TANTE RAGIONI PER UN NO di Roberto Biscardini per galileo.net novembre 2016

13 novembre 2016

TANTE RAGIONI PER UN NO  di Roberto Biscardini per galileo.net novembre 2016

Ci sono ragioni di fondo che mi hanno fatto decidere subito per il NO rispetto a questa brutta controriforma della nostra Costituzione.
Nel merito tre questioni.
Primo. Il dibattito si concentra di solito sui poteri demiurgici che dovrebbe aver questo nuovo Senato, mentre è solo un letterale pasticcio, un ibrido. Non elimina il bicameralismo paritario e rimane in piedi con poteri legislativi propri. Ancorché composto da consiglieri regionali e sindaci non eletti direttamente dai cittadini, avrà la possibilità di legiferare su materie assolutamente importanti quali le leggi di revisione costituzionale, i referendum popolari, le leggi elettorali, quelle riguardanti gli enti locali e soprattutto quelle relative alla partecipazione dell’Italia alle politiche dell’Unione Europea. Oggi circa l’80% delle leggi che approva il parlamento riguardano questa materia. Quindi per tutte queste leggi la cosiddetta “navetta” rimane esattamente in piedi come ora e i tempi di formazione delle leggi non solo non saranno ridotti ma potrebbero persino allungarsi per effetto di conflitti di competenza tra le due Camere. Insomma i tempi non si ridurranno.
Delle due l’una, se si voleva abolire drasticamente il bicameralismo paritario si doveva avere il coraggio di abolire il Senato tout court. Se invece si voleva come obiettivo ridurre il numero dei parlamentari, regolamentando pur in modo diverso il funzionamento delle due Camere, meglio ridurre da 630 a 400 i Deputati e da 315 a 150 i Senatori, con un risultato più marcato di quello previsto da questa riforma. Secondo. Si dice: ma abbiamo fatto il Senato delle Regioni. E non è vero neanche questo. Il Senato delle Regioni dovrebbe avere come propri rappresentanti non consiglieri sostanzialmente nominati dai partiti, ma rappresentanti dei governi regionali in carica come sul modello del Bundesrat tedesco. E poi si dice: ma noi con la riforma rafforziamo i poteri regionali. Ed invece per assurdo è vero esattamente il contrario. Con la riforma aumentano le competenze esclusive dello Stato e addirittura su proposta del Governo lo Stato può esercitare una “clausola di supremazia” degli interessi nazionali sulle competenze delle Regioni. Siamo ritornati al centralismo statale ante 1970, e ogni ipotesi federalista o regionalista è messa ormai totalmente in discussione.
Contemporaneamente rimangono totalmente in piedi le Regioni a statuto speciale, che rappresentano insieme un vecchio anacronismo e uno dei fattori di spesa più alti della finanza pubblica.
Terzo. Il tema della cosiddetta estensione della partecipazione popolare, questione vera, aperta dalla fine degli anni ’60, e che giustificherebbe una seria e meditata revisione costituzionale. Anche qui siamo al paradosso. L’esatto contrario di quello che si dice di voler fare. I cittadini per presentare delle proposte di legge di iniziativa popolare dovranno raccogliere 150.000 firme contro le 50.000 attuali e la procedura per i referendum è diventata assolutamente bizantina. Ma arriviamo ai punti politici. Il primo riguarda il metodo con il quale si è arrivati a questa riforma. Contro il parere e lo spirito dei padri costituenti si è introdotto il principio che una maggioranza parlamentare, eletta col sistema maggioritario e con legge oggi giudicata incostituzionale, senza la ricerca di un consenso largo nel parlamento, possa cambiare da sola 47 articoli della Costituzione, sostenendo demagogicamente che il referendum confermativo farà giustizia di questa anomalia. Siamo così ormai nel solco insidioso del populismo di Stato soprattutto perché il SI o il NO secco non consente al cittadino un giudizio sulle singole questioni poste in gioco. Da questo punto di vista è assolutamente ragionevole il ricorso avanzato dal Prof. Onida a favore dello spacchettamento del quesito. Secondo: le Carte Costituzionali dovrebbero essere scritte per le nuove generazioni e non per soddisfare o per ottenere una conferma più o meno plebiscitaria