UN RIFORMISMO TUTTO DA INVENTARE di Alberto Benzoni

31 agosto 2004

UN RIFORMISMO TUTTO DA INVENTARE di Alberto Benzoni

dall'Avanti della Domenica del 7 marzo 2004 A sinistra manca ancora e la lista unica può essere solo il primo passo L’afasia dei riformisti è accentuata in Italia dalla natura dello scontro politico in atto nel nostro paese Viviamo, oggi, in Italia, una situazione singolare. Dove una delle parole chiave del “politichese” - riformismo, riforme - è proclamata, e praticata, con ardore incessante dal governo di centro-destra; mentre è considerata con sospetto nel suo “habitat” tradizionale, il centro-sinistra. E dove la connessa “provocazione” di Galli della Loggia - l’essere, nella sinistra, politicamente sopraffatto e culturalmente afasico - è stata, sinora, recepita solo dai pochi cultori dell’argomento. Ma quale è la materia del contendere? Per capirci qualcosa è bene cominciare con un tentativo di definizione. Insomma, cosa significa “riformismo”? A nostro modesto avviso, abbiamo a che fare, nell’ambito della sinistra, con un certo approccio verso la realtà; che non consiste soltanto nel rifiutare gli orizzonti del conservatorismo, da una parte, e della rottura rivoluzionaria, dall’altra; ma anche nel combinare una visione critica dell’esistente (in questo senso, tutti i riformisti sono, anche, radicali, anche se non tutti i radicali sono riformisti…) con la consapevolezza dei limiti, e dei vincoli, propri di ogni progetto razionale di cambiamento (in questo senso, tutti i riformisti sono, anche, moderati anche se non tutti i moderati sono riformisti…). Ciò detto, perché la sinistra italiana non è riformista? Perché, insomma, il relativo schieramento - pur apparentemente maggioritario (leggi Triciclo) sembra non avere né pieno diritto di cittadinanza né compiuta possibilità di espressione? La prima, e più facile, spiegazione è “mancanza di coraggio politico”. Insomma, non si condividerebbe per nulla il fondamentalismo pacifista-giustizialista-girotondista; ma non si osterebbe fare i conti con questo. Sia perché si ha, comunque, bisogno del suo consenso per vincere; sia perché ci si sentirebbe, sempre, sotto tutela. Spiegazione corretta. Ma parziale. Perché le difficoltà del riformismo italiano non sono solo soggettive, ma oggettive; non solo congiunturali, ma strutturali; non solo contingenti, ma storiche. Cominciamo dalla storia. Insomma, dal fatto che la sinistra italiana (come quella francese, ma assai più di questa) è nata alla fine dell’800 ma è diventata alternativa di governo solo alla fine del secolo successivo. Come poteva nascere, in tali circostanze, quella cultura di governo che è, per definizione, parametro essenziale di qualsiasi disegno riformista? E, infatti, non nasce. O meglio, nasce, e fiorisce, solo a livello locale. Per il resto, si fa del riformismo pratico, ma quasi senza consapevolezza “nazionale”. A dominare è la falsa coscienza, alimentata prima dal mito sovietico e poi da quelli nostrani del riformismo anticapitalista, del nuovo modello di sviluppo, della via italiana e… via discorrendo. (Ma non è che in Francia si scherzi: Mitterrand arriva al potere cavalcando il “fronte di classe” e il “cambiamento della vita”; salvo a rinnegare il tutto nello spazio di due anni). All’insegna di una generalizzata doppiezza, volta a nascondere pratiche moderate con fraseologie alternativistiche; tanto più reali le prime tanto più proclamate le seconde. La pratica della doppiezza come vera e propria droga politica è stata poi addirittura esaltata all’indomani della caduta del muro di Berlino. Liquidati i miti di una diversità appoggiata sul “socialismo reale”, occorreva trovare, e da subito, altri punti d’appoggio: e saranno quelli della diversità etico-culturale - buonismo, nuovismo, movimentismo, giustizialismo, “I care” e quant’altro - che avevano, tutti, il merito di evitare l’appuntamento con il riformismo. All’appuntamento si arriverà alla fine degli anni novanta. E nelle condizioni peggiori. Non solo in Italia, ma in tutta Europa. Terribile ironia della sorte, la sinistra