VENDOLA: ECCO PERCHÉ MI CANDIDO ALLE EUROPEE, C'È BISOGNO DI PROTAGONISMO, intervista di Alessandro Trocino, da Il Corriere della Sera 6 aprile 2009
07 maggio 2009
Nichi Vendola, Massimo D’Alema è preoccupato. «E perché?» Dice che la sua candidatura europea è «discutibile» e «aprirebbe un problema per la Puglia». «Ma figuriamoci, non c’è da preoccuparsi. Sono stato per cinque anni al fronte, ho guidato una giunta stabile e innovativa e non ho nessuna intenzione di andarmene ora. Anzi, non lascerò mai la Puglia: la mia ambizione più grande sarebbe invece di ricandidarmi». Il governatore pugliese, fondatore di Sinistra e Libertà, però ha deciso. Tra la linea berlusconiana e quella franceschiniana della «serietà», Nichi Vendola sceglie la prima: si candiderà in Europa, in una o più circoscrizioni, nonostante l’incompatibilità. Perché? «La posizione di Franceschini mi sembra un politicismo incomprensibile ai più. Io mi candiderò, sento l’obbligo morale di mettermi a disposizione: sono un punto di riferimento ben oltre la mia regione e non intendo sottrarmi a questo impegno con il partito». Franceschini sostiene che così si truffano gli elettori. Leader e big che non andranno mai a Strasburgo, o torneranno subito, usati come specchietti per le allodole. «Forse c’è un vena di autocritica in questo. Perché il Pd ha visto in passato una formidabile mobilità dei suoi eletti: una percentuale elevata ha lasciato gli scranni di Strasburgo per approdare ad altri mestieri». Ma non sarebbe più serio candidare chi andrà davvero in Europa? Non si rischia di cadere, altrimenti, nel personalismo berlusconiano? «In un’epoca di personalizzazione, di americanizzazione della politica, c’è bisogno di un nuovo protagonismo della base ma anche dell’espressione di vissuti che rendano comprensibile un discorso politico. Non credo che il tema delle incompatibilità possa pregiudicare le prerogative della politica. Che è fatta anche di esseri umani che con la loro storia incarnano una visione delle cose». Insomma, quella di Franceschini è una polemica sterile. «Francamente mi pare incomprensibile. La lotta politica contro le destre la imposterei su temi ben più importanti ». Per esempio? «La sfida la imposterei sul modello di Europa, sull’avvitamento nevrotico del vecchio continente che si ritrova con fobie da fortezza assediata. Un’Europa illividita da decenni di liberismo che hanno reso quasi indistinguibile la destra dalla sinistra. La sfida la imposterei sulla crisi economica, sul rapporto tra Nord e Sud, sulla laicità e sui diritti civili». Il Pd, con Franceschini, ci sta provando. O no? «Mi pare che con il suo arrivo ci sia stata una correzione solo estetica. C’è un maggiore presenzialismo polemico: ma la politica non si fa con i decibel. Mancano i fondamentali». Non le sembra un po’ ingeneroso? «Non ho mai pensato di trarre giovamento dai problemi del Pd. Ma c’è una debolezza strategica: il problema del Pd non è di leadership ma di progetto politico. È il tentativo di tenere insieme, con estenuanti mediazioni semantiche, la difesa della laicità e il cilicio, gli interessi dei lavoratori licenziati e quelli dei padroni licenziatori». E il suo partito, Sinistra e libertà? «È un’operazione non velleitaria: siamo a un’incollatura dal 4 per cento. Andando in giro non vedo più la platea angosciata della Sinistra Arcobaleno, ma sento l’entusiasmo». La sinistra divisa, però, rischia un’altra sconfitta. «La partita è davvero cruciale. Mi gioco il senso della mia vita. Sono stato militante comunista per 35 anni e il mio dovere è fare fino in fondo i conti con una sconfitta che non è stata solo elettorale, ma storica, sociale e culturale. Sono uscito dalla mia vecchia casa per non rimanere prigioniero di un mondo in consunzione. Si tratta di ritrovare le parole e le ragioni per il sogno di una società di liberi e uguali».
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