THE END, RECESIONE AL LIBRO DI ANDREA SPIRI di Alberto Benzoni del 6 giugno 2022
06 giugno 2022
Sono passati trent’anni dalla tragedia di Mani pulite. Una
generazione. Ma i socialisti non sono ancora usciti dal suo cono d’ombra. Preda
di una spirale autodistruttiva, in un ambiente in cui manca l’aria e il mondo
esterno non esiste. Così come manca qualsiasi identità comune.
Per guardare al futuro è dunque necessario fare i conti con
il passato. Capire, una volta per tutte, cos’è successo e perché.
In questo senso il libro di Andrea Spiri ci può essere di
grande aiuto. Si chiama, non a caso “The end”. Ma il suo titolo potrebbe essere
benissimo “The eye”. Perché le vicende che l’autore segue passo passo nell’arco
degli anni 1992/1994 sono quelle percepite, commentate e, diciamo così,
accompagnate, nei dispacci inviati a Washington dai diplomatici di Roma e dal
console a Milano.
Si tratta di documenti desecretati secondo le direttive del
Freedom of Information Act. Il che esclude dal nostro campo ciò che deve
rimanere segreto, leggi trame oscure e servizi più o meno deviati. Ma qui non
c’è bisogno del complottismo per spiegare ciò che sta accadendo: la fine della
guerra fredda e, con essa, della necessità di proteggere la prima repubblica e
la sua classe dirigente.
Una classe dirigente diventata sempre più invisa agli
americani, con l’andar del tempo: perché corrotta e inefficiente, certo; ma
anche perché rappresentava un modello - ruolo dello stato e del pubblico, della
politica e dei partiti, tasse e spese e, sul piano internazionale, una linea
autonoma, almeno a livello mediterraneo - nella loro ottica negativo e superato
dai tempi.
Un rigetto naturalmente condiviso da una parte consistente
della classe dirigente e della popolazione italiana: dagli ambienti economici e
finanziari del Nord, ai negozianti costretti ad introdurre lo scontrino; dal
“partito europeo e americano“, ora rappresentato dall’ex Pci da sempre alfiere
della “questione morale”; dai giudici votati a diventare protagonisti di un
repulisti salutare sino ai ceti medi, con la loro rivoluzione morale, anzi
moralistica.
Una rivoluzione, quella vissuta e registrata dai diplomatici
Usa, unica voce narrante del racconto: compatta e vincente nelle individuazione
dei suoi bersagli; intensa ma caduca nella scelta dei suoi eroi; e, infine, del
tutto incerta nelle sue previsioni.
Primo nemico da abbattere, Bettino Craxi. La cui discesa
agli inferi è non solo prevista ma auspicata e seguita passo passo, dai primi
contatti del console Semler con Di Pietro (sua la convinzione, siamo agli inizi
del 1992, che “Craxi sia un uomo finito”) sino al suicidio di Moroni e al
lancio delle monetine, con una mancanza totale di empatia che lascia perplessi.
E accompagnata da riferimenti favorevoli all’atteggiamento di Martelli che, di
ritorno da un viaggio a Washington, dove si è incontrato con il ministro degli
esteri Baker, lancia la sua candidatura alla leadership per “salvare l’onore
del partito”, come alla presa di distanza dal leader del presidente del
consiglio Amato che, assieme a molti altri, auspica un suo ritiro dalla scena,
così da garantire al partito di “lasciare gli scandali alle spalle”.
Un auspicio condiviso dai nuovi gruppi dirigenti. Ma molto
meno dagli iscritti e soprattutto dagli elettori che, come ci ricorda anche
Spiri, abbandoneranno in massa il partito già nel corso del 1992. Per non
ritornarci mai più.
In realtà in quell’auspicio c’era un grossolano errore.
Perché la zavorra da buttare in mare era semmai la linea politica di Craxi, del
tutto improponibile da allora in poi. Ma non certo la sua persona. E la forza
del suo messaggio revisionista. Mentre nessuno sembra accorgersi che bersaglio
dell’odio e del disprezzo universale non sono i grandi scandali che porteranno
alla sbarra i politici della prima repubblica ma piuttosto le pratiche
quotidiane di un partito, quello socialista, che dai primissimi anni ottanta in
poi e a livello periferico, ha rinunciato a fare politica per dedicarsi senza
remore alla ricerca del potere e del denaro.
Ma tutto questo appartiene al senno del poi. Perché,
archiviata la questione socialista - e con essa anche i suoi momentanei eroi
(vedi lo stesso Martelli) - e a partire dalla primavere del 1993, la crisi del
vecchio sistema diventa definitiva ma, nel contempo, rischia di sfuggire di
mano. A partire dai referendum che demoliscono a furor di popolo, tutte le
istituzioni della prima repubblica; per continuare con la caccia all’uomo che
porta al suicidio di Cagliari e Gardini; per finire con la nuova legge elettorale
che dovrebbe dar vita ad un sistema bipolare di cui ancora non si intravvedono
i protagonisti. E il cui unico punto fermo rimarrà, nel tempo, il Pds/Pd,
garante dei legami europei e atlantici del nostro paese.
E allora, via Veneto si interroga. Sul futuro della
democrazia cristiana, nella nuova versione del partito popolare, sul quale è
sostanzialmente scettica. Sulla figura di Andreotti che, oggetto di accuse
infamanti e ben più pesanti di quelle rivolte a Craxi, si presenta
all’ambasciata difendendo sino in fondo il suo operato di contrasto alla
malavita organizzata e soprattutto la sua politica estera nel Mediterraneo e
nei Balcani.
E soprattutto sulla natura del centro-destra destinato a
contrapporsi alla coalizione guidata dal Pd, già da prima consacrato nel suo
ruolo di pilastro affidabile del sistema. Che, nato nelle intenzioni come
compagine liberale con il supporto di Berlusconi, si trasforma rapidamente in
coalizione antisistema a guida berlusconiana.
E qui la fine della storia è per un verso molto
problematica: nel senso di ritenere, in sé, il bipolarismo come potenzialmente
instabile e pericoloso. Ma, per altro verso, anticipatrice, anzi di
straordinaria attualità.
E qui valga l’entusiasmo senza riserve con cui è accolta la
formazione del governo Ciampi. Che non riguarda soltanto la persona. Ma anche
la natura “tecnica e istituzionale” e il programma economico del suo governo
(tagli alla spesa pubblica e, in particolare, alla sanità e alle pensioni,
aumento delle tasse, priorità alla riduzione del deficit) e, soprattutto, la
comune visione sul ruolo futuro della Nato come “comunità di valori” e sulla
sua possibilità di espansione verso Est. Qui a dare il la (nell’incontro
ufficiale a Washington del settembre 1993) è proprio Clinton che ha bisogno di
promuovere l’una e l’altra come antitesi al ripiegamento isolazionistico,
tendenza naturale del popolo americano. Con il sì di principio della parte
italiana, corredato dalla raccomandazione di non “minacciare la Russia”. Di cui
Clinton prende atto.
E qui finisce il nostro percorso. Complimenti sinceri al suo
traghettatore. Che partito dalla sponda della prima repubblica ci ha portato in
un 1992/93, embrione/crisalide della farfalla di oggi.
A noi il commento finale su questa straordinaria ed edificante
vicenda.