SEGNALI STRADALI. Per una sinistra che voglia ripartire. di Alberto Benzoni
21 marzo 2019
In attesa di una sinistra radicale, ahimè tanto assorbita dalle sue divisioni interne e dai suoi vecchi riflessi pavloviani da non lasciare alcuna traccia di sé nella vita reale, converrà interessarsi di quello che accade nel vecchio ceppo, socialdemocratico o (negli Stati Uniti) semplicemente democratico.
Qui i segni di una rinnovata vitalità non mancano. Più forti e politicamente consapevoli in Gran Bretagna (dove, non a caso, il partito laburista e il suo leader sono oggetto di un attacco propriamente terroristico) e oltreoceano, dagli stessi Stati Uniti (dove all’interno del partito democratico stanno emergendo posizioni contrapposte) sino al Messico (dove Lopez Obrador ha già realizzato un programma sociale di portata propriamente colossale). Più blandi in Europa continentale dove si passa dal consistente programma di rilancio della domanda interna proposto agli elettori spagnoli da Sanchez ai flebili segnali di ipotetiche buone azioni del Pd (di concreto solo la nomina in direzione di Furfaro e Smeriglio…), attraverso il no della Spd a nuove spese militari in nome della priorità del sociale.
Un percorso corretto. Ma, magari per questo, destinato a urtarsi, da subito, contro formidabili ostacoli. Interni e, soprattutto, internazionali.
Sul primo fronte, Sanders come Sanchez già si trovano di fronte a un fortissimo fuoco di sbarramento (cui si unisce il fuoco amico dei vecchi e rancorosi dinosauri alla Clinton o alla Gonzales: sarà, a Washington l’accusa di “eversione socialista”; sarà a Madrid, l’accusa di tradimento nei confronti della Spagna per il semplice fatto di avere avviato colloqui, peraltro senza esito, con le autorità di Barcellona), da parte di un centro-destra, con forti frange e nostalgie franchiste destinato a fare della “questione nazionale” l’asse della sua campagna elettorale (inutile ricordare qui che, quasi sempre, i temi nazionali-nazionalistici fanno premio su quelli sociali).
Ben più difficili da superare, poi, i “nemici esterni” o, se preferite, gli ostacoli internazionali.
In Europa ne abbiamo addirittura due. Da una parte, l’ordoliberismo, l’austerità, i trattati e la Germania che ne è l’inflessibile custode. Dall’altra, l’America di Trump ma anche di un complesso militare, industriale e di sicurezza, da ben maggiore tempo votato a un disegno centrato sulla necessità di mantenere ad ogni costo e in ogni campo l’egemonia solitaria degli Stati uniti stroncando, con ogni mezzo, coloro che intendano rimetterla in discussione.
A prima vista, il nemico ideale (in questo caso per i socialisti mediterranei e italiani, sempre che esistano) è la Germania di Schauble e della Merkel. Ce lo dice una propaganda incessante, che ci presenta l’Europa tedesca come fonte di tutti i nostri mali. Ce lo conferma la palese incompatibilità tra qualsiasi disegno di rilancio della domanda interna, con l’annesso ruolo dello stato e del pubblico, con le regole e la filosofia comunitaria. Ci sostiene in questa convinzione il vasto mondo populista, apparentemente unito e vincente, proprio nella sua denuncia dell’Europa. E ci sospingono nella medesima direzione gli americani, pronti a venirci incontro e magari a perdonarci per le nostre aperture ai loro principali nemici -iraniani, russi, cinesi- se daremo loro una mano nell’opera di demolizione dell’Europa tedesca.
Personalmente, però, e da socialista, ci penserei mille volte prima di arruolarmi in questa crociata; pur riconoscendomi in molte delle sue motivazioni.
E non mi arruolerei per una serie di ragioni che espongo in ordine di importanza crescente.
Penso, in primo luogo, e parlo dell’Italia, che scaricare su altri- istituzioni, paesi o persone- la responsabilità per un disastro economico e sociale, in gran parte attribuibile alla cecità e/o al servilismo delle nostre classi dirigenti, sia certamente comodo ma altrettanto certamente sbagliato.
Penso poi che sia altrettanto sbagliata l’ossessione per i trattati: non si può considerare la loro modifica come condizione preliminare per qualsiasi azione politica, sia essa a livello nazionale o europeo e al tempo stesso ritenerla una “mission impossible” con l’unica via d’uscita dell’”Italexit”. Apparentemente una scelta di chiarezza; in realtà nullismo puro.
E’ bene poi ricordare, in terzo luogo (anche se i pavidi dirigenti di Bruxelles stentano ad ammetterlo pubblicamente) che il no dei “populisti” all’Europa è di segno completamente diverso; ci sono quelli che la contestano per quello che è attualmente; e ci sono quelli che la rifiutano non per quello che è (agli Orban, ai polacchi e ai baltici l’ordoliberismo va benissimo) ma per quello che dovrebbe essere o dichiara di essere (aperta, pacifica, sede di diritti, garante di ogni libertà e di ogni minoranza, accogliente, dialogante, laica).
Per dirla in altro modo, se l’unica identità politica dell’Europa è quella che abbiamo ricordato, le dirigenze dei paesi dell’Est questa identità la rifiutano fino al punto di volerla cancellare: sostenuti, in questo dalle dirigenze, trumpiane e no, di Washington: la prima che ritiene l’Europa irrilevante, la seconda che ci tiene ad averla completamente subalterna.
Per questo e solo per questo - e qui veniamo al punto decisivo e conclusivo - l’ordine anzi il disordine americano e non il generico ordoliberismo, dovrebbe essere, per i socialisti come per gli europei, il nemico principale. E non per fantomatiche ragioni ideologiche; o per antiamericanismo preconcetto. O per le forme prepotenti e intollerabili in cui si manifesta. Ma perché il trumpismo e il neo imperialismo Usa portano disordine, caos, conflittualità permanente, violazione continua delle sovranità altrui, totale disprezzo per le regole più elementari della convivenza tra stati e tra popoli. E perché in questo universo di disordine, di conflitto che non conosce luoghi di mediazione e di arbitraggio non c’è futuro: né per il socialismo né per l’Europa.
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