SE FOSSI IL CAPO… di Alberto Benzoni del 10 dicembre 2020
10 dicembre 2020
Se
(ho detto se) fossi il capo di un ipotetico (ho detto ipotetico) partito
socialista, il mio primo provvedimento sarebbe quello di proporre una moratoria
di almeno un anno sull’uso del termine “riformismo” o, peggio ancora,
“riformista”.
Come
cittadino di questo paese, perché la sua pratica isteroide - detta “riformite”
- lo ha incasinato ad un punto tale da renderlo irriformabile; e anche perché
un termine che può essere manipolato da tutti non significa nulla.
Come
socialista, perché aggiungere l’aggettivo, come precisazione o, peggio ancora,
come correttivo è totalmente inutile e, anche per questo, rappresenta un
insulto all’intelligenza e, temo, anche al socialismo.
“Socialisti
e”; messa così, la puntualizzazione è, ovviamente, pleonastica.
Se
poi si volesse dire (l’unica spiegazione possibile) “socialisti ma”, ogni
sospetto diventerebbe lecito. Soprattutto in un contesto, come l’attuale, in
cui l’unica rivoluzione da prendere in considerazione è quella annunciata dalla
pubblicità mentre è tabù per quanto riguarda l’ordine sociale; e in cui è
scorretto, ma lecito, proporre di ributtare in mare gli immigrati ma
pregiudizialmente improponibile chiedere di tassare i patrimoni o riproporre il
reddito di cittadinanza.
Così
stando le cose nel “socialismo (ma) riformista” l’aggettivo fa premio sul
sostantivo. O, per dirla più volgarmente, quest’ultimo ha il valore di una
sigla che garantisce l’identità del proprietario del negozio ma non ha niente a
che fare con la natura delle merce. Perché questa viene acquistata altrove; con
il risultato paradossale di avere come nostri garanti e ispiratori, personaggi,
come Calenda, Renzi e la Bonino, magari anche validi, ma che con il socialismo
non hanno sicuramente nulla a che fare.
L’idea
di fondo alla base di questo atteggiamento liquidatorio è che il socialismo,
almeno in Italia (ma probabilmente anche altrove) non abbia un futuro. Un’idea
che è alla base della svolta nenciniana del 2013; ma che, non a caso, non è
stata mai espressamente formulata; semplicemente perché insostenibile. Anche
nel nostro ambiente.
A
metterci in guardia il fatto che, a decretare la morte del socialismo, siano da
una parte i custodi tradizionali del pensiero unico e dall’altra i suoi adepti
dell’ultim’ora. Quei comunisti che ci hanno spiegato per decenni: che la
rivoluzione era materia da affidare non a masse incolte e impreparate ma a
professionisti specializzati sulla materia; che si manifestava con un Evento,
tale da marcare la netta separazione tra il prima e il dopo; che questo evento
si riassumeva nella conquista del potere; e, infine, che il socialismo reale
stava vincendo la partita perché l’Etiopia di Menghistu o l’Angola di Dos
Santos si erano dichiarate tali. E che, visto crollare tutto questo come un
castello di carte, hanno inseguito la Storia schierandosi dalla parte dei
vincitori senza se e senza ma.
Tradotto
in parole povere, il loro messaggio è questo: “vi abbiamo portato nella terra
promessa perché eravamo i soli in grado di farlo. E se questa non si è rivelata
tale è perché non esiste. E, allora, tutti a casa”.
Ma
questo messaggio non ci riguarda. Perché il sole dell’avvenire non è un luogo
che si raggiunge seguendo percorsi prefissati e con guide autorizzate ma un
astro che illumina e dà speranza ad un cammino che non prevede successi
definitivi o itinerari precisi; perché, in questo caso, il movimento è, di per
se stesso, l’obbiettivo permanente e il fattore di riscatto.
Mi
si dirà che oggi questo fiume si è inaridito. Ma forse ha ripreso a scorrere e
siamo diventati incapaci di vederlo.
E
mi si dirà, ancora che la crisi della sinistra (e del socialismo) è stata
oggetto di centinaia e centinaia di convegni; tutti, senza alcun risultato.
Ma
questo non significa nulla. Perché parlarsi addosso aggrava il problema. Perché
un fatto e un evento contano più di qualsiasi discorso. E, infine perché, al
dunque, il socialismo ripartirà dalle viscere di molti e non dal cervello di
pochi.
Riprendiamo,
dunque, il cammino. Anche con nuove forze, non corrose nel profondo da frustrazioni,
rancori e fallimenti.
Nessuno,
naturalmente, è obbligato a credere nel futuro del socialismo, ivi compresi i
titolari della sigla. Nessun problema: basta dirlo; e, almeno per un anno,
evitare di intortare se stessi e noi con la parola “riformismo”. Per loro un
momentaneo sacrificio; per noi un grande sollievo.