arriva al potere in tutta Europa; ma non per promuovere un ulteriore sviluppo di quello stato sociale (più democrazia, più benessere, più diritti, attraverso il “più pubblico”) che tanto aveva contribuito a far crescere con la sua azione secolare; ma piuttosto per governare, al meglio, il suo ridimensionamento, in conseguenza delle spinte inarrestabili della liberalizzazione e della globalizzazione. E in un contesto in cui il suo orizzonte ideologico (il socialismo), i suoi parametri di riferimento (lo stato nazionale, la crescita dell’economia) e i suoi strumenti di azione (il ruolo del pubblico, la politica keynesiana) sembrano, tutti e tutti insieme, condannati all’obsolescenza. E, allora, il confronto con il centro-destra sul terreno delle riforme appare calibrato in partenza a suo svantaggio. Si combattono le politiche dei governi “liberisti” perché causa di declino economico e di ingiustizia sociale; ma non si è – ancora?- in grado di contrapporvi un “riformismo di sinistra” diverso nei suoi obbiettivi ma efficace nella sua strumentazione. Conseguentemente il riformismo di sinistra è, insieme, assolutamente necessario (cambiare è, comunque, una esigenza ineludibile) e politicamente debole. Soprattutto agli occhi dell’elettorato storico della sinistra, oramai interessato, sempre più visceralmente alla difesa dell’esistente. Ed è proprio per questo che definirsi riformisti, a sinistra, induce automaticamente al sospetto. Il riformismo, quello che si avverte sulla propria pelle, è espresso dagli avversari. Mentre quello dei “nostri” o non è visibile o, quando lo è (vedi Germania e Gran Bretagna) è pericolosamente simile a quello degli altri. Per concludere, l’afasia dei riformisti è accentuata in Italia dalla natura dello scontro politico in atto nel nostro paese. Lo scontro sembra infatti governato da Berlusconi. Da Berlusconi come personalità pubblica e che, come tale, suscita reazioni di rigetto così radicali e generalizzate da giustificare, agli occhi dei più, una strategia elettorale dell’opposizione che si fondi esclusivamente su questo (“uniamoci nel mandare via Berlusconi, poi si vedrà.”). Da Berlusconi come uomo di governo, in polemica perenne con tutte le istituzioni, autorità e/o poteri costituiti – Magistratura, finanza, Rai, sindacato, università, sanità, giornalismo e chi più ne ha più ne metta – così da promuovere, nell’opposizione, reazioni politiche tutte improntate alla loro difesa; in una logica in cui l’intenzione riformatrice trascina quasi con sé l’imputazione di eversione. In quest’ottica c’è pochissimo spazio per il riformismo. Praticarlo anzi è politicamente impossibile; mentre rivendicarne le ragioni sta diventando “politicamente scorretto”. E dunque, il riformismo della sinistra, almeno in Italia, non è una realtà da difendere; ma piuttosto un universo da costruire ex novo. Per questo, è necessaria una scelta politica dell’opposizione, o almeno della sua componente maggioritaria che oggi ha dato luogo ad una lista unitaria. Questa non nascerà automaticamente, la stiamo aspettando. In altre parole, il Triciclo potrà essere un passaggio necessario, ma guai a considerarlo sufficiente. A sinistra manca ancora e la lista unica può essere solo il primo passo Un riformismo tutto da inventare L’afasia dei riformisti è accentuata in Italia dalla natura dello scontro politico in atto nel nostro paese Alberto Benzoni Viviamo, oggi, in Italia, una situazione singolare. Dove una delle parole chiave del “politichese” - riformismo, riforme - è proclamata, e praticata, con ardore incessante dal governo di centro-destra; mentre è considerata con sospetto nel suo “habitat” tradizionale, il centro-sinistra. E dove la connessa “provocazione” di Galli della Loggia - l’essere, nella sinistra, politicamente sopraffatto e culturalmente afasico - è stata, sinora, recepita solo dai pochi cultori dell’argomento. Ma quale è la materia del contendere? Per capirci qualcosa è bene cominciare con un tentativo di definizione. Insomma, cosa significa “riformismo”? A nostro modesto avviso, abbiamo a che fare, nell’ambito