UNA RADICE SOCIALISTA PER IL PARTITO DEMOCRATICO – di Luigi Covatta, da il Riformista del 25 ottobre 2006

30 ottobre 2006

UNA RADICE SOCIALISTA PER IL PARTITO DEMOCRATICO – di Luigi Covatta, da il Riformista del 25 ottobre 2006

Anime. Le diverse culture che fecero il Psi. intuizioni, debolezze, attualità

Sul Riformista del 20 ottobre Biagio de Giovanni, nel rilevare che è «la società italiana nel suo insieme» a rigettare le idee liberali, per cui né c’è spazio per il partito della Rosa né ce ne sarà, se non ambiguo, per il partito dell’Ulivo, si chiede se «non s’è visto qualcosa di questo destino anche nella vicenda craxiana». Mentre Sergio Romano (Corriere della sera del 21 ottobre) rievoca le vicende per cui «l’Italia, delegando la sua politica ai magistrati, perdette il partito di Craxi senza guadagnare nel cambio un vero partito socialista». Forse sono maturi i tempi, quindi, perché la questione socialista smetta di essere una questione etnica, e torni a essere una questione politica e culturale. Magari per diventare un riferimento non marginale del sempre più confuso dibattito sul futuribile Partito democratico, una volta depurata dalle approssimazioni, dai risentimenti e dagli opportunismi con cui in questi anni è stata agitata.
Al congresso socialista del 1948 Riccardo Lombardi, leader della mozione vincente, sostenne che «la sconfitta del Psi come forza politica efficiente e autonoma sarebbe la sconfitta delle istanze democratiche e liberali prima ancora che di quelle socialiste». Aveva ben presente, cioè, il ruolo del tutto peculiare che il Psi poteva e doveva svolgere nel sistema politico repubblicano. Un ruolo sociologicamente diverso da quello delle socialdemocrazie europee, benché culturalmente non dissimile. D’altronde Lombardi non era marxista (anche per questo Saragat non lo aveva voluto nel suo partito) e non era neanche nato socialista. Prima delle leggi eccezionali aveva militato nel Ppi, poi nel piccolo partito di Turati, e nella guerra di liberazione era stato alla testa del Partito d’azione.
La vittoria congressuale di Lombardi (e di Fernando Santi, uno dei rari socialisti riformisti nel Psi di allora) fu, come è noto, effimera. L’apparato socialista era agli ordini del Pci e a libro paga di Malenkov. Ma è significativo che dopo la disfatta del Fronte popolare il Psi ritrovasse la sua identità non nelle viscere, ma nel cervello, così come, nel 1921, era stato il cervello repubblicano di Pietro Nenni a salvare il Psi dal marasma viscerale di Serrati e dei «terzini».
Nel ’48, però, il cervello di Nenni non aveva funzionato a dovere. Per cui solo nell’indimenticabile 1956, con la confluenza nel partito di Nenni di Antonio Giolitti, di Luciano Cafagna, di Furio Diaz, di Antonio Ghirelli e di molti altri firmatari del manifesto dei 101, cominciò a realizzarsi la premonizione di Lombardi, che vedeva nel Psi la riserva di modernità di una democrazia fondata su due chiese. L’approdo di Giolitti nel Psi, infatti, non era affatto scontato. Solo tre anni prima, per esempio, Nenni e Morandi lo avevano negato a Valdo Magnani e ad Aldo Cucchi. Ma a partire dal 1956 questa capacità attrattiva del Psi si dispiegò pienamente. Rientrarono nel partito molti di quelli che avevano seguito Saragat (trotzkisti come Zagari, Ruffolo, Formica, Libertini, riformisti marxisti come Vigorelli e Manca, liberalsocialisti come Codignola). Altri (Bobbio, Venturi, Zevi, Garosci, Calogero, Valiani, Rossi Doria) firmarono, nel 1966, la Carta dell’unificazione, alla quale aderirono pure giovani provenienti dal Pri (Martelli) e dal Pci (Abbondanza e Finetti), trovando peraltro poco spazio in un partito bicipite molto simile, come è stato osservato da alcuni, a quello che potrebbe nascere dalla fusione “a freddo” fra Ds e Margherita.
