Socialdemocrazia, i suoi nemici. Di Luciano Pellicani - L'avanti della Domenica- 23 gennaio 2004
26 gennaio 2005
Può darsi che la frase pronunciata da Francesco Rutelli – “Dico no alla parola socialdemocrazia” – non sia stata che una battuta, come ha minimizzato Massimo Cacciari. Ma può darsi anche che essa esprima qualcosa di più profondo, qualcosa che investe tutta quanta la sinistra italiana. Che è una sinistra anomala precisamente perché da sempre si è caratterizzata per il rifiuto ostinato di imboccare la via socialdemocratica. Un tempo – sino alla bancarotta planetaria del comunismo – il rifiuto della socialdemocrazia avveniva in nome del marxleninismo. Oggi, invece, visti i catastrofici esiti di quello che amava definirsi “socialismo realizzato”, il no alla cultura socialdemocratica viene diversamente motivato. Ma la sostanza resta la stessa. La sinistra italiana non solo è una anomalia; è anche una anomalia che si compiace di essere tale: una anomalia che crede di essere al di là della socialdemocrazia, mentre è al di qua. Il fatto è che, a partire dal congresso di Reggio Emilia (1912), il socialismo riformista è stato sempre una minoranza appena tollerata nel seno della sinistra. Esso non è mai diventato cultura di massa, come negli altri Paesi dell’Europa occidentale. Avrebbe potuto diventarlo dopo il crollo del Muro di Berlino, ma così non è stato poiché il Psi è franato sotto i colpi delle inchieste di Mani Pulite. Risultato: è venuto a mancare il soggetto politico - il Psi, per l’appunto - che aveva elaborato nel suo seno una cultura di governo in armonia con i principi della socialdemocrazia. A ciò si deve aggiungere lo strumentale e ingeneroso atteggiamento assunto dagli ex-comunisti: si sono rifiutati, salvo poche eccezioni, di riconoscere che sulle questioni fondamentali il Psi di Craxi aveva ragione e il Pci di Berlinguer aveva torto. Non solo: hanno dato una versione della storia della sinistra italiana nella quale il Psi non ha avuto altro ruolo che quello di essere il partito della corruzione! Stando così le cose, non può sorprendere che la sinistra italiana si trovi senza una precisa identità ideologica. Due sono stati i modelli di socialismo che hanno dominato la scena europea nel XX secolo: quello comunista e quello socialdemocratico. Seppellito dalla Storia il primo, non resta che il secondo. Sul quale da anni si scrivono necrologi che vengono sistematicamente smentiti dalla realtà. La sinistra europea oggi è socialdemocratica e non può non esserlo. Per delle ragioni che risultano corpose e solide non appena si getta lo sguardo sul capitalismo americano. Un capitalismo che non è stato corretto dalla cultura socialdemocratica e, precisamente per questo, ospita nel suo seno masse di working poors abbandonati al loro destino, mentre i ceti privilegiati diventano sempre più ricchi. Oggi i popoli d’Occidente si trovano di fronte a una scelta dilemmatica: da una parte, il capitalismo “corretto” - dunque il modello socialdemocratico, basato sul compromesso fra Stato e mercato -, dall’altra, il “turbocapitalismo” descritto con dovizia di dati da Edward Luttwak, che conosce solo un valore: il successo delle imprese e che, conseguentemente, valuta ogni cosa (fisica e morale) in base alla redditività che essa è in grado di garantire. Pertanto, non è affatto vero che ormai gli ideali, i valori e gli obbiettivi dell’utopia socialista siano stati definitivamente superati. Tutto il contrario: essi devono essere tenuti fermi se si vuole evitare che anche l’Europa imbocchi la “via americana” - dominata da quelli che George Soros ha chiamato “fondamentalisti del mercato” - in fondo alla quale non c‘è il benessere per tutti, bensì la formazione di un vero e proprio “proletariato interno”, costituito da tutti coloro che la logica catallattica condanna all’emarginazione o, addirittura, all’esclusione. Sicché, a ben guardare, i successi elettorali dei partiti dell’Internazionale Socialista non costituiscono una anomalia politica. Rivelano, tali successi, che gli abitanti del Vecchio Continente rifiutano di vivere in una società tutta mercato e profitto e considerano le istituzioni pubbliche poste a tutela dei deboli ciò che impedisce l’allontanamento dall’ideale della democrazia sostanziale. La quale non è affatto la “società degli uguali” di cui parla, distorcendo la realtà, Rutelli. Tant’è che il modello socialdemocratico non ha prodotto miseria e sopraffazione, bensì la società meno ingiusta finora costruita nel grande laboratorio della storia universale.
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