della sinistra, con un certo approccio verso la realtà; che non consiste soltanto nel rifiutare gli orizzonti del conservatorismo, da una parte, e della rottura rivoluzionaria, dall’altra; ma anche nel combinare una visione critica dell’esistente (in questo senso, tutti i riformisti sono, anche, radicali, anche se non tutti i radicali sono riformisti…) con la consapevolezza dei limiti, e dei vincoli, propri di ogni progetto razionale di cambiamento (in questo senso, tutti i riformisti sono, anche, moderati anche se non tutti i moderati sono riformisti…). Ciò detto, perché la sinistra italiana non è riformista? Perché, insomma, il relativo schieramento - pur apparentemente maggioritario (leggi Triciclo) sembra non avere né pieno diritto di cittadinanza né compiuta possibilità di espressione? La prima, e più facile, spiegazione è “mancanza di coraggio politico”. Insomma, non si condividerebbe per nulla il fondamentalismo pacifista-giustizialista-girotondista; ma non si osterebbe fare i conti con questo. Sia perché si ha, comunque, bisogno del suo consenso per vincere; sia perché ci si sentirebbe, sempre, sotto tutela. Spiegazione corretta. Ma parziale. Perché le difficoltà del riformismo italiano non sono solo soggettive, ma oggettive; non solo congiunturali, ma strutturali; non solo contingenti, ma storiche. Cominciamo dalla storia. Insomma, dal fatto che la sinistra italiana (come quella francese, ma assai più di questa) è nata alla fine dell’800 ma è diventata alternativa di governo solo alla fine del secolo successivo. Come poteva nascere, in tali circostanze, quella cultura di governo che è, per definizione, parametro essenziale di qualsiasi disegno riformista? E, infatti, non nasce. O meglio, nasce, e fiorisce, solo a livello locale. Per il resto, si fa del riformismo pratico, ma quasi senza consapevolezza “nazionale”. A dominare è la falsa coscienza, alimentata prima dal mito sovietico e poi da quelli nostrani del riformismo anticapitalista, del nuovo modello di sviluppo, della via italiana e… via discorrendo. (Ma non è che in Francia si scherzi: Mitterrand arriva al potere cavalcando il “fronte di classe” e il “cambiamento della vita”; salvo a rinnegare il tutto nello spazio di due anni). All’insegna di una generalizzata doppiezza, volta a nascondere pratiche moderate con fraseologie alternativistiche; tanto più reali le prime tanto più proclamate le seconde. La pratica della doppiezza come vera e propria droga politica è stata poi addirittura esaltata all’indomani della caduta del muro di Berlino. Liquidati i miti di una diversità appoggiata sul “socialismo reale”, occorreva trovare, e da subito, altri punti d’appoggio: e saranno quelli della diversità etico-culturale - buonismo, nuovismo, movimentismo, giustizialismo, “I care” e quant’altro - che avevano, tutti, il merito di evitare l’appuntamento con il riformismo. All’appuntamento si arriverà alla fine degli anni novanta. E nelle condizioni peggiori. Non solo in Italia, ma in tutta Europa. Terribile ironia della sorte, la sinistra arriva al potere in tutta Europa; ma non per promuovere un ulteriore sviluppo di quello stato sociale (più democrazia, più benessere, più diritti, attraverso il “più pubblico”) che tanto aveva contribuito a far crescere con la sua azione secolare; ma piuttosto per governare, al meglio, il suo ridimensionamento, in conseguenza delle spinte inarrestabili della liberalizzazione e della globalizzazione. E in un contesto in cui il suo orizzonte ideologico (il socialismo), i suoi parametri di riferimento (lo stato nazionale, la crescita dell’economia) e i suoi strumenti di azione (il ruolo del pubblico, la politica keynesiana) sembrano, tutti e tutti insieme, condannati all’obsolescenza. E, allora, il confronto con il centro-destra sul terreno delle riforme appare calibrato in partenza a suo svantaggio. Si combattono le politiche dei governi “liberisti” perché causa di declino economico e di ingiustizia sociale; ma non si è – ancora?