UNA SOCIETÀ DI CITTADINI – di Stefano Bettera, da Viator, settembre 2007

19 settembre 2007

UNA SOCIETÀ DI CITTADINI – di Stefano Bettera, da Viator, settembre 2007

La risposta alla tolleranza zero non può che essere una: ricostruire la comunità partendo da una nuova idea di cittadinanza con salde radici nel dialogo e in una concreta solidarietà

Tolleranza zero. La pazienza è terminata. Il dialogo è chiuso, la “gente” non ne può più... Queste le parole d'ordine scelte dai sindaci italiani per dare nuove regole a quel contenitore un tempo chiamato comunità, per organizzare la vita di quegli onesti contribuenti-consumatori che un tempo si chiamavano cittadini. Dove sono le ragioni degli “altri”, in ogni accezione possibile che si può dare a questo termine, dove è finita la volontà di conoscere, di ascoltare, di comprendere ciò che è diverso da noi? Il ministro Amato, intervenendo sulla polemica dei lavavetri di Firenze ha recentemente definito le posizioni di chi si è dichiarato contario alle nuove misure restrittive, “facili filosofie astratte ed inconcludenti”. Tutto ciò in nome di un pragnamtismo del buon senso e del buon governo che coniuga solidarietà ed efficienza in un nuovo “moderno” sistema di “welfare”. È bene ricordare come, in definitiva, sia oggi che in passato, ogni atteggiamento repressivo non abbia fatto altro che ingigantire i conflitti nel contenitore chiamato comunità, qualunque esso fosse e a qualunque latitudine si trovasse. Non è solo un problema etico o filosofico ma anche pratico e, se vogliamo, politico. Tutti gli integralismi e le tolleranze zero sono sempre la soluzione più comoda, la più veloce perchè nella loro rigidità restano sempre in superficie: la radicalità di queste posizioni del “tutto e subito”, che rispondono all’allarme dell’insofferenza generale non costruiscono nulla, non ammettono soluzioni di lungo corso che implicano un vero spendersi a favore di trasformazioni profonde. Si interviene quando la misura è colma e quando l’impossibilità di risolvere il problema porta alla semplice rimozione dei suoi aspetti più eclatanti continuando a generare nuovi conflitti che derivano dai precedenti. Non ci si pone la domanda “da dove siamo partiti” e, soprattutto si dimenticano le vere responsabilità di chi ha generato e continua a generare queste situazioni, che non sono solo responsabilità politiche ma soprattutto culturali. Gli slogan, il pugno duro sono il prodotto di questa “leggerezza demagogica”, di questa approssimazione e sono funzionali alle logiche del profitto ad ogni costo proprio perchè producono rendite di posizione in termini di consenso e di potere. Questo tipo di posizioni nascono dal nostro percepirci come non più facenti parte di una comunità ma come individui costretti ad una competizione costante per ricnorrere un benessere paradossale che si esprime sempre nel possesso di nuova merce. Quale sia il prezzo di questo benessere interessa a pochi. Per quanto poi il comprensibile senso di autoconservazione ci spinga istintivamente a difenderci dalla minaccia esterna, la vita ci mostra quotidianamente quanto illusorio sia questa nostra percezione di separatezza e di unicità come esseri umani. La vulnerabilità della nostra esistenza, il nostro sconcerto di fronte alla nostra sofferenza, quando questa giunge inaspettata, dovrebbero farci provare un istinto di solidarietà, di identificazione nella sofferenza altrui. Questo dovrebbe aiutarci ad abbattere quegli steccati fondati sulla certezza di un’identità separata ed autosufficiente, una certezza sulla quale erigiamo quotidianamente le nostre difese per impedire alla vita di entrare a disturbarci. Ecco che gli altri esseri umani, che non conosciamo o in cui non riconosciamo tratti comuni e amichevoli, in quanto ignoti, si trasformano automaticamente in una minaccia e ci portano a studiare strategie di difesa e rimozione sempre più sofisticate. Finchè non finiamo per convincerci che, al di là dei nostri muri, metaforici e non, allontanati dal nostro sguardo, non ci sono più uomini ma gli oggetti impersonali delle nostre paure. Inoltre, l’atteggiamento diffuso dei nostri media che tendono ad amplificare a dismisura i termini del