SUPERARE LA POVERTÀ PER UNA VERA LIBERTÀ DELL’UOMO di Alberto Angeli 6 giugno 2020 - Prima parte

06 giugno 2020

SUPERARE LA POVERTÀ PER UNA VERA LIBERTÀ DELL’UOMO di Alberto Angeli 6 giugno 2020 - Prima parte

Ogni catastrofe «naturale», come possiamo definire quella del Covid 19, rivela l'estrema fragilità delle classi popolari e, in certa misura, anche del ceto medio, categorie sociali così esposte che la loro vita e  sopravvivenza perdono valore e si scoprono poveri. E’ in questa circostanza che, allora, riflettiamo sul significato della

compassione per i poveri, la quale nella sfera comunicativa della politica è mascherata con astuzia perché ritenuta diseducativa, come accade in ogni epoca, per l’impegno di pensatori che hanno cercato di giustificare la miseria  e hanno scritto testi impegnativi contro una politica seriamente diretta a sradicarla.

La compassione rappresenta un esercizio di filantropia tra i più antichi della storia dell'umanità, esercitato nel corso dei secoli per liberare l’uomo da ogni tormento di coscienza nei confronti dei meno fortunati. Eppure, poveri e ricchi, nel corso della storia, sono vissuti a fianco a fianco in un rapporto decisamente difficile, quando non pericoloso. Già Plutarco affermava che «lo squilibrio tra ricchi e poveri è la più antica e la più fatale di tutte le malattie delle Repubbliche». Si tratta di una convivenza non facile, socialmente e politicamente, quando non moralmente, per cui i problemi che ne derivano, in specie quello di giustificare le fortune di taluni a fronte della cattiva sorte di altri, sono la matassa da dipanare da parte di molti intellettuali e studiosi della materia sulla quale si sono impegnati in ogni tempo.

Una prima indicazione ci viene dalla Bibbia: i poveri soffrono in questa valle di lacrime, ma saranno ricompensati in un mondo migliore.

Un inciso biblico mirabile ma inconcludente, poiché lascia ai ricchi di godersi il loro benessere terreno senza provare alcuna gelosia per il fatto che ai poveri è concessa la  fortuna di vivere una vita bellissima nell'aldilà. Più avanti nel tempo, siamo nel 1776, agli albori della rivoluzione industriale Inglese, esce la Ricerca sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, di Adam Smith. In quel lavoro il problema della divisione ricco/povero, così come i tentativi per risolverlo, sono già descritti e strutturati nella loro forma moderna.

In pendant con Adam Smith, Jeremy Bentham (1748-1832) escogita la formula dell'«utilitarismo», che per circa mezzo secolo esercitò un'influenza straordinaria sul pensiero britannico. «Si deve intendere per principio di utilità - scrive Bentham nel 1789 - il criterio secondo il quale una qualsiasi azione è approvata, o al contrario disapprovata, in funzione della sua tendenza ad accrescere o a diminuire il grado di felicità della parte il cui interesse è in gioco». Qui l’inciso spiega come la virtù debba essere autocentrica e tale deve rimanere. Per semplificare il concetto, il problema della convivenza tra un ristretto numero di ricchi e una massa di indigenti doveva considerarsi risolto con il raggiungimento del «massimo beneficio per i più». Nella sostanza, la società faceva del suo meglio a vantaggio del maggior numero possibile di persone. Mentre per tanti altri potevano essere situazioni sgradevoli poiché per loro 4la fortuna non si era presentata all'appuntamento. Comunque le cose non rimangono ferme, tanto che nel 1830 sboccia una nuova formula, ancora oggi molto seguita poiché rimuove i rimorsi dalla coscienza pubblica. È la tesi associata ai nomi del finanziere David Ricardo (1722-1823) e del pastore anglicano Thomas Robert Malthus (1766-1834). Nella sintesi il loro pensiero si può riassumere nella formula: se esiste l'indigenza, la colpa è tutta dei poveri e della loro fecondità, poiché il mancato controllo della fertilità ha conseguenze sulle risorse limitandone la loro disponibilità. Malthus lo spiega a chiare lettere nel suo saggio: i ricchi non hanno alcuna responsabilità, dispongono di più tempo per gli svaghi e sono più attenti alla proliferazione; i poveri, no! Sono totalmente indisciplinati e quindi portano tutta la responsabilità della loro condizione. La storia non si ferma. Prende corpo una nuova tesi di negazionismo, che riscuote enorme successo, perché associa il Darwinismo sociale al nome di Herbert Spencer (1820-1903). Secondo la sua tesi, la suprema regola della vita economica è parallela a quella biologica della «sopravvivenza dei più adatti», espressione a torto attribuita a Charles Darwin (1822-1882). Un contenimento della povertà, trascurandone l’assistenza, sarebbe il mezzo più naturale per migliorare la razza umana, che uscirebbe rafforzata dal giusto ridimensionamento dei deboli e degli sconfitti. Al proposito c’è una frase, che ci appaga di questo darwinismo sociale sfrenato, che fu decantata in un celebre discorso da John D. Rockefeller, il capostipite della dinastia: «La varietà di rose American Beauty può

acquistare lo splendore e il profumo che entusiasma chiunque la contempli solo attraverso il sacrificio dei primi boccioli che le crescono intorno. Lo stesso accade nella vita economica. Si tratta solo dell'applicazione di una legge naturale, una legge di Dio». Nel XX secolo queste tesi subiscono un certo declino, per le reazioni che

suscitarono a causa della troppo evidente crudeltà. E tuttavia non mancano studiosi di economia e politici che si fanno sostenitori dell’idea che la concessione di sussidi pubblici ai più indigenti ostacoli l'efficienza economica.  In questi ultimi anni, la ricerca del modo migliore per rimuovere ogni rimorso in proposito è assurta alla dignità d’impegno filosofico, letterario e retorico di primaria importanza. Eppure, è anche diventata un’impresa di interesse economico, oltre che politico, perché se ne possono ricavare benefici occupazionali mediante l’adozione di strumenti che comportano la creazione di nuova burocrazia. Infatti, il più delle volte le misure adottate contro la povertà dipendono, in un modo o nell'altro, da iniziative statali e dalla bravura dei burocrati.

 

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