“Sono morti e non lo sanno” di Paolo Bagnoli da Critica Liberale
20 gennaio 2017

È proprio vero che i detti popolari sono dei luoghi comuni e,
politicamente, ”anno nuovo” non equivale a vita nuova; è solo un prolungamento
di quello precedente. Il lancio fatto da Renzi sulla legge elettorale è stata
solo l’ennesima guasconata dell’ex presidente nel consiglio poiché prima della
sentenza della Consulta è chiaro che ogni proposta valesse una corsa sul posto.
L’attesa, infatti, è ragionevolmente ansiosa perché ogni parte in campo non
nasconde l’interesse a piegarla secondo le proprie particolari convenienze come
se lo Stato democratico non esistesse. La motivazione, che anche molti
politologici non nascondono, è che occorre tener conto che oramai l’Italia è
tripolare e, quindi, a secondo di come si consideri il problema, si propongono
soluzioni affinché la nuova legge preveda l’esclusione di chi non si gradisce. E
meno male che la politologia è scienza della politica. Talora, pur con tutto il
rispetto, ci sembra più una disciplina da venditori di almanacchi! Leopardi
naturalmente, perdonerà! L’anno vecchio, tuttavia, qualcosa su cui riflettere lo
ha lasciato. Vale a dire, quanto fermenta nel partito democratico come se il
voto referendario avesse aperto gli occhi sia a qualcuno degli addetti ai lavori
sia a cittadini comuni, anche se Renzi dopo l’inammissibilità del referendum
riguardante l’articolo 18 tende a far capire di aver pareggiato i conti con il
Paese come se il voto popolare valesse il parere della Consulta. Il tutto sta
nell’ansia di voler votare il prima possibile; prima che, al di là dei
fallimenti accertati, la stella del renzismo sfumi nel fondo dell’orizzonte
politico italiano. La stessa recente intervista dell’ex premier a Enzo Mauro,
annunciata come un manifesto del rientro, non è stata altro che un frullio di
vecchi motivi e le espressioni di pentimento per gli atteggiamenti tenuti non
solo non appaiono convincenti, ma mere formalità che non celano un falso
pentimento; a noi è parso lo scalpiccio rabbioso di chi ha, come unica
preoccupazione, il prendersi una rivincita. La verità è che la sconfitta cui
Renzi ha portato il suo partito e il suo governo continuerà a pesare come un
macigno praticamente in alleggeribile. Il Pd, avendo puntato tutto sulla
vittoria al referendum e avendo perso, non ha uno straccio di linea politica;
bensì solo frasi fatte e anche deboli di senso politico come quelle rilasciate
dal viceministro Enrico Morando che continua a definire la riforma
costituzionale come «la madre di tutte le riforme» dicendosi convinto che dopo
«il NO abbiamo un Paese certamente più debole». Da tempo sosteniamo – in
assoluta solitudine – che il primo problema del Pd risiede nella sua
impossibilità ad essere “partito”; ora, le prime ammissioni in tal senso,
cominciano a fare capolino sia per l’esito del voto sia perché, anche se non si
capisce bene quando, ci sarà un congresso la cui fisionomia ha del leopardiano:
vale a dire, “vaga e indefinita”. In sul finire del 2016 Gianni Cuperlo ha
dichiarato alla stampa in relazione al rinvio dell’assise: «Un congresso non si
fa quando dieci persone decidono che sono pronte loro. Questo è un Pd
senz’anima, se non va a congresso è un partito morto». A leggerle viene un
brivido; si ha l’impressione che l’ex presidente del partito, quindi un
dirigente di primo piano, sia fino ad oggi vissuto in un altro “luogo”. Comunque
l’analisi che fa delle condizioni del partito di Renzi sono precise e da esse,
se non sbagliamo, pare emergere anche una esistenziale amarezza per come è
finita la storia dei comunisti italiani. L’ultimo triste fallimento de “l’Unità”
ne sembra l’ennesima conferma. Il problema è che, una volta, essi assolvevano i
propri errori, o quanto il Pci riteneva fosse sbagliato, con la pratica
dell’autocritica: strumento oggi non più utilizzabile. Pur tuttavia Giorgio
Napolitano, inaugurando la sua nuova attività di commentatore su “La Stampa”, a
dimostrazione che il lupo perde il pelo, ma non il vizio, vi è parzialmente
ricorso prendendo, con tono sapienziale, le distanze da Renzi e dalla sua
politica che, peraltro, egli aveva richiesto e incoraggiato fino all’ultimo.