problema, urlando sempre più forte le ragioni contrapposte, finisce per creare un indistinto rumore di fondo in cui perdiamo il senso originario del problema stesso, cristallizzandolo in una questione astratta, ancora più lontana: ecco che il dramma umano, concreto, della disperazione, della povertà, dell’emarginazione diventa semplicemente un’emergenza da gestire dove non esiste più spazio per la compassione, intesa letteralmente, come condivisione di un sentire. Ecco che la macchina amministrativa, quella del “buon governo” deve essere efficiente e non può permettere falle nelle sue logiche. Non sono ammessi virus nel programma ed ogni tentativo di disturbo non può che essere gestito con la “tolleranza zero” che non contempla l’elemento umano, ma ragiona in termini di problema e soluzione. Auspicabilmente poi la soluzione dovrà essere la più veloce ed efficace possibile: perché il manovratore non può essere disturbato. Le amministrazioni delle grandi aree urbane di oggi hanno ormai sposato prevalentemente questa logica dell’efficienza, della “saggia governabilità”, per “tutelare” i propri elettori, cioè l’insieme di corporazioni che ne hanno determinato il successo. Le parole d’ordine si spostano quindi sul piano di categorie vaghe ed indistinte come la “gente”, le “riforme”, la “sicurezza”, concetti tanto ampi da essere riempiti da ogni significato e tanto generici da non scontentare mai nessuno; senza, al tempo stesso, che nessuno possa sentirsi obbligato a qualche forma di impegno concreto, a confrontarsi direttamente con il disagio o con la necessità di costruire una nuova società, perché quella attuale dà costanti segni di cedimento. Dimenticando, soprattutto, che la politica è qualcosa in più che semplice pratica amministrativa o un territorio neutro e asettico in cui trovare la quadra di interessi in contraddizione tra loro e sposando le logiche secondo le quali è meritevole di essere considerato cittadino soltanto che occupa un ruolo produttivo. In questo tipo di società votata alla verità incontestabile della “modernità e perfezione del sistema”, ogni espressione umana viene ridotta a merce ed ogni merce difettosa va eliminata. È palesemente urgente invertire la rotta. Lo ha capito anche un uomo intelligente come Al Gore che, pur prendendola alla lontana, partendo dalle sponde ambientaliste, sta cercando di trasmettere agli americani un concetto molto semplice e altrettanto scioccante: il vostro sistema di vita che consuma da solo un terzo delle risorse del pianeta, compensandole solo per un decimo non è più sostenibile. La crisi dei mutui gonfiati di questa estate è solo il bubbone di una malattia ben più profonda. È quindi altrettanto necessario che chi si assume la responsabilità di dare le regole al contenitore chiamato società si misuri su programmi e politiche che non hanno come orizzonte solo il mito del mercato e le esigenze dell’economia. Nessuno nega che sia necessario tutelare le persone e punire i cirmini. Ma giustizia non significa repressione, rigore non significa intolleranza e la parola solidarietà ha senso se congiunta a sussidiarietà, a iniziative che favoriscano il confronto, l’ascolto, l’integrazione e l’educazione al rispetto verso gli altri che non siano semplici dichiarazione di intenti di un buonismo solidale ma reali occasioni di costruzione di spazi aperti e condivisi dove si ricreano, liberamente, le condizioni per formare dei cittadini. L'urgenza è ricostruire una base condivisa che parta dal dialogo e dall'ascolto come presupposti di un vivere civile e comune: questa società risponde ad un’altra idea di globalizzazione dove il conoscere ed il conoscersi non sono garanzia oggettiva della risoluzione dei conflitti ma certamente un punto di partenza necessario per esplorare a fondo e comprendere le ragioni degli altri e il vero perché della sofferenza. Non si tratta necessariamente di annullare passivamente, in un minestrone senza sostanza, tutte le diversità: anzi, è proprio l'annullamento delle individualità nonchè la radicale esportazione di qualunque criticità a favorire chi ha tutto l’interesse che i conflitti covino fino ad esplodere: è la via più facile e veloce dove meno conoscenza