UN PAESE SENZA STRATEGIA di Gianni De Michelis

29 aprile 2008

UN PAESE SENZA STRATEGIA  di Gianni De Michelis

Meglio tardi che mai: da qualche giorno anche i temi di politica estera hanno fatto irruzione nello stanco copione lungo il quale si stava dipanando il dibattito preelettorale. Fra un Ciarrapico e un Calearo almeno si è cominciato a parlare di cose più serie. All’inizio la discussione è stata innescata da prese di posizione un poco estemporanee, e forse non sufficientemente meditate, come le dichiarazioni di Martino circa la nostra presenza in Libano e le opportunità di dialogo con Hamas, con le conseguenti reazioni dell’ambasciatore israeliano. Ora però, le drammatiche vicende del Tibet e del Kosovo hanno messo anche la politica italiana di fronte alle contraddizioni con le quali sempre più saremo costretti a fare i conti nell’aprirci la strada tra i lati negativi e quelli positivi che il processo di globalizzazione sempre più comporta e comporterà. La prima osservazione che viene alla mente nel vedere le reazioni che hanno caratterizzato il mondo politico, a prescindere dagli orientamenti del medesimo, è quella di reazioni improvvisate, quasi balbettanti, e ispirate soprattutto al timore di dire qualcosa che possa risultare elettoralmente negativo. Il caso del Tibet è emblematico: da un lato si è vista l’ovvia espressione di simpatia per le popolazioni tibetane e la condanna dell’uso della forza da parte delle autorità cinesi, dall’altro la reticenza ad invocare esplicitamente il boicottaggio delle Olimpiadi nel timore di ficcarsi in una strada senza uscita, alla fine scarsamente produttiva anche ai fini di una solidarietà concreta ed efficace nei confronti della parte più debole. D’altronde non è un caso l’atteggiamento prudente del Pontefice, né il fatto che lo stesso Dalai Lama si sia guardato bene dall’invocare tale boicottaggio. Il problema è che l’esplodere improvviso di tali contraddizioni (e la situazione in Kosovo con riguardo all’Italia ne rappresenta una prova ancora più significativa) ha messo in luce le profonde carenze nella nostra classe dirigente nel cercare di orientarsi nel groviglio delle nuove sfide (non solo economiche e finanziarie, ma anche più strettamente politiche), con le quali sempre più saremo chiamati a misurarci. Occorrerebbe una bussola, una visione strategica tale da aiutarci ad orientarci e quindi basata su una precisa consapevolezza dei nostri interessi nazionali e delle priorità che ne conseguono. Invece scopriamo drammaticamente (ed il fatto che ciò avvenga nel mezzo di una campagna elettorale lo sottolinea ancora di più) che siamo un Paese che da oltre quindici anni si guarda l’ombelico e quindi non è più capace di capire quello che gli succede attorno. Reagiamo emotivamente a favore dei tibetani , ma non ci siamo emozionati per le vicende dei ceceni; inorridiamo per le vittime civili di parte palestinese, ma non riusciamo a cogliere fino in fondo il nesso che lega tali vittime all’azione criminale di quei gruppi terroristici che ogni notte sparano i loro razzi sulle città del sud di Israele. Non abbiamo prestato attenzione a ciò che avrebbe significato il frettoloso ed improvvido riconoscimento del Kosovo, e rischiamo oggi di giudicare le allarmanti vicende di Mitrovica con i parametri di dieci anni fa, quasi che a Belgrado vi fosse ancora Milosevic. Berlusconi era pro Putin e Prodi pro Hu Jintao, ma né l’uno né l’altro sono stati in grado di collocare tale simpatia nel quadro di un vero e proprio disegno strategico. Nel frattempo il disordine mondiale aumenta e la via d’uscita sicuramente richiederà la rimessa in discussione di alcuni mantra che fino a ieri andavano per la maggiore. Dobbiamo definitivamente rimettere nel cassetto la fine della storia di Fukuyama e con essa l’idea della definitiva ed irreversibile prevalenza della democrazia rappresentativa di tipo liberaldemocratico e dell’economia di mercato, quale abbiamo conosciuto negli ultimi decenni. Ciò non dovrà significare l’abbandono della lotta per far prevalere la democrazia, i diritti umani e la società aperta, né arretrare rispetto alle logiche del libero scambio e della libera circolazione delle idee e delle persone, oltre che dei capitali e delle merci; bisognerà però ridefinire le modalità per combattere tale lotta nel contesto di una situazione che si presenta molto diversa da quella che sino ad oggi abbiamo conosciuto. Questo ormai comincia ad essere evidente sul piano strettamente economico, come conseguenza del fatto assolutamente nuovo che ormai non sono più le cosiddette economie di mercato a generare la parte prevalente della ricchezza aggiuntiva che viene prodotta ogni anno su scala globale, e quindi bisognerà fare i conti con regole del gioco particolari, e spesso per noi meno gradevoli, con cui funzionano le economie di paesi come la Cina, l’India, la Russia, il Brasile, il Sudest asiatico o le monarchie del golfo. Ma proprio in questi giorni e in queste ore cominciamo a rendercene conto, e tutto ciò comincia ad avere effetti anche sul terreno più strettamente politico, e questo spiega l’immagine di impotenza rispetto alle vicende kosovare o tibetane della comunità internazionale ufficiale. Come abbiamo rilevato già qualche giorno fa, tutto sommato, il più avvertito dei politici italiani si sta dimostrando Giulio Tremonti, che dimostra di avvertire il salto di paradigma che è in corso e la inevitabile necessità di adeguarsi: certo, come d’altronde lui stesso ha recentemente detto, per fare una prognosi corretta occorre innanzitutto una diagnosi adeguata e ci piacerebbe che l’occasione elettorale venisse considerata un’opportunità a questo fine. Ci permettiamo di avanzare un piccolo suggerimento al fine di stimolare tutti, a partire proprio da Tremonti, in questa direzione: egli dice che sarebbe necessaria una nuova Bretton Wood. Ebbene richiamiamo la sua attenzione che in realtà essa in qualche modo è già in calendario e tra l’altro ci riguarda direttamente. Infatti il G8 dell’anno prossimo si terrà proprio in Italia, alla Maddalena, e sarà il governo che uscirà dalle elezioni ad ospitarlo. Tenendo conto che il G8 di quest’anno sarà di transizione, visto che la partecipazione americana sarà assicurata da un presidente giunto a fine corsa, è inevitabile che proprio alla Maddalena il mondo dovrà porsi le questioni di fondo cui le vicende di queste settimane (sia quelle finanziarie, che quelle economiche, che quelle politiche) ci stanno ponendo di fronte. Ebbene non ci parrebbe così assurdo chiedere alle forze politiche che si misurano nella competizione elettorale, e soprattutto alle due maggiori, se hanno qualche idea circa il modo con cui esse ritengono che l’Italia debba svolgere il suo ruolo di ospitante di tale confronto decisivo. Proprio in questi giorni le cronache ci costringono ad un ricordo non proprio gradevole delle vicende del precedente G8 italiano, quello di Genova; ora abbiamo l’occasione di riscattarci e quale preparazione migliore di un confronto a viso aperto nel momento principe nella vita di ogni democrazia e cioè nella campagna elettorale? Invece di tante inutili primarie e di tante invocazioni al nuovo e al cambiamento, crediamo che gli italiani apprezzerebbero assai di più un confronto che dimostri che davvero vi è la volontà di mettersi alle spalle quello che ormai tutti definiscono come un quindicennio sciagurato, dimostrando, come Tremonti ha cominciato fare, che davvero tentiamo di capire il senso di quello che ci succede attorno

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