Napolitano, come se atterrasse ora da un altro pianeta, ha denunciato, «una
perdita di consapevolezza storica» puntualizzando: «Il caso italiano ci dice che
si perde in chiarezza e consensi se ci si pone, nel guidare la sinistra, in
discontinuità con il lungo processo di maturazione da cui è scaturita una
coerente sinistra di governo, parte integrante di una più ampia alleanza di
centro - sinistra e riformista». Una mezza autocritica che, per voler essere
realista, si inventa una realtà fittizia. Infatti è vero quanto in merito alla
consapevolezza storica, ma questa è dovuta solo ai comunisti italiani e la
maturazione di cui parla per giustificare il Pd palesa come l’ennesima
trasformazione del comunismo in un’alleanza con i democristiani facesse pensare
ai primi di far pesare la loro egemonia, mentre invece ha segnato un totale
fallimento, la cancellazione della categoria della sinistra e l’avallo a un
falso centro - sinistra che ha fatto solo politiche di destra. In generale la
pratica dell’autocritica è stata sostituita da una tamburante lamentela sul
fatto che un partito di sinistra, quale ritengono sia il Pd, dovrebbe avere un
comportamento consono all’essere, appunto, di sinistra; ossia, a ciò che invece
non è per chimica genetica e intenzione politica. Se lo fosse in qualche modo
stato il fenomeno Renzi non ci sarebbe stato, ma esso è stato possibile proprio
perché il Pd non solo non è di sinistra, ma neppure un partito nel senso
classico del termine. Oltretutto, per voler apparire il soggetto del leader, ha
messo pure in scena altri leader e leaderini assai modesti quanto arroganti;
altro che rottamazione. Ovvero la rottamazione c’è stata di tutto quanto era
rimasto, non molto invero, della politica democratica, un’operazione che doveva
avere nella nuova Costituzione il proprio riconoscimento istituzionale aprendo
l’era felix del pontificato renziano. Giorgio Napolitano, che sta all’inizio di
tutto questo percorso, già prima del citato intervento, aveva detto che Renzi
aveva perso il referendum perché era andato a cercare consensi
nell’antipolitica. Non si era accorto, il due volte presidente della Repubblica,
di fare una petizione di principio perché proprio il renzismo era antipolitica.
Ed è antipolitica tutto il resto: Grillo, Salvini, Berlusconi, oramai
preoccupato della propria sopravvivenza politica per far salvaguardare le
proprie aziende dalle insidie di quel “mercato” che ora gli piace meno di una
volta! Crediamo che la stagione aurea del Pd il referendum se la sia portata via
e non scommetteremmo nemmeno su una sua futura esistenza anche se, con il
congresso, il renzismo venisse battuto e prendesse in mano il partito
l’opposizione interna che, sicuramente, presenta un profilo più apprezzabile. Ma
se Speranza ce la dovesse fare non è che può presentare, come cifra del nuovo
corso, il ritorno alla stagione dell’Ulivo che Bersani ricorda spesso come un
qualcosa di mitico alla stregua di un Eldorado perduto. L’Ulivo è stata la
stagione perdente di Romano Prodi e già questo non ci sembra un bel riferimento,
ma poiché Ulivo e Prodi sono fratelli gemelli come è possibile indicarli quali
futuro dal momento che il professore bolognese – sarebbe da capire fino in fondo
il motivo – ha votato “si” al referendum cercando di bilanciare la scelta con un
po’ di critica; insomma, da persona proprio non convinta, il che rende il
richiamo identitario di Bersani ancor più privo di sostanza. Il problema è che
un partito politico ha bisogno, per essere, prima di tutto di identità e quando
questa non ce l’ha è il suo leader che fa della sua persona l’identità del
proprio soggetto: lo ha fatto Berlusconi, lo ha fatto Renzi e lo sta facendo
pure Grillo a capo di un partito che, pur riscuotendo molte simpatie popolari,
ci sembra un laboratorio di modesti artigiani portati a fare grandi danni. Di
tale partito Grillo è il funambolo e il dio della verità, spregiudicato fino
all’inverosimile come dimostra la polemica aperta contro i giornali per
allontanare le critiche massicce che si stavano addensando sul suo movimento con
l’approvazione delle regole sui possibili avvisi di garanzia. Ancor di più lo
dimostra la vicenda grillina all’Europarlamento; tragica, pietosa e inquietante.
