SE IL CARISMA NON BASTA di Ernesto Galli della Loggia dal Corriere della Sera del 10 giugno 2013
19 luglio 2013
Ci sono alcune cose interessanti in comune tra la nascita del Movimento 5 Stelle e la nascita della Lega Nord (a parte l’assai maggiore velocità con cui si sta consumando la parabola del primo). Così come è interessante un aspetto della situazione italiana che le loro comuni difficoltà ci dicono.
M5S e Lega nascono entrambi per impulso di due figure carismatiche, Beppe Grillo e Umberto Bossi, prive di qualunque background o curriculum di tipo politico. Sono loro due che s’inventano tutto, si creano un seguito personale e trascinano al successo la loro creatura. E lo fanno tutti e due attraverso una campagna di agitazione nelle piazze in cui mettono in campo un fortissimo e accattivante (a suo modo) elemento di fisicità personale: troppo forte per essere contenuto in qualsiasi schermo televisivo o per sopportare un qualunque «dibattito» (e infatti entrambi sostanzialmente disertano l’uno e l’altro). L’assenza nella loro immagine e nel loro discorso di qualunque tratto politico tradizionale li avvantaggia enormemente (così come all’inizio avvantaggia Renzi che però, obbligato a interloquire sempre di più con un organismo super politico come il Pd, riuscirà con sempre maggiore fatica a mantenere questo tratto e a non perdersi nella chiacchiera e nelle ritualità «politichesi »). È così infatti che essi riescono a intercettare la sacrosanta protesta dal basso—confusa, umorale, spesso violenta e volgare— di un’opinione pubblica stanca principalmente proprio delle forze politiche tradizionali e della loro enorme inadeguatezza. Nell’interpretare questa protesta li unisce ancora un elemento comune. Entrambi le danno uno sfondo utopico: Bossi il separatismo del Nord-nazione, Grillo il miraggio della Rete e della democrazia diretta all’insegna della trasparenza universale. Qui però iniziano per tutti e due i problemi: l’utopia, infatti, va bene per mobilitare, per spingere ad andare oltre l’oggi; ma se poi hai successo, è all’oggi, alla politica attuale, che in qualche modo devi inevitabilmente tornare.
Un ritorno per il quale la Lega è comunque in un certo senso attrezzata. L’elemento territoriale della sua utopia di partenza le ha consentito in modo abbastanza naturale, infatti, di trasformarsi in un partito degli interessi locali, in un partito di sindaci e assessori, accettando a livello nazionale un ruolo puramente gregario: importante ma pur sempre gregario. È sul Movimento 5 Stelle, invece, che le contraddizioni mordono con maggiore furia.
Quella certamente più evidente è la contraddizione tra carisma e leadership. Agitare una folla ed emozionare nei comizi è una cosa, guidare un gruppo di eletti al Parlamento in base a qualche strategia un’altra. Grillo ha mostrato di avere il carisma, ma sta mostrando di non sapere come trasformarlo in una leadership. Cioè in qualcosa che ha bisogno di almeno tre elementi: un’idea di fondo sufficientemente realistica delle cose da fare, riuscire a inventarsi una struttura organizzativa, e infine la capacità non già di farsi obbedire ma di convincere. Il passo dal carisma alla leadership non gli riesce probabilmente per un’insicurezza personale di fondo. Infatti, mentre egli ha assoluta padronanza del primo, per quanto riguarda la seconda, invece, è consapevole di non sapere neppure da dove si comincia.
Nella difficoltà - oggi per il Movimento 5 Stelle e il suo capo, ieri per la Lega di Bossi - di trasformare un successo elettorale in una leadership in grado di animare una vera presenza politica capace di ulteriori sviluppi si scorge in realtà un dato rilevante della situazione italiana. E cioè che da decenni ciò che nasce dal basso come genuino movimento di protesta e di rinnovamento della politica non riesce in alcun modo a liberarsi del connotato intellettualmente elementare e ingenuamente protestatario, antropologicamente plebeo-piccolo borghese, con cui vede ogni volta la luce. Non a caso elegge rappresentanti (vedi i parlamentari grillini attuali o tanti della Lega) i quali brillano quasi tutti per pochezza concettuale mista a insulsa prosopopea, sicché alla fine ciò che nasce dal basso come qualcosa di «nuovo» e «contro», e magari ha un iniziale successo, è però fatalmente condannato a un tramonto più o meno rapido nelle mani di un padre-padrone carismatico desideroso di restare tale per sempre, anche se ormai inutile.
Si sconta così il fatto che da questo «nuovo» le élites socio-culturali della Penisola sono ogni volta assenti. Ma non già solo perché tenute lontano dalla volontà del padre-padrone di cui sopra o dai meccanismi di consenso che egli produce. Sono assenti anche perché le élites italiane, pur se critiche, criticissime, delle condizioni del Paese e della qualità della sua classe politica accreditata - come da esse si ascolta sempre quando si sentono libere di esprimersi - tuttavia preferiscono l'immobilità. Hanno ereditato una sorta di timore atavico a schierarsi davvero all'opposizione del «sistema» nel suo complesso, a diventare fautrici di un vero rinnovamento. Hanno sempre timore di «esporsi», di mettersi in gioco senza paracadute, senza avere qualche forma di garanzia, come minimo un posto assicurato in Parlamento. Anche per questo in Italia è sempre così difficile mettere termine a ciò che non ha più ragione d'essere, spalancare le finestre, tentare strade diverse, inventare procedure inedite, chiamare gente nuova. Perché le élites del Paese, pure se a parole lo negano, in realtà sono come ostriche attaccate al passato, e le uniche novità che gradiscono sono quelle che vengono dall'alto: che però, come si sa, almeno qui da noi troppo spesso sono quelle famose novità che non cambiano nulla. Mentre ciò che ha in sé qualcosa davvero di nuovo finisce per avvizzire nella sua solitaria autoreferenzialità.