- in grado di contrapporvi un “riformismo di sinistra” diverso nei suoi obbiettivi ma efficace nella sua strumentazione. Conseguentemente il riformismo di sinistra è, insieme, assolutamente necessario (cambiare è, comunque, una esigenza ineludibile) e politicamente debole. Soprattutto agli occhi dell’elettorato storico della sinistra, oramai interessato, sempre più visceralmente alla difesa dell’esistente. Ed è proprio per questo che definirsi riformisti, a sinistra, induce automaticamente al sospetto. Il riformismo, quello che si avverte sulla propria pelle, è espresso dagli avversari. Mentre quello dei “nostri” o non è visibile o, quando lo è (vedi Germania e Gran Bretagna) è pericolosamente simile a quello degli altri. Per concludere, l’afasia dei riformisti è accentuata in Italia dalla natura dello scontro politico in atto nel nostro paese. Lo scontro sembra infatti governato da Berlusconi. Da Berlusconi come personalità pubblica e che, come tale, suscita reazioni di rigetto così radicali e generalizzate da giustificare, agli occhi dei più, una strategia elettorale dell’opposizione che si fondi esclusivamente su questo (“uniamoci nel mandare via Berlusconi, poi si vedrà.”). Da Berlusconi come uomo di governo, in polemica perenne con tutte le istituzioni, autorità e/o poteri costituiti – Magistratura, finanza, Rai, sindacato, università, sanità, giornalismo e chi più ne ha più ne metta – così da promuovere, nell’opposizione, reazioni politiche tutte improntate alla loro difesa; in una logica in cui l’intenzione riformatrice trascina quasi con sé l’imputazione di eversione. In quest’ottica c’è pochissimo spazio per il riformismo. Praticarlo anzi è politicamente impossibile; mentre rivendicarne le ragioni sta diventando “politicamente scorretto”. E dunque, il riformismo della sinistra, almeno in Italia, non è una realtà da difendere; ma piuttosto un universo da costruire ex novo. Per questo, è necessaria una scelta politica dell’opposizione, o almeno della sua componente maggioritaria che oggi ha dato luogo ad una lista unitaria. Questa non nascerà automaticamente, la stiamo aspettando. In altre parole, il Triciclo potrà essere un passaggio necessario, ma guai a considerarlo sufficiente. L’afasia dei riformisti è accentuata in Italia dalla natura dello scontro politico in atto nel nostro paese Viviamo, oggi, in Italia, una situazione singolare. Dove una delle parole chiave del “politichese” - riformismo, riforme - è proclamata, e praticata, con ardore incessante dal governo di centro-destra; mentre è considerata con sospetto nel suo “habitat” tradizionale, il centro-sinistra. E dove la connessa “provocazione” di Galli della Loggia - l’essere, nella sinistra, politicamente sopraffatto e culturalmente afasico - è stata, sinora, recepita solo dai pochi cultori dell’argomento. Ma quale è la materia del contendere? Per capirci qualcosa è bene cominciare con un tentativo di definizione. Insomma, cosa significa “riformismo”? A nostro modesto avviso, abbiamo a che fare, nell’ambito della sinistra, con un certo approccio verso la realtà; che non consiste soltanto nel rifiutare gli orizzonti del conservatorismo, da una parte, e della rottura rivoluzionaria, dall’altra; ma anche nel combinare una visione critica dell’esistente (in questo senso, tutti i riformisti sono, anche, radicali, anche se non tutti i radicali sono riformisti…) con la consapevolezza dei limiti, e dei vincoli, propri di ogni progetto razionale di cambiamento (in questo senso, tutti i riformisti sono, anche, moderati anche se non tutti i moderati sono riformisti…). Ciò detto, perché la sinistra italiana non è riformista? Perché, insomma, il relativo schieramento - pur apparentemente maggioritario (leggi Triciclo) sembra non avere né pieno diritto di cittadinanza né compiuta possibilità di espressione? La prima, e più facile, spiegazione è “mancanza di coraggio politico”. Insomma, non si condividerebbe per nulla il fondamentalismo pacifista-giustizialista-girotondista; ma non si osterebbe fare i conti con questo. Sia perché si ha, comunque, bisogno del suo consenso per vincere; sia perché ci si sentirebbe, sempre, sotto tutela. Spiegazione