SCUSATE ESISTE LA QUESTIONE SALARIALE, IN ITALIA Non so se ve ne sono accorti di Michele Achilli dal Riformista del 20 dicembre 2022
20 dicembre 2022
Se mai mi venisse richiesto di dare
un parere, o meglio un giudizio, sulle ragioni della crisi del Partito
democratico, proporrei di ripercorrere la sua storia, analizzando la condizione
delle sue componenti, frammenti usciti entrambi malconci dalle vicende della
fine del secolo scorso.
Da un lato gli epigoni del Partito Comunista, nolenti o incapaci di sviluppare un esame
critico della loro ideologia, delusi dalla strategia giudiziaria che avevano
accompagnato con favore, tentando di crearsi una nuova verginità affidandosi
all’inutile lemma “democratico” e alla quercia, simbolo di una solidità che si
era dissolta.
Sull’altro fronte i democristiani sopravvissuti alle vicende
di “mani pulite” che avevano decimato il gruppo dirigente del partito, e che,
al contrario del PCI avrebbero potuto tenere vive le ragioni positive del loro
percorso politico, preoccupati e ansiosi di recuperare il potere a loro sottratto
dall’imperante berlusconismo.
L’unione di due debolezze, dettata più da ragioni elettorali
che non da una convinta comunanza di programmi di governo, non poteva condurre
ad una solida alleanza; la breve primavera prodiana si era dissolta, incapace
di dare risposte convincenti ad una società totalmente mutata, spalancando le
porte al populismo leghista e poi al grossolano e sguaiato demagogismo dei
Cinquestelle.
Così negli ultimi trent’anni l’Italia è stata governata da
coalizioni di destra o “uliviste” o, peggio ancora, nell’ultima legislatura da
un insieme eterogeneo di incapaci, salvati in extremis dal
commissariamento di Draghi.
Tra le gravi carenze che vanno denunciate primeggia la scarsa
attenzione al mondo del lavoro, alle sue esigenze, lasciando ampi spazi alle
forze economiche dominanti, guidate da una crescente ed abnorme
finanziarizzazione, anche a scapito delle logiche produttive, quando non erano
prevalenti le politiche indirizzate, in via prioritaria, alla ricerca del puro e semplice consenso elettorale.
La mancanza di una forza politica che ponesse come elemento
prioritario il problema del lavoro, delle condizioni dei lavoratori sia sul
piano della produttività, dei salari, della stabilità del posto del lavoro è
una delle cause della crisi della sinistra in Italia.
Le maggiori responsabilità, al di la della politica, vanno
ricercate nel fronte imprenditoriale, ma anche il sindacato non ha mai posto
con forza il problema salariale, così come non si può ascrivere questa carenza
alle condizioni generali dell’economia. Per anni si sono enfatizzati gli
incrementi dei dati dell’esportazione, particolarmente significativi, ma
certamente da attribuire, in parete sostanziosa, ai bassi costi del lavoro che,
come conseguenza generavano un basso livello dei consumi interni, causa non
secondaria della debolezza dell’economia.
Statistiche pubblicate recentemente hanno evidenziato che i
salari in Italia nell’ultimo trentennio sono diminuiti del 2,9% a fronte di
aumenti, negli altri paesi europei, che vanno da una media del 30% con punte
del 60% in Svezia. Cos+ come le dinamiche di crescita. Tra il 1996 e il
2013 l’OCSE afferma che in Italia , tra
i 28 paesi dell’Unione Europea, registra gli incrementi minori con un + 2,1% mentre la Francia raggiunge + 18%, la Spagna il 24 , la Germania il 25 e
i paesi del Nord il 47. Se poi
consideriamo che il salario reale è costituito dalla somma del salario monetario e dai servizi sociali, non
possiamo che denunciare che Stato centrale e Regioni non hanno brillato sia nel
campo dell’istruzione che di quello della sanità (insegnanti, medici
ospedalieri fin agli infermieri hanno le retribuzioni più basse di tutta
Europa, il che si riflette inevitabilmente sulla
qualità dei servizi).