significa meno consapevolezza, più controllo, più mani libere per gestire e reprimere. Nessuno nega il rispetto delle regole, ma la tutela di tutti non significa fine della tolleranza e rigore non significa repressione. Probabilmente, eliminare solo l'aspetto più evidente del problema trova terreno fertile in un certo atteggiamento italico tanto irreprensibile quando viene minacciato l’interesse personale, tanto più conciliante e permissivo quando sono i medesimi censori a commettere l'ingiustizia. È evidente come l’illegalità sia ormai non solo un costume diffuso ma anche un aspetto inscindibile del processo di globalizzazione e come la necessità del profitto ad ogni costo trasformi comunità intere di esseri umani in prodotti da comprare e vendere. La natura stessa flessibile dell’economia globalizzata legittima ogni forma di profitto, celando e soffocando nel rumore di fondo gli stridori di ogni dissenso o sofferenza e rende possibile ogni forma di sfruttamento dell'uomo sui suoi simili, sulla natura, piegando alle sue logiche ogni tipo di dinamica sociale. In questa logica dove anche la vita umana è una merce di scambio non ha importanza quante vite umane possono essere sacrificate all'obiettivo del profitto sia che si tratti di perdite causate dalle guerre, dai conflitti etnici, dalle barche degli scafisti che affondano o dai lavavetri cui viene negata la possibilità di guadagnarsi da vivere. Purchè queste “perdite controllate” non disturbino il sistema perfetto, quella bolla fatta di mutui gonfiati, allegre scalate bancarie, veline, motoscafi, notti brave e spensierate in costa Smeralda.Ci viene continuamente ripetuto che solo il libero commercio ed il sistema di "welfare flessibile”, funzionale a questo tipo di società senza tutele, senza garanzie, senza cittadini, potranno curare tutte le diseguaglianze e contenere la soluzione a tutti i problemi. In realtà è proprio questo stessa società, deresponsabilizzata e disumanizzata a produrre esattamente quello che dice di combattere e, fatto ancor più grave, mettendo in seria discussione la possibilità di un futuro. In questa prospettiva pace e solidarietà non rappresentano soltanto un intento moralistico, facili filosofismi e scelte etiche da anime belle incapaci di compromessi dettati dal “buon senso” e dalla ragion pratica. La pace è insieme un imperativo certamente spirituale, ma anche una prospettiva individuale, sociale e politica, dove la parola politica torna al suo significato originario di quell’insieme di norme e regole che regolano la vita della “polis”, la comunità di cittadini, partecipanti attivi e sullo stesso piano della cosa pubblica. Questa pace assume un significato più ampio, di orizzonte che include programmi, iniziative, luoghi e persone e non è solo assenza o riduzione dei conflitti ma vera e propria costruzione di una nuova comunità, attraverso la condivisione e la reciproca educazione dei suoi componenti. Si allarga ad un senso più ampio, quello della consapevolezza dell’esistere e del partecipare, della vera “unione” con chi è diverso. Non è il semplice “I care” ma presuppone un coinvolgimento diretto e concreto nei destini degli altri, una rivoluzione di intenti e di prassi. Entra pesantemente nell’agire pubblico e nelle dinamiche personali e collettive, plasmando un nuovo modello di convivenza civile in cui la tua condizione diviene la mia, la tua sofferenza o il tuo disagio divengono il mio e dove riconosco cittadinanza alle tue radici o convinzioni al di là del tuo ruolo sociale o della tua capacità di essere produttivo. È facile comprendere come anche il senso stesso del lavoro come funzione sociale ne venga rivalutato, come partecipazione non precaria ad un momento di costruzione comunitaria e non come semplice funzione inserita in un programma di produzione della ricchezza a vantaggio di pochi: quindi, se vogliamo dirlo con un po’ di ironia, questo tipo di agire è anche il modo più intelligente di essere egoisti perché è l’unica via che non genera inutili conflitti e ulteriore sofferenza ma contribuisce a diminuire pesantemente le disegualianze e a creare davvero una società di cittadini.

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