corretta. Ma parziale. Perché le difficoltà del riformismo italiano non sono solo soggettive, ma oggettive; non solo congiunturali, ma strutturali; non solo contingenti, ma storiche. Cominciamo dalla storia. Insomma, dal fatto che la sinistra italiana (come quella francese, ma assai più di questa) è nata alla fine dell’800 ma è diventata alternativa di governo solo alla fine del secolo successivo. Come poteva nascere, in tali circostanze, quella cultura di governo che è, per definizione, parametro essenziale di qualsiasi disegno riformista? E, infatti, non nasce. O meglio, nasce, e fiorisce, solo a livello locale. Per il resto, si fa del riformismo pratico, ma quasi senza consapevolezza “nazionale”. A dominare è la falsa coscienza, alimentata prima dal mito sovietico e poi da quelli nostrani del riformismo anticapitalista, del nuovo modello di sviluppo, della via italiana e… via discorrendo. (Ma non è che in Francia si scherzi: Mitterrand arriva al potere cavalcando il “fronte di classe” e il “cambiamento della vita”; salvo a rinnegare il tutto nello spazio di due anni). All’insegna di una generalizzata doppiezza, volta a nascondere pratiche moderate con fraseologie alternativistiche; tanto più reali le prime tanto più proclamate le seconde. La pratica della doppiezza come vera e propria droga politica è stata poi addirittura esaltata all’indomani della caduta del muro di Berlino. Liquidati i miti di una diversità appoggiata sul “socialismo reale”, occorreva trovare, e da subito, altri punti d’appoggio: e saranno quelli della diversità etico-culturale - buonismo, nuovismo, movimentismo, giustizialismo, “I care” e quant’altro - che avevano, tutti, il merito di evitare l’appuntamento con il riformismo. All’appuntamento si arriverà alla fine degli anni novanta. E nelle condizioni peggiori. Non solo in Italia, ma in tutta Europa. Terribile ironia della sorte, la sinistra arriva al potere in tutta Europa; ma non per promuovere un ulteriore sviluppo di quello stato sociale (più democrazia, più benessere, più diritti, attraverso il “più pubblico”) che tanto aveva contribuito a far crescere con la sua azione secolare; ma piuttosto per governare, al meglio, il suo ridimensionamento, in conseguenza delle spinte inarrestabili della liberalizzazione e della globalizzazione. E in un contesto in cui il suo orizzonte ideologico (il socialismo), i suoi parametri di riferimento (lo stato nazionale, la crescita dell’economia) e i suoi strumenti di azione (il ruolo del pubblico, la politica keynesiana) sembrano, tutti e tutti insieme, condannati all’obsolescenza. E, allora, il confronto con il centro-destra sul terreno delle riforme appare calibrato in partenza a suo svantaggio. Si combattono le politiche dei governi “liberisti” perché causa di declino economico e di ingiustizia sociale; ma non si è – ancora?- in grado di contrapporvi un “riformismo di sinistra” diverso nei suoi obbiettivi ma efficace nella sua strumentazione. Conseguentemente il riformismo di sinistra è, insieme, assolutamente necessario (cambiare è, comunque, una esigenza ineludibile) e politicamente debole. Soprattutto agli occhi dell’elettorato storico della sinistra, oramai interessato, sempre più visceralmente alla difesa dell’esistente. Ed è proprio per questo che definirsi riformisti, a sinistra, induce automaticamente al sospetto. Il riformismo, quello che si avverte sulla propria pelle, è espresso dagli avversari. Mentre quello dei “nostri” o non è visibile o, quando lo è (vedi Germania e Gran Bretagna) è pericolosamente simile a quello degli altri. Per concludere, l’afasia dei riformisti è accentuata in Italia dalla natura dello scontro politico in atto nel nostro paese. Lo scontro sembra infatti governato da Berlusconi. Da Berlusconi come personalità pubblica e che, come tale, suscita reazioni di rigetto così radicali e generalizzate da giustificare, agli occhi dei più, una strategia elettorale dell’opposizione che si fondi esclusivamente su questo (“uniamoci nel mandare via Berlusconi, poi si vedrà.”). Da Berlusconi come uomo di governo, in polemica