UN DISSENSO PROFONDO E DI LUNGA DATA TRA COMPAGNI di Emanuele Macaluso da Il Riformista del 4 dicembre 2011

12 gennaio 2012

UN DISSENSO PROFONDO E DI LUNGA DATA TRA COMPAGNI di Emanuele Macaluso da Il Riformista del 4 dicembre 2011

La scomparsa di Lucio Magri, anche per come si è verificata, ha suscitato reazioni diverse, ma tutti coloro che hanno parlato o scritto, tranne poche eccezioni, l’hanno fatto con grande rispetto per le scelte operate nel corso di un’esistenza, segnata da tante battaglie politiche e culturali, sino a quella condotta per porre fine alla sua vita. Occasione, questa, per ripercorre e discutere l’impegno politico di Magri, nella sinistra cattolica e democristiana, prima, e quella con i comunisti poi. E su questo impegno voglio dire qualcosa, anche perché con lui ebbi un rapporto, iniziato con un viaggio che fece con me, negli anni Sessanta, a Budapest, per spiegare a Kadar le ragioni della nostra opposizione a una delle Conferenze Internazionali dei partiti comunisti. Il giorno prima della riunione del Comitato Centrale che deliberò la radiazione del gruppo del Manifesto, a casa mia (abitavo nella Torre del Grillo) vicino alla sua, cercai di dissuadere lui e altri, inutilmente, dal tirare la corda, che quel giorno si sarebbe spezzata con una decisione certo sbagliata da parte del Pci, ma voluta anche da Lucio, che del gruppo era il più determinato. Su quella rottura si continua a dire che il dissenso riguardava la posizione assunta dal Pci sulla Cecoslovacchia. Non è così, basta leggere i resoconti di quel Comitato Centrale: nell’intervento di Aldo Natoli si dice che il Pci sul tema aveva una posizione del tutto condivisibile. Ne parlo perché la questione vera, di fondo, della rottura ha radici più profonde e attiene ai caratteri e al ruolo che il Pci esercitava nella società italiana. Le radici di quel dissenso sono state rese esplicite in tanti scritti di Magri e nella biografia di Rossana Rossanda. La quale scrive di Togliatti: «Il suo obiettivo non fu rovesciare lo stato di cose esistenti, ma garantire la legittimità del conflitto. Non so se fosse arrivato a pensare che era la condizione in assoluto migliore in Occidente, o al presente non si potesse fare altro». «L’altro» di cui parla la Rossanda è la “discontinuità”, la rottura del sistema capitalistico che il gruppo del Manifesto riteneva possibile realizzare negli anni ’67-’70. Non si trattava di fare la rivoluzione armata, ma portare lo scontro a un livello più alto e forte per imporre, con le riforme di struttura, una fase di “transizione” al socialismo. La critica al gruppo dirigente del Pci era simile a quella che, negli anni ’50, fece Secchia a Togliatti. Anche allora, Secchia, non ipotizzava la rivoluzione armata ma uno scontro sociale e politico più duro, per creare le condizioni di una “transizione”. Strategie, questo è vero, che Togliatti, Longo, Berlinguer e i gruppi dirigenti del Pci respinsero sempre, perché anziché la “transizione” avremmo avuto la “reazione”. E che reazione! Ho voluto ricordare quale fu effettivamente il nucleo politicamente forte del dissenso, perché le inquietudini di Magri, il suo modo di fare politica, le sue elaborazioni, i suoi transiti dal Pci al Manifesto, da questo al Pdup e poi ancora al Pci e infine a Rifondazione Comunista, a mio avviso, originano da questo nodo. C’è nel suo agire una coerenza nelle sconfitte. È questa la ragione per cui ho considerato importante il suo ultimo libro Il Sarto di Ulm: Una possibile storia del Pci. Un libro onesto in cui emergono con nettezza la diversità di linee politiche che si confrontarono non solo nel Pci, ma nel Psi, nei movimenti, nella sinistra e coinvolsero anche il sistema politico italiano nel suo complesso. Lucio, mi invitò più volte a casa sua per discutere alcuni passaggi del suo libro: anche, per non ripetere gli errori su come e quando si svolsero alcuni momenti della storia del Pci, da me riscontrati nel libro di Rossana Rossanda. Infine mi chiese di partecipare alla presentazione del Sarto di Ulm a Roma: cosa che feci volentieri. Da quel libro si capisce che Magri è stato l’ispiratore più attivo e convincente di quasi tutti i momenti in cui nel Pci si è svolta una lotta politica. Ingrao ha raccontato che il suo intervento di opposizione al gruppo dirigente, all’XI Congresso, lo preparò a casa sua con Lucio. Nel gruppo del Manifesto c’erano tante teste pensanti, ma fu Magri a costruire la frazione e a tirare più di tutti la corda: aveva sempre in testa un progetto politico, anche quando costituì un piccolo partito, il Pdup. E nel suo libro dice che tornò nel Pci quando alla guida, c’era un “secondo Berlinguer”. E considera una “seconda svolta di Salerno” il mutamento di linea impresso da Enrico, dopo la fine dei governi di unità nazionale (1976-1979) voluti dal “primo Berlinguer” e aspramente criticati da Magri. Come ho più volte detto e scritto, non ci sono stati due Berlinguer, la “svolta di Salerno” del 1980 fu una variante tattica rilevante, di una strategia che tendeva a riaprire il rapporto con la Dc e il Psi, guidati da altri dirigenti: senza il Pci non si governa, con esso dovete fare i conti. Nulla di più e nulla di meno. La svolta strategica era solo nella testa di Lucio. E a questo proposito è interessante, anche perché coerente, il capitolo del libro dove racconta come al XVIII congresso del Pci, 1989, l’opposizione ad Occhetto fu preparata con Pietro Ingrao e altri, con un ampio documento scritto da Lucio (è nell’appendice del libro) per rifondare il Pci su basi alternative a quelle esposte da Achille. Ma Ingrao, incantato da Occhetto che accolse alcune idee “ecologiche” di Pietro (l’Amazzonia), si schierò con la maggioranza. È impressionante ancora una volta, come Lucio consideri un disegno politico-ideologico, scritto in un documento, in grado di radunare le forze per guidare un partito ancora grande e pesante come il Pci. E, dopo la Bolognina, è ancora lui ad animare la scissione e la nascita di Rifondazione Comunista con tante ambizioni e tante delusioni, che lo spingono a nuove rotture. Cosa dire? Alcuni giorni dopo la presentazione del Sarto, Lucio venne a trovarmi e mi disse che aveva voglia di chiacchierare con me. Andammo a mangiare insieme e capii come sarebbe finita: l’amara profonda irreparabile delusione politica si intrecciava con la morte di Mara, in solitudine. I miei discorsi su ciò che, anche nelle sconfitte, ci offre la vita non lo sfioravano. Per chiudere la conversazione gli dissi che il mio pessimismo era temperato dal fatto che come riformista ritenevo che la mia vita passata tra sindacato e politica era stata ben spesa. Non ero pentito anche se valutavo criticamente alcune scelte fatte. Insomma, gli dissi, l’avanzata sociale era anche opera mia. E, gli dissi, anche opera tua: hai lottato per un rovesciamento del sistema e non c’è stato. Ma hai contribuito a dare una coscienza politica a tanti che poi la useranno anche con disegni diversi. E invece ha smesso di vivere. La sua scelta amara va però rispettata con tutto ciò che ha fatto con passione e disinteresse. Anche questa scelta è un fare politica pulita e onesta.

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