SINISTRA, GUARDATI DA MONTI di Rino Formica da Il Foglio del 18 luglio 2012

14 settembre 2012

SINISTRA, GUARDATI DA MONTI di Rino Formica da Il Foglio del 18 luglio 2012

Il discorso di Mario Monti ai banchieri è un intervento politico a tutto tondo che merita attenzione e rispetto. Monti ha disegnato uno scenario di guerra e ha dato inizio a una preparazione psicologica degli italiani perché siano pronti a subire gli effetti di “uno stato d’eccezione continuo”.
Monti ha voluto contrapporre la sua versione “dolce” dell’accettazione della sovranità limitata a quella rassegnata imposta a Silvio Berlusconi con lo “schiaffo umiliante di Cannes”. Sino a questo punto tutto rientra nella tecnica usuale utilizzata dai governanti chiamati a navigare in un mare ignoto e tempestoso. Ma Monti sa che presto sarà chiamato a dare anima politica a un governo tecnico freddo e amorfo. Ed è così che Monti, denunciando il paralizzante rito della concertazione governo-parti sociali, indica nel potere sindacale la sorgente di tutti i mali nazionali.
Sarebbe errore grave classificare questa puntuale denuncia come atto di fastidiosa insofferenza di chi governa. La concertazione fu tentata negli anni Sessanta dai governi Dc-Psi con la politica dei redditi e con la programmazione economica. Essa fallì e si aprì la strada alla tragica radicalizzazione dei conflitti politici e sociali degli anni Settanta. La concertazione tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta fu un espediente tecnico-politico per inserire nelle decisioni di governo il diritto di veto sindacale. Tale diritto garantiva il Pci, chiamato a sostenere i governi di unità nazionale in Parlamento e nel paese senza essere nell’esecutivo.
Nel 1984, sotto il governo Craxi, il giocattolo della concertazione con diritto di veto si ruppe. Così Carniti seppe spiegare con straordinaria sintesi il valore politico della decisione governativa: “Il Pci era convinto che le grandi decisioni che riguardano la sinistra e la società italiana dovessero passare, esplicitamente o implicitamente, sul tavolo o sotto il tavolo, attraverso la sua intermediazione. Il nodo che è venuto al pettine è la pretesa del Pci di voler dimostrare che è la forza egemone ed esclusiva nella sinistra e a livello sociale. E’ un errore di valutazione. Spero che prima o poi venga il momento in cui si possa ragionare con il Pci. Ora i comunisti sprecano molte forze per cercare di dimostrare questa egemonia. E le altre forze progressiste, tra cui la Cisl, devono sprecarne altrettante per contrastarla”.
Lo stesso Carniti volle spiegare che la concertazione del gennaio 1982 (governo Fanfani, accordo Scotti) non fu bloccata da alcun veto: “Noi abbiamo fatto un accordo quando era presidente Fanfani e uno, più avanti, con Craxi presidente. Si potrebbe trarre la conclusione che i comunisti che accettarono l’accordo con Fanfani non vogliano fare accordi col presidente socialista. Quando si sceglie si decide. Decidere significa letteralmente dividere. Abbiamo scelto noi, ha scelto Craxi, ha scelto il governo che non è socialista, ma di coalizione”. Fu così che la concertazione, dagli anni Sessanta agli anni Novanta, apparve e scomparve dall’agenda dei governi e delle rivendicazioni sindacali e seguì le oscillazioni della sinistra politica e sociale. Quando si era più vicini al governo si concertava, quando si era più lontani dal governo la concertazione saltava per l’uso sindacale del diritto di veto.
E veniamo al dunque. Due domande: la concertazione è un bene o un male? A chi serve la concertazione?
La concertazione è un bene se non paralizza, con l’uso del diritto di veto, la parte dissenziente. Non si può impedire al governo di decidere se consideri oneroso il patto, non si può impedire alle parti sociali di condurre altre forme di lotta se ritengano insopportabile il peso dell’accordo.
Alla seconda domanda si può rispondere che la concertazione negli stati democratici serve soprattutto alla parte debole della società perché così può contare sul sostegno del governo.
Non è dato conoscere se la cosiddetta “agenda Monti”, che buona parte della sinistra vorrebbe attiva anche nella prossima legislatura, contiene anche l’idea (liberale? liberista?) della “concertazione”, come recentemente espressa dal presidente del Consiglio. Del resto si tratta di un’idea nient’affatto inedita per il professor Monti, il quale sin dal famoso decreto sulla scala mobile del 1984 ebbe modo di esprimere opinioni, sul rapporto concertativo parti sociali-governo, del tutto riversabili nel dibattito contemporaneo. In una intervista alla Voce repubblicana del 20 marzo del 1984, Monti concludeva il suo pensiero sugli effetti deleteri di una politica contrattuale all’insegna del “salario variabile indipendente”, con un approccio di tipo costituzionale: “Una più precisa distinzione di ruoli è possibile e decisamente auspicabile. Anzi, credo che non sia più lecito e utile discutere i provvedimenti di politica economica soltanto secondo il loro contenuto tecnico, che probabilmente non è il vero responsabile dell’inflazione italiana. Penso piuttosto che le cause debbano essere ricercate in una confusione istituzionale di ruoli sulla quale è altrettanto necessario meditare. E’ vero che il decreto (sulla scala mobile) è disceso da uno stato di necessità, ma credo che continui a essere irrazionale che i pubblici poteri si occupino di intervenire sul salario e sulla scala mobile e lascino, magari, inattuati gli articoli 39 e 40 della Costituzione”.
