TUTTA L’ITALIA E’ INDIFFERENTE ALL’UNITA’, di STEFANO CIAVATTA, da Il Riformista di domenica 16 maggio 2010
01 giugno 2010
I NOSTRI 150 ANNI. Parla lo storico Emilio Gentile a un secolo e mezzo dal fatidico 1861: «Ci sono più di due nazioni nel nostro Paese. Il federalismo non sarà un processo pacifico». Per lo studioso, il sentimento patriottico è andato perduto già nel 1961, «eppure abbiamo poco da invidiare agli altri». La Lega? «Non bisogna criminalizzarla. Dall’altra parte, oltre al motto “W l’Italia unita”, c’è il nulla».
Italia, maggio 2010. Mancano ancora molti mesi all’inizio delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia: il mito della nazione intaccato da più parti inizia a somigliare a un luogo comune. Più grida di allarme che entusiasmi. Mentre il Presidente della Repubblica sbarca simbolicamente a Marsala accolto da bambini con la camicia rossa, per un leghista storico come il ministro Calderoli il problema non si pone. Intervistato in settimana dal Corriere della sera ha detto che l’unità «oggi non esiste. Non è stata fatta né 150 anni fa, né il 2 giugno del ‘46. Perché le Italie sono due. A noi leghisti ci interessa molto più il futuro del passato. Che senso ha che io mi metta a dare oggi giudizi su Cavour piuttosto che su Vittorio Emanuele II? Sono questioni ancora aperte, oggetto di nuovi revisionismi, che lascio volentieri agli storici». Storico è anche Emilio Gentile, uno dei maggiori italiani, autore di un saggio più volte ristampato, La grande Italia. Il mito della nazione del XX secolo (Laterza) dedicato proprio a quella che oggi più di un politico definisce addirittura una chimera.
IL DIBATTITO
«Due Italie soltanto? Se si parla diversità, allora sono molte di più», spiega il professore al Riformista. «Non è una definizione che possa valere dal punto di vista storico, ma esclusivamente politico, è come dire i buoni da una parte e i cattivi dall’altra. Fin dall’Unità, ci sono state divisioni simili: di volta in volta si diceva ci fossero due Italie, prima per la razza, poi politicamente, poi la divisione tra Italia legale e reale. È uno dei miti più costanti dell’Italia unita, riappare ogni volta che si sono situazioni critiche. Giusto pensare al futuro, ma sul federalismo per ora si è parlato in termini fiscali. Che vuol dire? Che quella Italia chiude in cassaforte i suoi soldi? O forse si vuole procedere all’inverso dell’unificazione? C’è stato un solo caso di scissione pacifica: la Cecoslovacchia. Tutti i processi storici vanno dal molteplice all’unità, e non viceversa, che spesso comporta eventi tragici e non pacifici, come i bagni I di sangue in Jugoslavia. Comunque vada, si dovrà tenere conto che non sarà un processo pacifico».
Negli anni Novanta con il saggio “Se cessiamo di essere una nazione” lo storico Gian Enrico Rusconi lanciò un allarme. Si aprì un dibattito che viaggiò in parallelo al recupero dell’interesse verso la Resistenza. Cosa è cambiato da allora?
È cambiato in senso deteriore. Detesto il termine identità nazionale, ammetto solo la carta d’identità che come tutte le carte va rinnovata puntualmente. Parliamo piuttosto della consapevolezza di appartenere a uno Stato per cui si ritiene di condividere diritti e doveri. Ciampi all’epoca fece molto, ma l’Unità oggi è per tutti indifferente. Inoltre lo scarso sentimento patriottico degli italiani non è un’espressione della Lega. Nella prima edizione del mio libro, nel 1997, raccontavo che già nel 1961, nel suo centenario, l’Italia aveva perso il senso del patriottismo. Da allora non mi pare cambiata, nonostante le fiammate che indicano molti, o “fuochi fatui” come li chiama lo storico Rosario Romeo: la vittoria degli azzurri in Spagna nel 1982, l’episodio di Sigonella o l’invio delle nostre navi nel Golfo Persico del 1997. Ma non c’è stata nemmeno la consapevolezza che la perdita della coscienza nazionale significasse pericolo per la democrazia. Sempre Romeo nel 1979 riteneva che «gli stati nazionali fossili privi di significato», e che, scomparsa la nostra coscienza nazionale, fosse meglio «appellarci a quella europea.
