SU KEYNES di Alberto Angeli del 15 gennaio 2020
15 gennaio 2020
John Maynard Keynes “Etica e economia”. Una breve sintesi dell’intramontabile pensiero Keynesiano.
Nel Saggio: “ Sono un Liberale?” Keynes scrive : “Dobbiamo inventare una saggezza nuova per una nuova era. E nel frattempo, se vogliamo fare qualcosa di buono, dobbiamo apparire eterodossi, problematici, pericolosi e disobbedienti agli occhi dei nostri progenitori”. Sono queste le conclusioni, con le quali Keynes nello scritto del 1925, consegna le sue riflessioni sulle numerose questioni di ordine politico, economico e sociale, che nel nuovo contesto mondiale, governato dal capitalismo, si vanno prefigurando. E’ quindi con una domanda, la stessa che dà il titolo allo scritto, con cui si chiude il saggio del grande economista, richiamandosi all’unica possibile conclusione che poteva scaturire da un’analisi tanto articolata, quanto problematica, dell’avvicinarsi dei “tempi moderni”. Il senso ultimo di questa visione culturale è quello che accompagnerà Keynes per lungo tempo, fino all’uscita della Teoria Generale nel 1936. Infatti, è con quel poderoso lavoro che sarà data unitarietà e spessore alla critica dell’ economia monetaria di produzione – in cui il capitalismo evidenzia in termini chiari la sua natura di sistema predatorio e iniquo – e alla capacità di autoregolazione dell’economia di mercato.
Il saggio “Sono un liberale?” è la raccolta di numerosi scritti Keynesiani che riproducono una serie di interventi ed articoli dell’economista, riconducibili alla fine degli anni 20 e 30, dalla lettura dei quali si avverte la forte e avvincente tensione culturale trasmessa dalla riflessione di Keynes sui grandi temi dell’economia del momento, ma con una visione profetica rivolta al futuro. Il testo brilla per la finezza e la rilevante chiarezza espressiva a cui il Keynes faceva ricorso, dando alle sue analisi un sostegno argomentativo tale da rendere fluenti i suoi ragionamenti teorici, altrimenti incomprensibili.
La prima parte mette in luce il tragico passaggio dall’ “ordine” ottocentesco a quello del XX secolo, evidenziando gli squassi del primo conflitto mondiale, per chiarire come le conseguenze a cui porteranno le riparazioni di guerra inflitte ai tedeschi. Peraltro quella fu la circostanza in cui rassegnò le proprie dimissioni dalla carica di rappresentante del Tesoro inglese alla Conferenza di Versailles. Nella sua condanna di quelle deliberazioni il rilievo del “problema economico” è dirompente. Infatti, di lì a poco, l’Europa andrà incontro alla Grande Depressione nel 1929, e al secondo conflitto mondiale un decennio più tardi.
Dalla sua posizione di analista della società il “problema economico” è posto come la questione pressante con cui deve fare i conti la società moderna e questo nonostante le meraviglie che il progresso sembra porgere su un piatto d’argento. Egli scrive: “Abbiamo contratto un morbo di cui forse il lettore non conosce ancora il nome, ma del quale sentirà molto parlare negli anni a venire – la disoccupazione tecnologica -. Scopriamo sempre nuovi sistemi per risparmiare forza lavoro, e li scopriamo troppo in fretta per individuare nuovi impieghi per la forza lavoro”. Un passo che egli ci invia come posta per riflettere sulle prospettive economiche per i nostri nipoti. Nella sostanza, ci dice, la “povertà nell’abbondanza” è l’intrinseca contraddizione in cui vive il capitalismo, ed è questa contraddizione che è necessario spiegare se si vuole recuperare un senso positivo nel progresso, sgombrando il campo dagli opposti pessimismi che si vanno fronteggiando. Ossia, da una parte “il pessimismo dei rivoluzionari, convinti che una situazione così compromessa renda inevitabile un cambiamento radicale, e quello dei reazionari, persuasi che la nostra vita economica e sociale si regga su un equilibrio talmente instabile da sconsigliare qualsiasi forma di esperimento”
Nella sostanza, osserva Keynes, l’“amore per il denaro” è alla radice di tutto il sistema, anche se non è propriamente l’“amore per il denaro che serve a vivere meglio, a gustare la vita”, e aggiunge: “ ma è il “possesso del denaro”, che rende il sistema ingiusto. (Auri sacra fames). Inoltre, sul fronte del profitto, è in regime di laissez faire che “il profitto va all’individuo che, per abilità o fortuna, si trova con le sue risorse produttive nel posto giusto al momento giusto” (La fine del laissez faire). E’ in queste condizioni di iniquità, che secondo Keynes, “Un sistema che permette all’individuo abile (e avido) o fortunato di raccogliere l’intero frutto di questa congiuntura offre chiaramente un incentivo immenso a coltivare l’arte di trovarsi nel posto giusto al momento giusto. Così uno dei più forti moventi umani, cioè l’amore per il denaro, viene asservito al compito di distribuire le risorse economiche nel modo migliore per aumentare la ricchezza al fine di ottenere la massima produzione di ciò che è maggiormente desiderato secondo la misura del valore di scambio”.