Ora come allora Monti ha voluto dire che la politica economica, la politica monetaria, la politica di bilancio e quella fiscale sono di competenza esclusiva del governo nazionale o sovranazionale che non concertano e non mediano con le parti sociali.
Il sindacato, per Costituzione (articolo 39), gode della riserva contrattuale che regola salari e tutela le professionalità. Il Parlamento interviene nel conflitto sociale con la regolamentazione dello sciopero (articolo 40 della Costituzione). I sindacati sono avvertiti. Monti la pensa così da 30 anni. E allora chiediamoci: per la sinistra non c’è alternativa tra una concezione totale della concertazione, quale si ebbe negli anni Settanta sotto la spinta dei governi di unità nazionale, che assegnava ai sindacati un ruolo politico di veto (senza che i sindacati disponessero però della rappresentanza politica e della responsabilità di gestione dell’interesse generale), il “modello Ciampi” nel quale la concertazione si realizzava in un clima di riformismo passivo (e di veto sindacale passivo) per via delle gravissime condizioni del paese e della debolezza contrattuale delle parti sociali e, infine, il modello Monti, di destrutturazione delle relazioni contrattuali tra pubblico e privati e della loro subordinazione al quadro delle relazioni e dei condizionamenti internazionali? Oppure l’alternativa è da cercare in quel riformismo attivo, del quale il governo Craxi (e quella stagione) fu esempio e che si cercò, tra mille difficoltà e impedimenti, di introdurre nelle calcificate relazioni politiche e sociali dell’Italia degli anni Ottanta? Una politica riformista (meglio dire: una ispirazione riformista) che sì toglieva ai sindacati l’uso dell’arma impropria del veto ma li sospingeva verso approdi di riforme strutturali, di soggettività e responsabilità politiche che, in una dialettica forte e autonoma con i partiti, avrebbe cambiato il volto arretrato del paese, sfigurato dalla permanente eccezionalità delle condizioni del governo. Un riformismo attivo, è bene ricordarlo, che non fuggiva di fronte alla sfida del consenso popolare, come mostrò la verifica referendaria sulla scala mobile.
Per concludere. Se l’orizzonte politico del paese è occupato, indistintamente a sinistra come a destra, dai montiani e anti-montiani, c’è spazio per riprendere quello spirito riformista, quella idea liberale e solidale dell’Italia, che sembra essere stato (e ancora essere) il vero obiettivo dell’offensiva conservatrice che ha sempre accompagnato la storia nazionale?
La linea di frontiera tra montiani e antimontiani non corre lungo le pagine del galateo né va disegnata con la penna a colori di un ritrattista. Essa separa due grandi modelli di società. Accettazione di un sistema di appartenenza politica e di relazioni sociali fondato sulla rigida applicazione delle leggi di mercato (tutto si scompone e tutto si ricompone sotto l’effetto virtuoso della concorrenza libera e assoluta), oppure il riconoscere che l’organizzazione dei grandi soggetti politici e sociali e dei mondi vitali dei corpi intermedi tra persona e istituzione è il modello possibile per una grande comunità sovranazionale europea che, nonostante l’immensa dote di cultura e di sapere accumulato nei secoli, attraversò la tragedia di due guerre mondiali e le barbarie delle ideologie totalizzanti.
A questo punto mi piace chiudere con le parole usate da Carniti sui movimenti di piazza contro il decreto sulla scala mobile, perché è in quella immaturità che ritroviamo i veri mali di oggi. Non è il potere sindacale l’origine dei mali, è, piuttosto il deficit riformistico della sinistra italiana. Ecco le parole di Carniti: “Il ‘Movimento’ di questi giorni è un movimento triste. Perché non ha un orizzonte di speranza. Un movimento triste è un movimento conservatore perché è senza proposte e senza iniziativa. Convoglia motivi di protesta, anche di rabbia, che ci sono tra i lavoratori al di là di questa vicenda. Ma qual è lo sbocco? L’accordo che abbiamo fatto è il più vantaggioso possibile per i lavoratori. Nei paesi dove governa la sinistra i provvedimenti sono stati ben più pesanti. Mi fa piacere che il Pci abbia deciso di mettersi esplicitamente alla testa della manifestazione del 24 marzo. Un po’ perché sono convinto che lo spontaneismo senza padri e con molti padrini apra la strada a soluzioni reazionarie; e poi perché così dovrà spiegare ai lavoratori quali sbocchi politici propone”.
Con il discorso ai banchieri Monti non solo ha dato una base ideologica al gelido tecnicismo dei suoi ministri, ma ha inviato un messaggio ai partiti: il dopo Monti sarà la linea Monti. La linea Monti senza trucchi e senza veli è una linea di destra pulita e di dura destra. A sinistra sono avvertiti. I diversivi su primarie e matrimoni gay non bastano.

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