UN PROGRAMMA DI SVILUPPO PER L’IRAQ - di Roberto Biscardini dall'Avanti! della Domenica del 24 luglio 2005
22 dicembre 2005
Diario di viaggio di una missione parlamentare a Nassirya
Nel marzo scorso, dopo il voto per il rifinanziamento della missione in Iraq, avevo proposto alla Commissione Difesa del Senato di andare in delegazione a Nassiryia per testimoniare la vicinanza del Parlamento italiano ai nostri militari impegnati in una missione difficile. Inoltre il Parlamento non aveva avuto modo di esprimere direttamente la propria solidarietà al nostro contingente dopo l’attentato di Nassiryia del 12 novembre 2003
Tempi tecnici e questioni legate alla sicurezza hanno consentito lo svolgimento della missione solo a ridosso del nuovo voto parlamentare. Se ci fosse stata la possibilità di far conoscere cosa succede realmente a Nassiryia se non a tutto il Parlamento almeno ai capigruppo, né la maggioranza avrebbe più richiesto il semplice rifinanziamento di quella missione, né l’opposizione avrebbe per l’ennesima volta votato no.
Siamo arrivati da Kuwait City all’aeroporto di Nassiryia con un C130 dell’Aeronautica Militare, considerato più sicuro, e dall’aeroporto raggiungiamo Camp Mittica, all’interno della base di Talli, a bordo di camionette dei carabinieri rigorosamente blindate.
45 gradi all’ombra, ma i militari che ci accompagnano ci dicono che ci sono giorni peggiori, “si può arrivare a 70 gradi” scherzano: “Dovendo portare sempre il giubbotto antiproiettile non c’è pericolo di ingrassare”.
La visita è stata breve, solo poche ore. Il primo incontro è con il generale Pietro Costantino, in una tenda araba, particolare, accogliente, che è anche la sede degli incontri ufficiali. Lo scambio di saluti è segnato da un sentimento di reciproca riconoscenza. Poi il briefing, con preghiera di mantenere una certa riservatezza e di non fare fotografie. In modo dettagliato viene spiegata l’attività dei nostri militari e la situazione attualmente esistente nella regione di Dhi Qar, la regione di Nassiryia sotto il controllo del nostro contingente. Circa un milione e mezzo di abitanti (non esiste un vero censimento) a larghissima maggioranza sciita, la più povera provincia dell’Iraq.
Il ruolo principale del nostro contingente è naturalmente il controllo del territorio e dei confini della regione. Ma il vantaggio relativo di non confinare con altri paesi non riduce i pericoli di facili attraversamenti. La criminalità interna secondo i dati in possesso del nostro contingente diminuisce ma aumenta il pericolo del terrorismo esterno.
Durante il lavoro di “monitoring” si parla con la gente e si svolge l’attività più importante, quella che è parte del processo di democratizzazione del paese. Si distribuiscono “pillole di democrazia” ad un popolo che ha conosciuto quasi esclusivamente la dittatura. Si insegna concretamente come esercitarla, consigliando e aiutando i nuovi eletti, i nuovi governatori, il presidente del consiglio regionale, quando viene richiesto. Alcuni di loro hanno di recente deposto le armi e hanno accettato la regola della democrazia e il voto popolare. Nei limiti del possibile si cerca di trovare il modo per risolvere problemi. I capi villaggio, i capi tribù, gli sceicchi, la popolazione parlano con i nostri militari e confrontandosi si costruisce democrazia.
In Iraq come si sa non ci sono le condizioni per una presenza di forze e organizzazioni civili che si dedichino all’attività umanitaria, spetta quindi ai militari farsi carico di questi problemi. Non si può arrivare a tutto ma, come abbiamo potuto vedere in un villaggio, i nostri militari accompagnati da un interprete del luogo, visitano le famiglie, fanno l’elenco dei bisogni più elementari. Nei giorni successivi verrà attrezzato un campo per la distribuzione di alimenti e vestiti sulla base di quegli elenchi. Nulla viene fatto a caso e in una tenda piantata in mezzo al deserto si curano i malati.
Poi c’è l’attività ancora più importante, quella dell’addestramento della polizia e dell’esercito iracheno, ex-militari di Saddam che, addestrati, diventano militari del nuovo Stato. Gli italiani hanno aiutato ad impiantare 64 stazioni di polizia, addestrato 8.000 poliziotti e 1.000 soldati. I sopralluoghi, fuori dal campo base, sono effettuati con le necessarie quanto ordinarie misure di sicurezza personale, mentre gli elicotteri sorvolano il territorio a bassa quota per verificare la presenza di eventuali attentatori. Si ritorna al campo base per il pranzo in una delle tre mense del nostro contingente. I militari, ci spiegano quanto ci sia ancora da fare, molti vorrebbero rimanere oltre i 120 giorni che di norma rappresentano il tempo della loro permanenza a Nassiryia. Nelle loro parole si percepisce la soddisfazione di essere lì, con competenza e professionalità. Molti di loro non vorrebbero interrompere il lavoro iniziato. Poi i saluti e l’incontro con il vice-governatore iracheno, che è orgoglioso di essere stato eletto direttamente dal popolo e oggi di rappresentarlo.
Ammesso che ci fossero dubbi, si torna con la convinzione che il ritiro delle nostre truppe, per il momento, non ha senso. Sarebbe un atto prematuro e politicamente irresponsabile. Non aver voluto l’intervento militare in Iraq non è una ragione sufficiente per volere il ritiro dei nostri militari e non lo sarebbe neppure se fossimo noi oggi al governo. Il problema è ormai un altro. Se da un lato non ci sono le condizioni per chiedere il ritiro immediato del nostri militari, dall’altro la questione è sempre più politica e meno militare. Il problema ormai è quello di contribuire a definire insieme ad altri paesi e all’Europa un programma di sviluppo economico di sostegno al Governo e alla popolazione irachena e solo in quell’ambito definire contestualmente un progressivo e credibile dei nostri militari.
Lo sceicco ha chiesto al nostro contingente di costruire una rete idrica e sistemare la centrale elettrica, di dare una mano consistente per dotare di infrastrutture il paese, di costruire servizi e di rafforzare le strutture sanitarie, tutte cose che non possono essere realizzate, nonostante la buona volontà, dai nostri militari e senza risorse.
Di fronte alla difficoltà del governo Berlusconi di fare un salto di qualità per definire una strategia politica per il futuro dell’Iraq, l’Unione dovrebbe non perdere un’occasione per farsi carico di una proposta concreta e complessiva.