UNA "PROTEZIONE CIVILE" CONTRO LA FINANZA TOSSICA. MENTRE SI LAVORA PER UNA NUOVA BRETTON WOODS. Di Paolo Raimondi, economista, Roma 17 febbraio 2009
17 marzo 2009
Il Summit del G7 di Roma ha purtroppo partorito un topolino. Infatti, al di là delle frasi di rito e di qualche buona intenzione, i governi hanno evitato di “sporcarsi le mani” con i titoli tossici della finanza speculativa come avevano invece domandato con un certo coraggio e lungimiranza alcuni, ancora troppo pochi, uomini di governo. La crisi è prima di tutto finanziaria e poi, di conseguenza, dell’economia reale. I pacchetti di stimoli economici finora decisi dai vari governi servono e possono attenuare gli effetti devastanti sull’occupazione e sulle attività produttive, ma non possono risolvere la crisi della finanza. Qualche giorno prima a Bruxelles la riunione dell’Ecofin era stata un esempio di mancanza di iniziative e di decisioni. Mancanze che rischiano di seppellirci sotto le macerie delle banche in crisi. La questione centrale verteva sui titoli tossici e su come trattarli. Una bad bank in ogni paese? Una bad bank per ogni banca? Una bad bank per più banche aggregate? Un’assicurazione statale per i titoli tossici? Una combinazione di tutto questo? Il comunicato finale del G7 di Roma ha deciso di evitare l’argomento rimandandolo a un futuro “progress report” di principi e stardard economici da prepararsi entro i prossimi 4 mesi. Non c’è tempo da perdere. All’orizzonte sono in arrivo le nubi nere cariche di derivati CDS, credit default swaps, pari a circa 60.000 miliardi di dollari. Sono titoli tossici che le banche hanno sottoscritto tra loro per coprire i rischi di fallimenti e di insolvenze. Anche il G7 ha suonato la campanella d’allarme della “volatilità e dei disordini” sui tassi di cambio valutari, che, secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea, si trascinano dietro una bolla di derivati di oltre 63.000 miliardi di dollari in mano alle banche. La domanda sottostante a tutto è comunque quella di sapere chi dà le garanzie e in particolare chi è il pagatore di ultima istanza. Le banche insistono che siano gli stati. Gli economisti e la maggioranza degli uomini di governo purtroppo sembrano tendere a questa soluzione, ignorando le ripercussioni sociali. A nostro modesto avviso non lo possono fare anche se lo volessero. Le garanzie e le coperture degli stati per i titoli tossici andrebbero ben al di là dei già giganteschi pacchetti di salvataggio decisi nelle ultime settimane. Queste “bad bank” comporterebbero una gigantesca immissione di liquidità in tutte le sue varie forme e quindi una esplosione di inflazione. Sarebbe un suicidio che spazzerebbe via l’economia reale, l’occupazione e i redditi. Il problema è di metodo: non si può pensare di affrontare e risolvere l’emergenza della crisi finanziaria ed economica globale con gli stessi metodi e sistemi che hanno portato all’esplosione della crisi stessa. Non è una questione accademica, perché ne va del futuro dell’economia, degli stati e delle famiglie. Non solo quello delle banche. Pur riconoscendo che le nuove regole e una nuova architettura finanziaria sono indispensabili, si vorrebbe affrontare la crisi con il vecchio metodo, quello dei due tempi, di stabilizzare prima la situazione e poi definire i nuovi accordi. Così non funziona. Occorrerebbe invece intervenire già oggi con in mente la definizione di un progetto del nuovo sistema economico e finanziario con alcuni punti saldi. Lo stato, e gli stati nel loro insieme con anche la Cina, la Russia, l’India, il Brasile e i paesi cosiddetti emergenti, sono chiamati a risolvere la crisi anche dalle banche stesse. Però gli stati non possono avere un ruolo subalterno agli interessi delle banche. Quindi ci vogliono subito regole per congelare i titoli tossici. Regole che devono essere rispettare da tutti anche se i banchieri non lo gradiscono, anche se fosse necessario una forma di amministrazione controllata! Come la Protezione Civile quando allontana quei cittadini che non vogliono lasciare le case anche se la frana li minaccia. Ricordiamo che negli Stati Uniti il cosiddetto “Chapter 11” prevede il mantenimento in attività delle ditte in fallimento, mentre si separa il buono dal marcio. Qualche banchiere ci rimetterà? Si, poco importa. Il compito dello stato è quello di gestire il bene comune, non gli interessi di qualche speculatore o manager famelico. In Italia gli strumenti per sostenere lo sviluppo e garantire che i nuovi crediti vadano a sostegno degli investimenti reali non mancano. Al G7 di Roma il ministro con maggiore convinzione nell’affrontare il problema dei derivati e di una nuova governance globale dei mercati finanziari è stato Giulio Tremonti. Non si tratta di estendere il nostro giudizio anche sulla politica interna del governo che non condividiamo, ma sui temi della riforma globale riteniamo che tutte le forze politiche italiane possono e debbano lavorare insieme per preparare le nuove soluzioni, e come suggerito recentemente anche da Romano Prodi e da Carlo Azeglio Ciampi, per costruire l’architettura di una Nuova Bretton Woods che del resto era già stata auspicata unitariamente dal Parlamento italiano all’inizio del 2005 con l’approvazione della mozione Lettieri.
Vai all'Archivio