SULLA DEMOCRAZIA CIVICA di Roberto Biscardini
29 dicembre 2015
L’esperienza di questi anni a Palazzo Marino è stata illuminante. Ho potuto toccare con mano come l’appartenenza ai partiti non basti più e come sia sempre più necessario, in questo particolare momento, riscoprire il valore della buona politica nel concreto, dal basso, e promuovere aggregazioni e alleanze di ispirazione civica. Non liste civiche colorate, arancioni o arcobaleno, o liste civiche di comodo, del sindaco, da affiancare a quelle dei partiti, in nome di una certa verginità (antipolitica). Liste che poi vengono solitamente schiacciate dalla logica di coalizione e dal peso dei partiti maggiori, e che faticano a svolgere qualsiasi ruolo, politico, propositivo e persino civico.
No, liste civiche invece espressione soprattutto di una vera democrazia municipale, che si misurano concretamente nella partecipazione allargata sulle cose da fare, sui progetti e sull’idea di città, prima ancora che sul numero dei propri rappresentanti, nell’esercizio appunto di una democrazia tanto necessaria e quanto in crisi.
Milano, e figuriamoci altrove. Se la democrazia rappresentativa si esercita nel rispetto delle istituzioni, basta andare a vedere quante volte il sindaco o gli assessori hanno partecipato alle discussioni del consiglio comunale, o quante volte il Sindaco ha coinvolto il consiglio sulle grandi questioni che riguardano l’indirizzo politico dell’amministrazione comunale (che peraltro al consiglio competono per legge), per rendersi conto che ormai nelle istituzioni queste forme di democrazia sono assolutamente assenti. Sono sostituite da soggetti esterni che con gli eletti, quindi con gli elettori, non hanno nulla a che fare. La trasparenza è uno slogan, uno oggetto misterioso anche quando la si invoca per piccole cose. Se neppure i consiglieri comunali sono messi nelle condizioni di sapere e di conoscere ciò che avviene nel palazzo, figuriamoci i cittadini. Infine la partecipazione, ridotta all’ascolto di qualche comitato (che sono cosa diversa dai cittadini), di solito comitati del no, per assecondarli o meno indipendentemente dagli interessi generali che dovrebbero essere difesi o dagli interessi della maggioranza di cittadini che non protestano. Una farsa a targhe alterne tra ascolto e finzione.
Quello che è rimasta fuori dalla porta é la democrazia vera, intesa come diritto di parola e di ascolto, diritto al confronto e persino alla partecipazione reale dei processi decisionali. Per condividere decisioni con regole democratiche sufficientemente certe e con i necessari tempi di elaborazione. L’esatto contrario del fare in fretta, ma solo quando conviene ai governanti. Un percorso democratico non per sostituire i partiti, anzi; non per fare antipolitica, ma per sostituire quella falsa politica che non sa ormai né decidere, né ascoltare, né interpretare le esigenze della collettività. Liste civiche quindi per ridare corpo e spessore alla buona politica, non per tenere fuori tutti i politici, ma per riunire tutti coloro che credono con tenacia nella necessità di stare sulle cose. Espressione di un alto e qualificato impegno civile, appunto.
Certo un processo difficile ma con risultati assolutamente efficaci, contrario alla logica che sia sempre meglio decidere in fretta anche a scapito del bene, sia meglio rottamare che perfezionare e rinnovare, sia meglio sostituire che riformare, consentendo a chi ha le carte in regola, perché eletto, di esercitare il proprio ruolo nel modo migliore. Con la responsabilità della responsabilità.
Oggi in tutto il paese gli esecutivi (tutti) comprimono le assemblee elettive (dal Parlamento ai piccoli comuni), e ciò avviene anche nelle forme più virulente, sostituendo le loro prerogative con poteri esterni, forti, autoritari, personalistici, tecnocratici e aziendali. Nella svariate forme di centralismo e accentramento possibile. Da qui, le riforme istituzionali senza quadro di riferimento costituzionale. Le provincie mezze vive e mezzo morte, ma intanto togliendo il voto ai cittadini. Persino i sindaci che eletti direttamente non si sentono in dovere di rispondere a nessuno; per non parlare delle giunte, organi collegiali impropri (meglio che gli assessori siano consulenti del sindaco e basta, licenziabili come lo sono già). Le aziende pubbliche sottratte al controllo delle amministrazioni pubbliche; le aziende pubbliche privatizzate anche per l’esercizio di servizi fondamentali e primari. E ancora, istituire Città metropolitane che sono dei mostri istituzionali, fondere comuni e abolire quelli piccoli e via di questo passo, contro il senso della libertà, questa è l’aria che tira, in nome, senza riscontro, della tanto strombazzata efficienza e riduzione dei costi.
E poi commissari per ogni cosa, per sottrarre decisioni delicate a qualsiasi forma di controllo pubblico e democratico (dai commissari della sanità, a quelli ospedalieri, allo smaltimento dei rifiuti, commissari ovunque dalla corruzione a Expo), in una logica sostitutiva dei poteri, non molto diversa dai tanto discutibili provvedimenti di scioglimento dei comuni meridionali accusati (anche ingiustamente) di infiltrazione mafiosa. Questione delicata ma assolutamente controversa.
Insomma contro ogni tipo di attacco all’autogoverno delle comunità, bisogna avere il coraggio di riscoprire il senso migliore del municipalismo democratico, anche attraverso la formazione di liste civiche, il più unitarie, perché si deve partire dalle cose, non solo dai nomi dei candidati sindaci, che di solito si misurano più sull’appeal verso poteri esterni che non verso i cittadini, e non solo dai i partiti e dai loro ormai insopportabili e anacronistici schieramenti nazionali (quante volte mi sono sentito dire, “bello il tuo progetto, ma non possiamo, abbiamo dei doveri nazionali da rispettare, con Roma”).
Ma ritorniamo a noi, a Milano, con un piccolo esempio. In un consueto giro della città, sono stato accompagnato un giorno in un quartiere delle periferia nord. Il comitato che mi ha ricevuto mi ha perorato la causa (naturalmente non ero il primo consigliere comunale ad essere passato di lì) affinché si prolungasse il tragitto di un autobus, poco più di 800 metri. Due fermate in tutto. Con molteplici effetti positivi, particolari e generali. Che a quei cittadini erano ben chiari. Si garantirebbe a due quartieri, più periferici ancora, di aver un normale servizio che oggi non hanno, si eviterebbe soprattutto di sera a quei cittadini di fare a piedi un tratto di strada per altro abbastanza pericoloso (il tema della sicurezza messo sul piatto concreto), si offrirebbe a tutta la città la possibilità di accedere ad un importante parco urbano, già molto frequentato, con un mezzo pubblico anziché con le solo auto private (questione generale).
Dopo aver illustrato pubblicamente questa esigenza in consiglio comunale, cosa è successo? Niente. Il sindaco e gli assessori competenti (sicurezza, trasporti, parchi e giardini) erano assenti, potrebbero avere seguito i lavori d’aula via streaming (chi lo sa), qualche funzionario avrebbe avuto l’obbligo di informarli. I partiti e i grandi gruppi consiliari? Niente. Pensano alle grandi cose, alle loro primarie e a Roma.
I rappresentati di quel quartiere hanno avuto in qualche modo il diritto di parola ma adesso avrebbero anche il diritto di essere rappresentati da chi un’idea non sclerotizzata della politica la più esprimere.