Negli anni ’60 l’attrazione socialista aveva riguardato soprattutto i laici. Ma negli anni ’70, dopo il fallimento del primo centrosinistra, essa coinvolse anche cattolici come Labor, Acquaviva, Bassanini, e poi Carniti e perfino Baget Bozzo. Del resto nel suo ultimo discorso, pronunciato al convegno aclista di Vallombrosa nel 1968, Fernando Santi aveva auspicato la creazione di «una forza politica non egemonizzata da parte di chiunque, garante e fedele ai principi della democrazia e della libertà, nel rispetto della coscienza di ciascuno e di tutti, capace di offrire un’alternativa alla guida ed alla gestione moderata del potere», per la quale, a suo avviso, c’erano «forze che si muovono in tutti i campi, in quello cattolico, in quello socialista, in quello comunista». E aveva concluso che, «come laico e come socialista», si augurava che a questa forza non mancasse l’ispirazione cristiana di cui erano portatori i suoi interlocutori.
Le cose politiche, come è noto, andarono in tutt’altra direzione. Il partito socialista unificato si sfasciò, e il Pci e la Dc dialogarono da potenza a potenza, immaginando - negli anni di Reagan, di Breznev, di Wojtyla e del roll back - di poter fermare la storia, contribuire alla stabilizzazione della «coesistenza», e magari determinare la democratizzazione dell’Urss. Ancora una volta, quindi, toccò al Psi essere contenitore delle energie riformiste sconfitte nelle due chiese. E fu da quel melting pot che nacque il «nuovo corso socialista» degli anni ’80, quello che predicava la democrazia dell’alternanza nell’epoca del compromesso storico, la politica attiva del lavoro nell’epoca della legge 285, l’attenzione ai meriti e ai bisogni dieci anni prima di Tony Blair e il primato dei diritti civili vent’anni prima di Zapatero. Di quella cultura Craxi volle fare il principio identitario del suo partito. E forse fu proprio questo peccato d’orgoglio che alla fine lo rovinò. Come ha scritto Cafagna nella prefazione al mio Menscevichi, Craxi «capì cose che, se sei un genio, ma devi proprio esserlo, e non solo credere o far credere di esserlo, fai una di quelle rivoluzioni che sfondano e creano un vero mondo nuovo, ma se non lo sei, il solo fatto di averle capite non basta e finisce con l’ucciderti». A ben vedere, però, Craxi non aveva altre strade. Non perché doveva primum vivere, come volgarmente interpretarono i protagonisti d’allora. Ma proprio per tener fede a quel ruolo sistemico del Psi evocato da Lombardi nel ’48. Infatti, come allora osservò lucidamente Gianfranco Pasquino, il sistema ormai era talmente bloccato che solo agendo il ruolo “partigiano” del Psi Craxi poteva sperare di recuperarne il ruolo “sistemico”. Ma il sistema non seppe (o volle) autoriformarsi, per cui Craxi fu costretto a occupare il valico di Radicofani, ed esso stesso a finire miseramente come è finito.
Questa lunga premessa non per celebrare la gran bontà dei cavalieri antiqui. Semmai per osservare che non c’è molto di nuovo sotto il sole. E per porre due questioni. Una ai socialisti, che dopo il crollo del ’94 hanno rivendicato la loro identità sia con le viscere che col cervello, ma in entrambi i casi hanno ottenuto risultati modesti. Lo sforzo cerebrale, infatti, non ha prodotto nessuna idea migliore di quella di prendere un’identità in affitto. L’attaccamento viscerale alla tradizione, invece, spinge ora alcuni (Spini, ma anche Del Bue) a confondere l’identità del Psi con quella, un po’ mitizzata, del socialismo europeo, fino a restare affascinati dai baffi di Fabio Mussi.
Il Psi non solo non c’entra niente con Fabio Mussi, ma c’entrava poco anche col «socialismo europeo». Lo stesso Craxi, che pure ebbe il merito di non sottovalutare, anche prima del Midas, il ruolo dell’Internazionale socialista, fu tra i primi ad auspicarne l’evoluzione «democratica», senza aspettare che in qualche salotto e in qualche aula universitaria si parlasse di «Ulivo mondiale».