delle maggioranze parlamentari e dei governi in carica. L’attivismo dell’attuale Presidente del Consiglio e lo stesso fatto che la proposta di riforma sia stata avanzata dal Governo e non dal Parlamento, conferma l’anomalia di questa proposta. Ricordiamoci Calamandrei che invitava il governo a stare a casa quando il Parlamento discuteva la riforma costituzionale e persino De Gasperi, Presidente del Consiglio, che intervenne allora dai banchi del parlamento per non compromettere la sua indipendenza rispetto a quella dell’esecutivo. Terzo: nella propaganda del SI viene invocato “il nuovo contro il vecchio”: ma chi ha mai detto che di per sé le cose nuove siano sempre meglio delle cose vecchie? Anche il fascismo lo era rispetto alla fase precedente.
Viene invocato “il cambiamento” come un valore di per sé. Anche qui verrebbe da dire: negli ultime vent’anni in Italia e anche nel resto del mondo è cambiato pressoché tutto ma non in meglio. Non abbiamo più le preferenze, non abbiamo più i partiti, non abbiamo più le istituzioni, lo Stato è come si voleva, debole e leggero, l’economia e la finanza contano sopra la politica. Tutti cambiamenti di cui oggi potremmo pentirci. I cambiamenti non sono sempre positivi. Si invoca la stabilità dei governi, tema che i cittadini hanno capito benissimo che non dipende dalla riforma costituzionale o dalle leggi elettorali ma dalla politica infatti la prima repubblica, con i suoi circa 60 governi, è considerata da tutta la storiografia del mondo come il periodo più stabile del nostro paese. Infine si invoca “la velocità” come valore, anche questo un termine molto futurista e del tutto astratto rispetto al tema della efficienza. Non è assolutamente detto che l’efficienza marci insieme alla velocità.
Per finire: i sostenitori del SI chiedono il voto per evitare “salti nel buio”. L’esatto contrario. Con il SI si avvia una fase interminabile in cui qualunque maggioranza, anche quella più strampalata, frutto di una legge elettorale assolutamente non democratica come il Porcellum o l’Italicum per esempio, potrà a colpi di maggioranza piegare la Costituzione a sua immagine e somiglianza, fino alla sua totale abrogazione. Non dimentichiamoci che questo è stato l’obiettivo, persino non tanto nascosto, della destra storica, dallo Statuto Albertino sotto sotto fino ad oggi.
Dopo la vittoria del NO, invece, si dovrà eleggere e convocare inevitabilmente una Assemblea Costituente per ridare senso unitario alla nostra Costituzione e per impedire i continui rimaneggiamenti e ritocchi che già in parte l’hanno resa irriconoscibile. Non dimentichiamoci l’obbrobrio del pareggio di bilancio e dei vincoli europei già costituzionalizzati. Dopo i fallimenti delle bicamerali e con dei parlamenti eletti con il sistema maggioritario non ci sarà alternativa, se si vuole veramente cambiare la Costituzione, ad eleggere direttamente e con sistema proporzionale una nuova Assemblea Costituente indipendente dalla maggioranza parlamentare e dal governo in carica. Essa dovrà affrontare almeno due temi cruciali assolutamente necessari ed attuali, che questa riforma non affronta.
La necessità di riequilibrare gli strumenti di democrazia diretta con quelli della rappresentanza; come e con quali regole cedere sovranità nazionali senza distruggere la nostra storia, cultura e identità, contemporaneamente difendendo i principi fondamentali della nostra Costituzione.
Tutti coloro che dichiarano di votare SI devono sapere che con quel voto il “salto nel buio” è garantito. Si apre la strada alla soppressione di fatto della prima parte della Costituzione, si accettano politiche economiche e sociali imposte all’Italia dal vincolo estero anche per il futuro, il potere parlamentare e quindi del popolo sarà sempre più irrilevante. Il potere legislativo sarà sempre più unificato al potere dell’esecutivo.
La battaglia per il NO è quindi una battaglia consapevole per il bene dell’Italia e del suo futuro, perché non è vero che “una riforma qualsiasi è meglio di niente” e non è assolutamente vero che “piuttost che nient, l’è mei piuttost” quando il “piuttost” è una porcheria.

Vai all'Archivio