SE LA CORRENTE DEL BIBERON VESTE ALLA MARINARA di Emanuele Macaluso dal Riformista del 30 ottobre
30 ottobre 2011
Nello spazio di pochi giorni le “correnti - non correnti” del Pd si sono riunite: a Cortona con Franceschini, a Bologna con Civati e Serracchiani, a Firenze con Renzi. Anche Veltroni e Fioroni hanno promosso “incontri”. Ma, attenzione, i giornali ci raccontano poi le avventure e le disavventure degli “amici di D’Alema”. E infine, c’è la schiera, non sappiamo quanto consistente, dei fedeli del segretario. Se parli con uno dei promotori degli “incontri” la prima cosa che dicono è questa: “non siamo una corrente”. Io non so se si tratta di una somma ipocrisia o se si pensa così di affermare il carattere unitario del partito. Nel Pci, Togliatti chiamava “sensibilità diverse” le divisioni che ci furono nel gruppo dirigente: penso a dopo il XX° Congresso del Pcus nel 1956 e, con più nettezza, dopo il XXII Congresso sovietico nel 1962. Sempre nel Pci, dopo lo scontro politico verificatosi nel 1966 (con Longo segretario) in cui sembrò che si costituissero almeno due correnti, alla fine tutto rientrò e si parlò di “anime diverse”.
Le “anime” si manifestarono anche con Berlinguer. Ma il Pci non c’è più e nel Pds di Occhetto le correnti furono “autorizzate”, e finanziate, dall’amministrazione del Partito. Successivamente, tutto rientrò nei vecchi schemi. Dal Pds ai Ds e poi al Pd, non si è mai capito quali siano le regole della democrazia interna.
Nella vecchia Dc (presa a modello politico da tanti nel Pd) c’erano le correnti che avevano anche un ruolo di elaborazione politico-culturale.
Io ho partecipato a Belgirate, invitato da Marcora e Granelli, alle riunioni della corrente “Base” della Dc. Ho partecipato a Saint Vincent, invitato da Donat-Cattin, alle riunioni di “Forze nuove” dove si svolgevano dibattiti di grande interesse. È vero, poi ci sono state le guerre con l’arma delle tessere, ma certe regole reggevano e grosso modo si capiva cosa volevano i dorotei, i fanfaniani e gli altri. Si capì, dopo la sconfitta elettorale del 1968, cosa voleva Moro che costituì una sua corrente che al congresso ottenne però solo il 7,5 per cento.
Nel Psi, sino a quando ci sono state le correnti, c’è stata vitalità politica. La crisi esistenziale del Psi fu tale perché non ci fu più un’opposizione aperta, come alternativa alla segreteria di Craxi.
Nel Pd non c’è un capo carismatico (e questo a mio avviso è un bene), ma non c’è nemmeno un segretario (eletto addirittura con le primarie) in cui si riconosce, con chiarezza e nettezza, una maggioranza. La quale attua la linea politica approvata dal Congresso.
Che ci siano anche più minoranze è comprensibile e alimentano una dialettica politica. Per la centesima volta ripeto che, non avendo aderito al Pd, i miei consigli possono apparire frutto di una antica polemica. Non è così. E non lo è perché, oggi, fare chiarezza nel Pd significa fare anche chiarezza nell’opposizione e conseguentemente nell’insieme del sistema politico. A mio avviso Bersani dovrebbe riunire la Direzione e esporre, senza se e senza ma, qual’è la strategia del Pd per affrontare questa fase della crisi, quali sono i problemi che vuole affrontare e quale sistema di alleanza prefigura per un governo di alternativa. Dopo chiedere un voto, verificare se c’è una maggioranza e, su quella base, operare. Le minoranze si definiranno anch’esse, non per età, ma per idee e progetti politici.
Se Bersani non fa una scelta netta, continuerà il carosello dei Renzi, dei Civati, dei cinquantenni, dei quarantenni, dei trentenni: sino alla corrente del biberon. Magari incoraggiata da qualche vecchio rincoglionito che si veste alla marinara.