Almeno dal 1956, infatti, il Psi è stato un Partito democratico in nuce, in cui Lombardi dialogava con Nenni, Ruffolo con Giolitti, Carniti con Craxi, Amato con Giugni, Labor con Martelli, Bobbio con Pertini, senza troppi complessi identitari, ma anzi contribuendo con le proprie distinte identità a dare vita a un soggetto nuovo e moderno, capace, ancora negli anni ’80, di attrarre marxisti critici (e alla fine autocritici) come Lucio Colletti e togliattiani tosti come Antonello Trombadori e Giuliano Ferrara.
L’altra questione riguarda i promotori del Partito democratico. Sarebbe troppo facile osservare che essi sono gli eredi di quanti, negli anni ’70 e ’80, andavan combattendo ed eran morti: rinfacciare, cioè, a post-democristiani e post-comunisti la miopia con cui elusero la proposta di modernizzazione rappresentata dal Psi di Craxi. Semmai c’è solo da consigliare di andarci piano coi santini di Moro e Berlinguer, e di riconoscere invece anche nei simboli quello che va riconosciuto alla tradizione del Psi (possibile che a nessuno venga in mente di intitolare una sezione a Pietro Nenni, e che l’a-comunista Lombardi debba essere annesso al Pantheon di Rifondazione comunista?). E da sconsigliare, invece, ricostruzioni storiche finalizzate all’happy end dell’incontro fra due riformismi costretti a lungo al nicodemismo per le angherie di Ghino di Tacco.
La questione è un’altra. Il melting pot socialista fu possibile perché non avvenne in vitro, ma nel vivo di una lotta politica aperta, in cui non c’era tempo per paralizzarsi davanti a un’affiliazione internazionale o dividersi su una questione di bioetica. Labor e Fortuna discutevano di aborto, e alla fine producevano una legge che ora è intoccabile anche per la Cei. E Ruffolo e Formica non passarono dalla Quarta Internazionale alla Seconda per entrismo, ma per maturazione politica, così come politica, e non burocratica, fu l’adesione di Carniti e Baget Bozzo al gruppo parlamentare del Pse.
Non mancano, ora, le occasioni di lotta politica per i riformisti. Basta vedere il massacro cui il governo si sta sottoponendo nella discussione della legge finanziaria, stretto com’è fra la cupa determinazione con cui Rifondazione e Cgil vogliono far piangere i ricchi e la gioiosa macchina da guerra a disposizione del Cavaliere per portarli fuori dalla lacrimarum valle. Se davvero si vuole fare un partito dei riformisti, è il caso di occuparsi di questo, piuttosto che di gazebo o di affiliazioni internazionali. Così come è il caso di cercare ogni possibile alleanza per riformare la legge elettorale, senza subire le resistenze di Diliberto o di Pecoraro Scanio. I gruppi dirigenti verranno selezionati così, e così si contamineranno davvero le distinte identità dei contraenti. E’ un itinerario, questo, che fra l’altro non dovrebbe risultare sgradito ai «nuovisti», che magari considereranno la mia lunga premessa un inutile excursus storico, ma che curiosamente non hanno ancora capito che le identità del passato possono fondersi nella lotta politica, e non con un’epidemia di Alzheimer. Si risolverà così anche la questione socialista, almeno nel senso in cui l’aveva lucidamente individuata Lombardi nel 1948, e nel senso in cui questo può oggi interessare a un partito riformista, che non dovrebbe trascurare l’obiettivo di recuperare quelle centinaia di migliaia di elettori che da dodici anni votano a destra non solo per viscerale risentimento contro forze ritenute, a torto o a ragione, responsabili del collasso del loro partito, ma anche perché col cervello faticano a cogliere idee riformiste nel grande Barnum del centrosinistra attuale.

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