E’ mancata in Italia la componente socialista che in tutta
Europa ha garantito la crescita dell’economia e le condizioni di vita dei
lavoratori.
In Italia i socialisti sono scomparsi, uniche vittime
politiche dell’infausta stagione delle “mani pulite”, della loro
criminalizzazione, mentre sarebbe finalmente giunto il momento di una
riflessione approfondita su quel periodo, sulle responsabilità globali e sulle
pesanti interferenze internazionali che hanno affossato la cosiddetta “prima
repubblica”.
A questo proposito è bene ricordare date e fatti per non
incorrere in un elogio generico ma per certificare con elementi probanti che in
Europa, come in Italia, siano stati i partiti socialisti negli anni settanta e
ottanta del secolo scorso ad introdurre le riforme che hanno promosso e seguito
l’evoluzione della società. Si può senza tema di errore condividere quel che
affermava l’Internazionale
Socialista:”Il più dinamico impulso verso i cambiamenti sociali si è avuto in
quei paesi dove i Partiti socialisti e socialdemocratici hanno potuto
esercitare una effettiva influenza”.
Ciò vale soprattutto nel campo dei diritti dei lavoratori e
delle loro condizioni di vita. In Italia l’esempio fondante l’approvazione nel
1970 dello Statuto dei lavoratori che ha modificato profondamente la condizione
degli operai nella fabbriche, con ricadute negli altri posti di lavoro, seguito
poi dalle leggi sanitarie con l’istituzione dei Centri Ospedalieri Pubblici e
del Servizio Sanitario Nazionale; in Germania, negli stessi anni, analoghi
provvedimenti per la sanità Pubblica e l’istruzione con l’approvazione nel 1976
del “Codice di Sicurezza Sociale” che regola tuttora le attività sociali dello
Stato e la legge sulla”cogestione” che regola tuttora la partecipazione attiva
dei lavoratori ai processi decisionali delle aziende e ai criteri della
ripartizione degli utili ; in Francia, alla fine degli anni ‘70 Mitterand
approva il nuovo piano sociale con un aumento del salario minimo del 40%, degli
assegni familiari del 25% ed il rafforzamento del sistema sanitario pubblico.
In Svezia, su solco del Piano Meidner, i provvedimenti più
rilevanti sono: la legge sulla sicurezza del lavoro (1974) che regola
l’assunzione e i licenziamenti, pone limiti all’occupazione a tempo parziale e
riconosce al Sindacato il diritto di partecipare alle politiche di assunzione
delle imprese (con la ripresa di alcuni concetti del nostro Statuto) e la legge
sulla “cogestione” (1973) che riconosce al Sindacato il diritto di eleggere due
rappresentanti permanenti nei Consigli di Amministrazione delle aziende con più
di 25 addetti.
A questi potremmo aggiungere altri significativi
provvedimenti di altri paesi europei dove i socialisti, con grande
partecipazione popolare, modificarono profondamente l’assetto politico
centrista dei decenni precedenti, così come oggi occorre un analogo sforzo di
rinnovamento per reagire al neoliberismo imperante che tende a irrigidire i
rapporti di lavoro e a privatizzare ampi settori dei servizi pubblici.
A questo sforzo è impegnato il grande mondo socialista di
tutti i continenti: non si sottrarrà certo un rinnovato Partito democratico,
lasciando finalmente trucchi nominalistici per accettare, finalmente, il
percorso che viene anche suggerito da autorevoli settori della sinistra
italiana. Collegandosi seriamente alla tradizione socialista che, non solo in
Europa, sta interessando le giovani generazioni.
In poche parole occorre associare al “democratico” la
qualifica “socialista” superando definitivamente la scissione di Livorno
perché, come dice Giustiniano: NOMINA SUNT CONSEQUENTIA RERUM.