perenne con tutte le istituzioni, autorità e/o poteri costituiti – Magistratura, finanza, Rai, sindacato, università, sanità, giornalismo e chi più ne ha più ne metta – così da promuovere, nell’opposizione, reazioni politiche tutte improntate alla loro difesa; in una logica in cui l’intenzione riformatrice trascina quasi con sé l’imputazione di eversione. In quest’ottica c’è pochissimo spazio per il riformismo. Praticarlo anzi è politicamente impossibile; mentre rivendicarne le ragioni sta diventando “politicamente scorretto”. E dunque, il riformismo della sinistra, almeno in Italia, non è una realtà da difendere; ma piuttosto un universo da costruire ex novo. Per questo, è necessaria una scelta politica dell’opposizione, o almeno della sua componente maggioritaria che oggi ha dato luogo ad una lista unitaria. Questa non nascerà automaticamente, la stiamo aspettando. In altre parole, il Triciclo potrà essere un passaggio necessario, ma guai a considerarlo sufficiente. A sinistra manca ancora e la lista unica può essere solo il primo passo Un riformismo tutto da inventare L’afasia dei riformisti è accentuata in Italia dalla natura dello scontro politico in atto nel nostro paese Alberto Benzoni Viviamo, oggi, in Italia, una situazione singolare. Dove una delle parole chiave del “politichese” - riformismo, riforme - è proclamata, e praticata, con ardore incessante dal governo di centro-destra; mentre è considerata con sospetto nel suo “habitat” tradizionale, il centro-sinistra. E dove la connessa “provocazione” di Galli della Loggia - l’essere, nella sinistra, politicamente sopraffatto e culturalmente afasico - è stata, sinora, recepita solo dai pochi cultori dell’argomento. Ma quale è la materia del contendere? Per capirci qualcosa è bene cominciare con un tentativo di definizione. Insomma, cosa significa “riformismo”? A nostro modesto avviso, abbiamo a che fare, nell’ambito della sinistra, con un certo approccio verso la realtà; che non consiste soltanto nel rifiutare gli orizzonti del conservatorismo, da una parte, e della rottura rivoluzionaria, dall’altra; ma anche nel combinare una visione critica dell’esistente (in questo senso, tutti i riformisti sono, anche, radicali, anche se non tutti i radicali sono riformisti…) con la consapevolezza dei limiti, e dei vincoli, propri di ogni progetto razionale di cambiamento (in questo senso, tutti i riformisti sono, anche, moderati anche se non tutti i moderati sono riformisti…). Ciò detto, perché la sinistra italiana non è riformista? Perché, insomma, il relativo schieramento - pur apparentemente maggioritario (leggi Triciclo) sembra non avere né pieno diritto di cittadinanza né compiuta possibilità di espressione? La prima, e più facile, spiegazione è “mancanza di coraggio politico”. Insomma, non si condividerebbe per nulla il fondamentalismo pacifista-giustizialista-girotondista; ma non si osterebbe fare i conti con questo. Sia perché si ha, comunque, bisogno del suo consenso per vincere; sia perché ci si sentirebbe, sempre, sotto tutela. Spiegazione corretta. Ma parziale. Perché le difficoltà del riformismo italiano non sono solo soggettive, ma oggettive; non solo congiunturali, ma strutturali; non solo contingenti, ma storiche. Cominciamo dalla storia. Insomma, dal fatto che la sinistra italiana (come quella francese, ma assai più di questa) è nata alla fine dell’800 ma è diventata alternativa di governo solo alla fine del secolo successivo. Come poteva nascere, in tali circostanze, quella cultura di governo che è, per definizione, parametro essenziale di qualsiasi disegno riformista? E, infatti, non nasce. O meglio, nasce, e fiorisce, solo a livello locale. Per il resto, si fa del riformismo pratico, ma quasi senza consapevolezza “nazionale”. A dominare è la falsa coscienza, alimentata prima dal mito sovietico e poi da quelli nostrani del riformismo anticapitalista, del nuovo modello di sviluppo, della via italiana e… via discorrendo. (Ma non è che in Francia si scherzi: Mitterrand arriva al potere cavalcando il “fronte di classe” e il “cambiamento della vita”; salvo