SOCIALISMO E COMUNISMO di Alberto Benzoni del 4 maggio 2020
04 maggio 2020
Agli inizi, fu il socialismo. Anzi no. Agli inizi, fu la rivoluzione francese. O, più esattamente, le infinite rivolte che, anche in suo nome, percorsero tutta la storia dell’ottocento. Barricate, manifestazioni oceaniche, in nome di un proletariato, rappresentativo di diverse condizioni di miseria e di oppressione e di comuni esigenze di giustizia e di fratellanza, regolarmente oppresse nel sangue. E con ferocia sempre maggiore. Poi vennero le “unioni”: gli organismi di mutuo soccorso, le cooperative, le leghe, i sindacati, i fasci e le fratellanze; e in ultimo, ma solo in ultimo, il partito. Con il compito di sostenere il processo di emancipazione del mondo del lavoro contro gli attacchi di cui era quotidianamente oggetto e magari, nei passaggi importanti, di indirizzarlo (o, come disse Turati a un amico di mio padre, nel 1924, di “difendere i lavoratori anche quando sbagliano”); con una legittimazione che non veniva dall’alto essendo, semmai, sottoposta a una costante verifica dal basso.
Poi venne la guerra. Un suicidio collettivo delle classi dirigenti. E, come sua nemesi, l’incombere della rivoluzione. E questa venne, là dove il sistema era più debole e screditato, quella di febbraio; quella delle grandi folle che, con le donne alla loro testa, sfilavano, a mani nude, per le vie di Pietrogrado, chiedendo pane e giustizia, fino a indurre i cosacchi a fraternizzare con loro; quella dei consigli e di ogni possibile forma di protagonismo popolare; quella dei mille sogni di mille profeti disarmati ma tutti sotto il segno della fraternità: la pace, il pane e il governo dei soviet alla fine del percorso. Una rivoluzione di cui è stato cancellato persino il ricordo; perché confiscata e uccisa da un regime che, fin dal suo nascere spaccò la sinistra, soppresse i soviet e massacrò i marinai di Kronstadt; aprendo una guerra, contro il nemico capitalista, ma anche contro le altre forze di sinistra, che avrebbe bloccato qualsiasi possibilità di cammino comune per gli anni a venire.
Al suo centro il partito e lo stato guida: l’intellettuale collettivo a illuminare le masse; il partito dei rivoluzionari di professione a preparare l’Evento; l’interprete autorizzato della storia ad anticiparne il futuro.
Un modello e un progetto che affascinò stuoli di intellettuali e a cui dedicarono la loro vita centinaia di migliaia di straordinari militanti. Ma che mancò il suo obbiettivo principale; quella rivoluzione in occidente; diventando anzi maestro nello spiegare perché non andava fatta.
Poi venne la caduta del muro e l’autodissoluzione pacifica del socialismo reale. E con essa non solo la resa ma anche l’abiura; o almeno quella che all’osservatore esterno appariva tale. Mentre, agli occhi dei suoi autori era l’ennesima manifestazione della capacità di interpretare il corso della storia: l’America, l’Europa, il mercato avevano vinto; e allora, alé, tutti in sella a galoppare al loro fianco.
Poi, la scena diventò improvvisamente vuota. Nessun socialismo, nessun comunismo, nessun proletariato, niente più masse da emancipare o da dirigere. Tutto sarebbe andato avanti, da allora in poi, nella giusta direzione: al capitale di guidare il percorso, agli epigoni del socialismo e del comunismo, di soccorrere, ma senza esagerare, chi fosse, probabilmente per sua colpa, rimasto indietro.
Poi, i primi segnale d’allarme e di protesta. Relativamente forti ma non fino al punto di essere ascoltati. Dopo tutto il sistema aveva prontamente trovato i giusti rimedi; mentre la protesta era, chissà mai perché, guidata da “populisti”; il che portava a squalificarla in partenza.
Poi, alla fine, la catastrofe del coronavirus. Il cui effetto, inevitabile, sarà quello di far crescere in modo esponenziale il livello delle disuguaglianze e, soprattutto, il numero dei “perdenti”, certamente più di metà della popolazione della terra. Ciò ci riporta, sia pure in un contesto affatto diverso, agli inizi della nostra storia. A un nuovo proletariato, oscillante tra la ribellione e la rassegnazione e alla ricerca affannosa di risorse, strutture, solidarietà collettive, suscettibili di difenderlo.
Un terreno su cui non c’è nessuno spazio per il “partito”. E tanto meno per il “partito guida”. Il partito, se ci sarà, verrà alla fine. E dovrà tornare a essere, esattamente come il socialismo della seconda internazionale, al servizio del riscatto della sua gente.
E quindi, ancora una volta, esattamente come avvenne nell’ottocento, il movimento verrà prima del partito. E sta nascendo e crescerà, ne sono convinto, in mille forme: nelle fabbriche, nelle scuole, nelle università e nelle comunità scientifiche e intellettuali, nelle città e in tanti “luoghi di assembramento pubblico”; non foss’altro come reazione all’imbarbarimento che avanza e ai pericoli che ci minacciano. E che tutti sono in grado di toccare con mano, ogni giorno che passa. “Ricostruire solidarietà collettive”, questo l’obbiettivo unificante di oggi; simile, in tutto e per tutto, a quello che accompagnò la nascita delle civiltà socialista. E che segnerà la sua capacità di risorgere; a dispetto di tutto e di tutti e anche di noi stessi…