La questione è persino più ampia e, secondo Keynes, c’è bisogno di una nuova etica perché “sembra ogni giorno più evidente che il problema morale della nostra epoca ha a che fare con l’amore per il denaro, con l’abituale ricorso al movente del denaro in gran parte delle attività della vita, con l’approvazione sociale del denaro come misura concreta di successo e con l’appello della società all’istinto di accumulazione…” Questa riflessione lo porta a spostare il suo sguardo alla Russia, verso la quale lo spinge un sincero interesse verso il comunismo russo – da cui, secondo Keynes, proviene o spira una sorta di “afflato religioso, poiché, lì, si cerca di costruire una struttura della società in cui le motivazioni economiche, come fattori condizionanti, avranno un’importanza relativa diversa, per il fatto che l’approvazione sociale sarà distribuita in altro modo, e dove i comportamenti da prima erano normali e rispettabili, poi non lo saranno più”. E’ proprio in riferimento al sistema comunista che Keynes, lui stesso espressione della borghesia colta, approfondisce con il dovuto distacco quella che chiama “fede comunista”, evidenziando come per lui non è certamente possibile accettare una “dottrina che, preferendo la melma al pesce, esalta il proletario al di sopra della borghesia e dell’intellighentjia”, pur ammettendo con decisione che è ineludibile la necessità di una nuova etica dell’economia.
I pensieri keynesiani portano però all’attenzione del lettore qualcosa di ancora più impegnativo nella sua analisi della società, esplicitando ciò che egli ritiene e indica come una rivoluzione da attuarsi nel metodo dell’analisi economica, facendo quindi camminare a fianco a fianco società ed economia, per cui è solo comprendendo il profondo legame che le tiene insieme, è possibile assimilare il “rivoluzionario” messaggio di cui la Teoria Generale è portatrice.
Nel suo pensiero la funzione del capitalismo è riassunta come una lotteria, in cui domina incontrastata l’incertezza e l’alterità del semplice calcolo probabilistico, essendo infatti la moneta a gettare un ponte tra presente e futuro, ed è proprio per questa casualità che sono allora gli spiriti animali degli imprenditori a determinare lo stato e l’andamento della domanda effettiva del sistema economico. Al proposito Keynes precisa: “è una domanda che, misurandosi esclusivamente sui valori di scambio, nulla ha a che fare con il valore d’uso dei beni prodotti, e dunque con i bisogni che la società esprime”. Molti studiosi di Keynes hanno trovato in questo passaggio un doveroso tributo alle dimenticate analisi di Malthus e a quanto egli aveva intuito in merito al ruolo trainante della domanda nel dirigere il processo produttivo. Qui entra in gioco anche il confronto con Ricardo. Ma è a Piero Sraffa che si deve il ritrovamento delle lettere mancanti, riguardanti la corrispondenza tra Malthus e Ricardo, nelle quali vi si colgono, di fatto, gli inizi della teoria economica nonchè le linee divergenti, lungo le quali la materia può essere sviluppata. Infatti , Ricardo studia la teoria della distribuzione del prodotto in condizioni di equilibrio, e Malthus si concentra su ciò che determina il volume della produzione giorno per giorno nel mondo reale. Ancora, Malthus tratta dell’economia monetaria in cui viviamo; Ricardo dell’astrazione di una un’economia con moneta neutrale.
Il pensiero di Keynes ha un percorso speculativo e formativo fondato su basi logiche. Era sua consuetudine ritrovarsi con i maggiori logici e matematici a lui coevi. A Cambridge con Russel – matematico e filosofo- che lo guida nelle conversazioni verso una teoria che deve assumere un valore strumentale rispetto alla pratica, che spinge Keynes ad impadronirsi di un linguaggio in cui faccia premio un ragionamento basato sul senso comune. Segue le lezioni di Marshall, da cui apprende i moderni metodi diagrammatici, necessari per cogliere la complessità dei fenomeni sociali e per arricchire la sua preparazione con lo scopo di muoversi nell’ambito della ricerca storica, della filosofia e, cosa inaspettata, proporsi come conoscitore della cosa pubblica.
Keynes, conclude il saggio affermando: “l’economia è una scienza molto pericolosa”, e gli economisti non sono profeti. Ad ogni modo a Keynes non sfugge il fatto che i “tempi moderni necessitano di nuove politiche e nuovi strumenti per adeguare e controllare il funzionamento delle forze economiche, così che non interferiscano in maniera intollerabile con l’idea odierna di che cosa sia appropriato e giusto nell’interesse della stabilità e della giustizia sociale”.
Perché riappropriarsi di Keynes, di questo spirito critico, di cui ogni tanto alcuni rimembrano le sue teorie per rianimare un’economia esausta e sostituita dalla finanziarizzazione globale. ma non tanto da essere annoverato nelle fila della cultura marxista? Perchè questo eretico tra gli eretici, lascia infine che siano altri a rispondere alla domanda da cui è partito: “Sono un liberale?” La risposta sta tutta nella considerazione che dobbiamo dare all’importanza di non banalizzare le forme dei conflitti di classe sapendo leggere con attenzione e mettere a confronto Keynes con Marx.
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