a rinnegare il tutto nello spazio di due anni). All’insegna di una generalizzata doppiezza, volta a nascondere pratiche moderate con fraseologie alternativistiche; tanto più reali le prime tanto più proclamate le seconde. La pratica della doppiezza come vera e propria droga politica è stata poi addirittura esaltata all’indomani della caduta del muro di Berlino. Liquidati i miti di una diversità appoggiata sul “socialismo reale”, occorreva trovare, e da subito, altri punti d’appoggio: e saranno quelli della diversità etico-culturale - buonismo, nuovismo, movimentismo, giustizialismo, “I care” e quant’altro - che avevano, tutti, il merito di evitare l’appuntamento con il riformismo. All’appuntamento si arriverà alla fine degli anni novanta. E nelle condizioni peggiori. Non solo in Italia, ma in tutta Europa. Terribile ironia della sorte, la sinistra arriva al potere in tutta Europa; ma non per promuovere un ulteriore sviluppo di quello stato sociale (più democrazia, più benessere, più diritti, attraverso il “più pubblico”) che tanto aveva contribuito a far crescere con la sua azione secolare; ma piuttosto per governare, al meglio, il suo ridimensionamento, in conseguenza delle spinte inarrestabili della liberalizzazione e della globalizzazione. E in un contesto in cui il suo orizzonte ideologico (il socialismo), i suoi parametri di riferimento (lo stato nazionale, la crescita dell’economia) e i suoi strumenti di azione (il ruolo del pubblico, la politica keynesiana) sembrano, tutti e tutti insieme, condannati all’obsolescenza. E, allora, il confronto con il centro-destra sul terreno delle riforme appare calibrato in partenza a suo svantaggio. Si combattono le politiche dei governi “liberisti” perché causa di declino economico e di ingiustizia sociale; ma non si è – ancora?- in grado di contrapporvi un “riformismo di sinistra” diverso nei suoi obbiettivi ma efficace nella sua strumentazione. Conseguentemente il riformismo di sinistra è, insieme, assolutamente necessario (cambiare è, comunque, una esigenza ineludibile) e politicamente debole. Soprattutto agli occhi dell’elettorato storico della sinistra, oramai interessato, sempre più visceralmente alla difesa dell’esistente. Ed è proprio per questo che definirsi riformisti, a sinistra, induce automaticamente al sospetto. Il riformismo, quello che si avverte sulla propria pelle, è espresso dagli avversari. Mentre quello dei “nostri” o non è visibile o, quando lo è (vedi Germania e Gran Bretagna) è pericolosamente simile a quello degli altri. Per concludere, l’afasia dei riformisti è accentuata in Italia dalla natura dello scontro politico in atto nel nostro paese. Lo scontro sembra infatti governato da Berlusconi. Da Berlusconi come personalità pubblica e che, come tale, suscita reazioni di rigetto così radicali e generalizzate da giustificare, agli occhi dei più, una strategia elettorale dell’opposizione che si fondi esclusivamente su questo (“uniamoci nel mandare via Berlusconi, poi si vedrà.”). Da Berlusconi come uomo di governo, in polemica perenne con tutte le istituzioni, autorità e/o poteri costituiti – Magistratura, finanza, Rai, sindacato, università, sanità, giornalismo e chi più ne ha più ne metta – così da promuovere, nell’opposizione, reazioni politiche tutte improntate alla loro difesa; in una logica in cui l’intenzione riformatrice trascina quasi con sé l’imputazione di eversione. In quest’ottica c’è pochissimo spazio per il riformismo. Praticarlo anzi è politicamente impossibile; mentre rivendicarne le ragioni sta diventando “politicamente scorretto”. E dunque, il riformismo della sinistra, almeno in Italia, non è una realtà da difendere; ma piuttosto un universo da costruire ex novo. Per questo, è necessaria una scelta politica dell’opposizione, o almeno della sua componente maggioritaria che oggi ha dato luogo ad una lista unitaria. Questa non nascerà automaticamente, la stiamo aspettando. In altre parole, il Triciclo potrà essere un passaggio necessario, ma guai a considerarlo sufficiente.

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