli eletti attraverso le elezioni di secondo grado.
Secondo. Le elezioni di secondo grado, creano dei mostri, perchè tutti i consiglieri, sindaco compreso, sono in perenne conflitto di interesse rispetto ai comuni in cui sono stati eletti in via diretta. Di fronte ai conflitti inevitabili tra questioni locali e questioni metropolitane quali interessi difendono, chi privilegiano?
Terzo. Qualche difficoltà, in attesa di una modifica legislativa per l’lezione diretta di sindaci e consiglieri, potrebbe essere superata se si facesse prevalere un’attenzione particolare nei confronti dei comuni che sono parte costitutiva delle città metropolitane. Attraverso una ristrutturazione e riorganizzazione dell’ente per favorire almeno la partecipazione diretta, costante e permanente di tutti i comuni, attraverso i loro sondaci e le loro diversificate maggioranze. Ben sapendo che questo confligge con la logica istitutiva, con cui il governo Renzi aveva approvata questa riforma. E cioè mettere gli interessi delle città metropolitane, il business, nelle mani di pochi eletti, pochi consiglieri, quindi anche di pochi partiti, tagliando le ali alle minoranze, al controllo plurale delle opposizioni, e quindi in sostanza nelle mani dei soli partiti maggiori. Nella logica del Pd, di allora, tentare di controllare, dopo anni di governo delle grandi città, anche il governo dei loro intorni, delle loro aree di espansione, le rendite fondiarie esterne e i servizi municipali alla grande scala. Fare economia di scala sulla testa dei comuni più piccoli
Ma le cose sono in parte saltate.
Un barlume di salutare ribellione è cresciuta dal basso. Non nell’opinione pubblica che ormai è tenuta rigorosamente lontana da queste questioni (chi sa oggi che domenica si vota per il rinnovo dei consigli metropolitani, che tanto dovrebbero fare per tutti noi? Nessuno), ma è cresciuta nei comuni, che per certi versi si sono trovati di fronte (Milano è stato un caso esemplare) ad una città metropolitana con atteggiamenti politici molto più distanti dagli interessi locali, più arroganti e più centralisti di quanto già non fossero le vecchie province.
L’unica salvezza per le città metropolitane è che questo sentimento, questo amore per i propri territori, ma anche per la democrazia, che viene soprattutto dai piccoli comuni, non svanisca e non vada del tutto deluso.
Se i nuovi consigli metropolitani sapranno interpretare l’aspirazione di partecipazione e di coordinamento reale nelle decisioni, che sale delle amministrazioni locali, forse le città metropolitane si potranno salvare. Altrimenti conosceranno la paralisi e nell’apatia e nella contrapposizione tra periferia e centro soccomberanno come enti inutili.
Non basterà avere gli stakeholder, cioè i rappresentanti di interessi particolari, dalla propria parte per resistere. Se le città metropolitane, che senza voto diretto non riescono ad essere le città dei cittadini, non saranno almeno le città dei comuni, verranno abbattute. Seppur metaforicamente, i sindaci del “contado” saliranno sulle barricate e abbatteranno il centro. E ai loro governanti taglieranno la testa.
Nella scorsa legislatura, di fronte all’assenza del parlamento e del governo, alcuni di noi hanno presentato un progetto di legge di iniziativa popolare per le elezione diretta dei sindaci e dei consiglieri metropolitani, chissà se avrà le gambe per camminare o se le città metropolitane moriranno prima.