Peccato che vi resti impigliato il riferimento a “Rousseau”, un nome che
meriterebbe maggior rispetto e non finire a emblematizzare una piattaforma
digitale di gestione e di manipolazione del potere di un Movimento che, al pari
del Pd, non potrà, per motivi genetici, mai essere un partito. I 5Stelle sono,
nonostante tutto, nei sondaggi avanti al Pd e ciò ci dice in quali condizioni
versi la democrazia italiana visto che si fronteggiano due non partiti;
sostanzialmente di destra entrambi. L’uscita di Renzi dalla scena governativa ha
inoltre, paradossalmente, impoverito la qualità del porsi politico dei massimi
dirigenti del suo partito. Un esempio per tutti. Intrattenendosi sulla
situazione del presente il capogruppo al Senato, Luigi Zanda, ha consegnato
all’opinione pubblica il seguente pensiero sugli effetti politici del
referendum. Ha detto: «Quelli sostanziali sono tre: si allontana la prospettiva
del bipartitismo, già messa in crisi dalla comparsa dei 5Stelle. Nei partiti
aumenterà il peso delle correnti che già emergono persino tra i grillini. Infine
aumenterà la spinta verso sistemi elettorali proporzionali». Non se la prenda il
senatore Zanda, ma, tra banalità e confusione, non sappiamo quale delle due
abbia il peso maggiore. Ed è chiaro che, non avendo dato il Pd nessuna
interpretazione del voto referendario, non sappiano cosa fare; ma l’ultima
Direzione perché non ha discusso né messo ai voti documento alcuno, né di
maggioranza né di opposizione, rimanendo attaccata al vecchio premier segretario
del partito? E perché la corrente bersaniana invece di andare via, non ha messo
ai voti un proprio documento preferendo risolvere tutto nell’annuncio della
candidatura di Speranza così come la maggioranza è rimasta al siparietto
televisivo di Renzi che annunciava il congedo da Palazzo Chigi? Perché questo
insieme di comportamenti, di vuoti, di nullismo politico? La risposta è
semplice: perché il Pd non è e non riuscirà mai a essere un partito degno di
questo nome. I dirigenti del Pd dovevano essere, tuttavia, ben sicuri che la
ricetta renziana avrebbe funzionato: non c’era bisogno di niente, il leader
bastava, era sufficiente per fare partito. Un giovane militante friulano andato
l’anno scorso alla scuola di formazione democratica a Roma ha raccontato che, in
quella sede, il presidente Matteo Orfini spiegò che bisognava superare la logica
delle sezioni sul territorio «per adottare la realtà del partito alla nuova
legge elettorale». Da Zanda e da Orfini la logica che ricaviamo è che il
renzismo si fonda sull’ossessione del governo ossia della gestione del potere;
la logica di un partito politico non è così unidirezionale, ma culturale, morale
e sociale e il governo, aspirazione legittima del fare politica, è uno strumento
per cambiare le cose non solo per gestire il potere per il potere. La tragicità
della situazione italiana è che, di fronte a una crisi così acuta che vive un
Paese in grande sofferenza, ovunque ci si rigiri, tra gli addetti alla politica,
non si trova coscienza del momento oramai lungo che stiamo vivendo. In fondo
mancanza di partiti e vuoto di politica democratica sono i binari lungo i quali
corre la crisi. A mo’ di corollario, infine, ci sia permesso di ricordare che,
da documenti ufficiali, risulta in 122 miliardi di euro l’anno la perdita di
risorse che l’infedeltà tributaria procura allo Stato e che, a novembre, il
tasso di disoccupazione è salito all’11,9%; nella fascia dei giovani tra i 15 e
i 24 anni la percentuale, poi, raggiunge il 39,4%. Di tutto ciò non ci è
riuscito a trovare traccia in nessun cicaleccio della politica ufficiale.