Dino Zoff ha dichiarato di recente: «A Wembley, la sera in cui per la prima volta battemmo gli inglesi, con il gol di Capello, smisero di trattarci da pizzaioli. La Nazionale era una forma di riscatto sociale, anche se non andava di moda cantare l’inno». L’unità nazionale passa anche attraverso la reazione emotiva popolare? Se ne è parlato anche il giorno dell’attentato a Kabul con la morte dei sei parà.
Dopo Spagna ‘82 si disse «abbiamo una solida identità, ecco il risveglio patriottico...». Ciò che rappresenta la coscienza nazionale è una quotidianità senza clamorosa emotività. Sempre in fatto di emozione, mi riesce un po’ difficile interpretare l’emozione che provoca la morte. Una volta l’esercito era lo specchio della società perché c’era la leva obbligatoria, una degli obblighi caratteristici dell’essere cittadini. Oggi sono ottimi professionisti, volontari al massimo livello, ma non possono essere presi a modello.
C’è sempre un senso di inferiorità e di invidia nei confronti della solidità nazionale degli altri stati europei. Perché?
È un errore. Anche perché non abbiamo molto da invidiare. Quegli stessi stati, come la Francia, hanno sofferto profonde scissioni interne, rivoluzioni, repubbliche. Certo, la più lunga unità statale rappresenta un valore. Ma anche la Germania è giovane, così come invece se è vero che la Spagna è antica, ha però avuto la più feroce guerra civile del ventesimo secolo. In Italia c’è il mito di sentirsi anomali, il che ci assolve dall’affrontare la questione: cosa vogliamo essere oggi? Viviamo in un mondo di nazioni, il cui organismo principale si chiama appunto Onu. Un altro mito è quello del carattere italiano che non saprebbe vincere il proprio egoismo. Lo è per molti che di professione fanno gli antitaliani. Ignorando il continuo rimescolamento dei costumi nella storia del nostro Paese. Come si fa a dire “il carattere degli italiani?”. Purtroppo, se molto di quello che gli italiani pensano di se stessi è relativo a quello che pensano della loro classe dirigente, che non da nessuna speranza, non si uscirà da questo circolo vizioso.
Da una parte, Renzo Bossi che dichiara di non essere mai sceso a sud di Roma. Dall’altra, forze politiche che gridano all’allarme secessione.
Neanche Cavour è stato più a sud di Genova e Torino, quindi forse chi scende al di sotto è un autentico patriota. Se la Lega oscilla tra la minaccia di secessione e la volontà di fare un’Italia migliore col federalismo, dall’altra parte non c’è stata nessuna presa di posizione se non gridare «W l’Italia unita» e basta. Si dovrebbero opporre critiche più solide. La mia visione personale, da cittadino? Sono molto spaventato. È un fenomeno irreversibile, non sappiamo dove andremo a finire, senza Stato e senza nazione. Non bisogna criminalizzare la Lega, semmai capire come mai riesce ad avere questa capacità di espansione. Nemmeno l’università contribuisce alla conoscenza storica, anche per lo scarso peso in generale della scuola.
Steven Spielberg è diventato uno storiografo dell’America. Prima gli archivi sulla Shoah, poi il racconto dello sbarco in Normandia, ora con “The Pacific” il fronte asiatico nella seconda guerra mondiale. In Italia è mai successa una cosa del genere?
L’impressione è che in tv non ci sia mai stato equilibrio tra denigrazione e decorazione retorica. Il problema della nazione come entità non ha riscosso alcun interesse nella cultura. Mentre altrove, oltre Spielberg, anche Eastwood, con Lettere da Iwo Jima e Flags of Our Fathers, ha sentito la necessità di narrare la storia senza adattarla, senza inventarsi nulla, facendo vivere soltanto la storia dei protagonisti veri, recuperata attraverso le lettere dei reduci. Da noi c’è solo un agitare la bandiera. Un filosofo e un musicista prima del fascismo si poneva il quesito, scrivo anche per la nazione. Dal fascismo in poi, con l’estremizzazione del nazionalismo, non c’è stato più. Gli italiani si sono liberati dal nazionalismo ma non si sa come l’abbiano sostituito.